Introduzione

Se ci si pone questa domanda e viene subito in mente una risposta negativa, è per almeno tre motivi che non possono essere scartati senza considerare tutte le loro conseguenze.

La prima ragione viene in mente quando con un certo stupore misto a meraviglia scopriamo i testi straordinariamente ricchi e intelligenti di Tommaso d’Aquino, Giovanni Duns Scoto, Ruggero Bacone e San Bonaventura non a caso definiti rispettivamente dottor angelico, dottor sottile, dottore mirabile e dottore serafico. La medesima sorpresa la abbiamo di fronte a dei metafisici che furono anche dei matematici, come Platone, Cartesio, Pascal, Leibniz e Guénon. È vero che, ad eccezione di Platone, da un certo punto di vista, costoro non furono teologi, anche se alcuni di loro si occuparono di precise questioni teologiche (grazia, transustanziazione, ecc.). È significativo, a proposito del fatto che non è vero che l’intelligenza si eserciti quasi solo esclusivamente sulle questioni scientifiche, che “della massa di manoscritti lasciati da Newton [il grande scienziato che sintetizzò la fisica e l’astronomia con la teoria della gravitazione universale], la metà riguardino proprio la teologia, un quarto l’alchimia (121 trattati) e un quarto la fisica” (Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, riedizione coll. Théôria, L’Harmattan, 2009, p. 60, nota 145). Attraverso la teologia accediamo a un’intelligenza (ovvero a una comprensione) dei misteri cristiani prima insospettabile (da noi “insospettabile”, perché Origene e S. Agostino sono geni della teologia, almeno alla pari con i dottori medievali).

La seconda ragione viene dalla meditazione sulla dogmatica cristiana. Come ci ha ricordato Jean Borella (Problèmes de gnose, L’Harmattan, 2007, cap. VII), la dogmatica è l’espressione o la formulazione, la più trasparente possibile, dei misteri cristiani e si colloca tra la rivelazione e la teologia – caso unico tra le tradizioni religiose, dato che queste ultime hanno “classicamente” una rivelazione (scritta o meno) che formula e delle teologie che interpretano. Lungi dal costituire un’interpretazione – che è appunto il ruolo delle teologie, nessuna delle quali, nemmeno quella di San Tommaso d’Aquino, è mai stata canonizzata (anche se l’enciclica di Leone XIII Æterni Patris [4 agosto 1879] ha definitio “la dottrina del Dottore comune come norma delle scienze filosofiche e teologiche”; Jean Borella, Le sens du surnaturel, Ad Solem, Ginevra, 1996, p. 83) – la dogmatica si presenta come una nuda formulazione (Problèmes de gnose, ibid.). Ci sembra che il mistero cristiano sia di un’intelligenza ineguagliabile. È per questo che alcune delle più grandi menti della storia hanno potuto dedicarvi la loro intera vita. La dogmatica ha fissato dei punti fermi e impedendo qualsiasi deriva interpretativa “aneddotica” è riuscita a trasmettere per duemila anni e oltre la comprensione del mistero cristiano (quest’ultimo presentato sotto forma di “paradosso massimo”: su questo si veda il nostro libro, Introduction à une métaphysique des mystères chrétien, en regard des traditions bouddhique, hindoue, islamique, judaïque et taoïste, L’Harmattan, 2005, imprimatur della diocesi di Parigi), mostrandolo soprattutto in relazione ai misteri della Trinità e di Cristo (cfr. Parte 1: “La Trinità cristiana”, capitolo 1. La risoluzione dei paradossi – approcci concettuali e dottrinali e Parte 3: “Il Cristo cristiano”, capitolo 11. Una sintesi paradossale universale – approcci concettuali e dottrinali).

Il terzo motivo, antropologico, si riferisce alla “natura” dell’uomo, e in particolare alla dimensione essenziale della sua “intelligenza”. Da qui in poi, l’uomo non può non essere intelligente, è fatto per essere intelligente, è “gnostico” per natura. Si pone allora la questione, qui acuta, della funzione di questa intelligenza umana e, in particolare, del suo possibile ruolo di fronte alla rivelazione. Cosa può pretendere di sapere l’uomo? Come si coniugano credenza e conoscenza?

Ci sembra che definire l’intelligenza sia il primo passo giusto. Poi potremo vedere come si applica al mondo (cosmologico) e a ciò che va oltre il mondo (metafisico). Sarà allora certamente più facile comprendere dottrine come la “pneumatizzazione dell’intelletto” (cfr. l’insegnamento di San Paolo) e, paradossalmente, prevedere la vera “gnosi” che è quella delle “intelligenze che sanno chiudere gli occhi”(Formula di San Dionigi l’Areopagita, Teologia mistica, 997 A & B). Ciò farà indubbiamente luce sulla domanda che dà il titolo a questo saggio e ci permetterà di elaborare una risposta.

L’intelligenza

1. Dobbiamo subito scartare la definizione pragmatica di intelligenza come misurabile in psicologia. Infatti, alla domanda: “Che cos’è l’intelligenza?”, gli inventori del famoso test risposero: “Ma è proprio questo che il nostro test misura” (Questa risposta pragmatica di Binet e Simon significa che, per loro, non esiste l’intelligenza in sé, l’intelligenza non è “qualcosa” che può essere definito. L’unico modo per vederla è in termini pratici: l’intelligenza consiste nel superare compiti e risolvere problemi). Per “intelligenza”, quindi, non intendiamo agilità mentale o attitudine all’aritmetica mentale.

2. Dobbiamo anche abbandonare la definizione kantiana di intelligenza come “comprensione”, un intermediario tra senso e ragione, una definizione che in definitiva è facile da confutare. A prima vista, si tratta di una semplice inversione di vocabolario tra “ragione” e “intelligenza”, ma occorre ristabilirla. L’origine di questa infelice inversione risiede senza dubbio nella relativa confusione di Cartesio tra i due termini (l’equivalenza tra ratio e intellectus si trova nella Seconda Meditazione Metafisica; Jean Borella, La charité profanée, Éd. du Cèdre, Paris, 1979, pp. 126-127, ripubblicato dalle Éditions Dominique Martin Morin e poi da L’Harmattan) – solo “relativo”, perché il metafisico conserva per la ragione il suo potere di conoscenza intuitiva (intellectus intuitivus) (Per esempio: “Non posso dubitare di nulla di ciò che la luce naturale mi mostra come vero […] E non ho in me nessun’altra facoltà o potere di distinguere il vero dal falso, che possa insegnarmi che ciò che questa luce mi mostra come vero non lo è, e su cui possa fare affidamento tanto quanto su di essa”, Méditations, AT IX-1, p. 30), senza la quale l’uomo non è in grado di distinguere il vero dal falso e senza la quale non ci sarebbe metafisica possibile (cfr. La charité profanée). Ma, avendo fatto della ragione (Vernunft) la facoltà superiore del pensiero, Kant vedrà ora nella comprensione (Verstand, intellectus) solo l’attività conoscitiva inferiore: quella che dà al dato sensibile, cioè alla materia della sensazione e alla forma dello spazio e del tempo, una forma concettuale (“Tutta la nostra conoscenza comincia con i sensi, passa da lì alla comprensione e finisce con la ragione. [Abbiamo definito l’intelligenza come potere delle regole; qui distinguiamo la ragione dall’intelligenza chiamandola potere dei principi”; Critica della ragion pura (tr. it.). Fr. Alexandre J.-L. Delamarre et François Marty in Œuvres philosophiques, édition Ferdinand Alquié), tomo I, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), 1980, pp. 1016-1017. “I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono ciechi. […] La comprensione non può intuire nulla, né i sensi possono pensare nulla. Solo dalla loro unione può nascere la conoscenza”; Critica della ragion pura, trans. Tremesaygues e Pacaud, P.U.F., p. 77). Ma questa inversione è in realtà una negazione, la negazione dell’intellectus (intelletto intuitivo): “l’intuizione intellettuale, infatti, non è nostra, e […] non possiamo nemmeno prevederne la possibilità”, scrive (Critica della ragion pura, trad. Tremesaygues e Pacaud, P.U.F., p. 226.)). Se Kant nega l’intuizione intellettuale, è semplicemente perché la immagina, sul modello dell’intuizione sensibile, come avente un oggetto davanti a sé. Tuttavia, “al di là della conoscenza per osservazione, c’è spazio per la conoscenza per partecipazione2. Conoscere una cosa, nelle parole di Kant, è certamente costruire un concetto nell’intuizione sensibile ma, soprattutto, è essere “afferrati intellettualmente da un senso, da un intelligibile, che ‘riconosciamo’ più che conoscerlo”3. Aggiungiamo, sempre seguendo Jean Borella, che la contraddizione kantiana sta nel progetto stesso della critica della ragion pura, una critica che la ragione dovrebbe svolgere da sola, mentre il limite posto da Kant stesso: “Ciò che limita deve essere diverso da ciò che serve a limitare” (Critica della ragion pura, francese trans. Barni, G.F., “8e section des antinomies”, in fine, p. 428; La crise du symbolisme religieux, op.cit., p. 321) rende obsoleto tale progetto. A differenza di Kant, per il quale non solo l’intelligenza si limita (“l’intelligenza si pone immediatamente dei limiti che le impediscono di conoscere le cose per mezzo di categorie”; Critica della ragion pura, fr. trans. T. et P., P.U.F., p. 229), ma la ragione si limita limitando il suo uso teorico attraverso l’uso pratico (“Ecco finalmente spiegato quell’enigma della critica che consiste nel sapere come sia possibile, nella ragione speculativa, negare la realtà oggettiva all’uso soprasensibile delle categorie, e tuttavia riconoscere questa realtà in esse in relazione agli oggetti della ragione pratica”; Critique de la raison pratique, Pléiade, II, p. 612), la ragione non può limitarsi. Al contrario, se possiamo prendere coscienza dei limiti della ragione, è perché c’è in noi una potenza intellettuale superiore alla ragione e quella conoscenza gode della sua interna illimitatezza: l’intelletto o la conoscenza (è tutt’uno) è più di ciò che conosce e del soggetto conoscente (La crise du symbolisme religieux, pp. 322-323. “Tous kantiens” (“Tutti i kantiani”), per dirla con Émile Poulat, è il titolo di un articolo di Jean Madiran (Présent, 3 aprile 2009), occasione per sottolineare che nascere kantiani – o modernisti – non è sempre stato questo quasi-fatalismo “che il XX secolo ha lasciato in eredità al XXI”. Così, prima di Émile Poulat, Jean Borella e altri, è stato rifiutato da Maurras e Péguy, confutato da Gilson, criticato da Maritain, ecc. Aggiungiamo che Claudel si rallegrava pubblicamente “del fatto che Aristotele lo avesse liberato dal kantianismo” (intervista degli anni ’50, trasmessa su France Culture il 25 luglio 2005) o, ben prima di tutti questi autori, poco dopo la morte di Kant (1804), Tchaadaev (1794-1856), “dopo aver letto la Critica della Ragion Pura, la chiamò Apologet adamitischer Vernunft, dottrina della ragione decaduta e pervertita” (Paul Evdokimov, Le Christ dans la pensée russe, Paris, cerf, 1970, p. 40 ). Molto recentemente, rivolgendosi agli scienziati, Claude Tresmontant ha parlato di paleo- e neo-positivismo, “un ritornello sinistro […] che in realtà deriva dal kantianismo” (“Les métaphysiques principales”, O.E.I.L., 1989, p. 4).

3. Arriviamo così a questa definizione di intelligenza, distinta dalla ragione perché “viene da fuori” (o “dalla porta”), come già diceva Aristotele (Sulla generazione degli animali, II 3, 736 a, 27-b 12). Certo, dato il suo stato psicocorporeo, è vero che per l’uomo “nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu” (nulla è nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi), ma solo nella misura in cui si aggiunge la correzione leibniziana: “nisi ipse intellectus” (se non l’intelletto stesso), (Nuovi saggi sulla comprensione umana, Libro II, cap. 1, § 2; Jean Borella, Le mystère du signe, Éditions Maisonneuve & Larose, Paris, 1989, p. 240 (ristampato in Histoire et théorie du symbole, coll. Delphica, l’Âge d’Homme, Lausanne, 2004)! Questo duplice aspetto della mente può sembrare sottile, ma la ragione – norma del pensiero discorsivo, doppiamente soggetta all’oggetto che guarda e alla logica che lo inquadra – non può essere equiparata all’intuizione intellettuale. Se la ragione dispiega un ragionamento, è infatti l’intelligenza a comprenderlo, e nessuno può costringere nessuno – nemmeno se stesso – a comprendere ciò che rimane incomprensibile (Simone Weil lo mostrava bene quando concludeva: “L’intelligenza, nel suo atto di intellezione, è perfettamente libera, e nessuna autorità, nessuna volontà, nemmeno la nostra, ha potere su di essa: non possiamo costringerci a comprendere ciò che non comprendiamo”; citato da Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, p. 291). Il processo di acquisizione della conoscenza (e di accertamento della sua validità) non è certo intuitivo: per scoprire ciò che non conosce, la mente procede discorsivamente, attraverso l’indagine, il ragionamento, la deduzione, ma l’atto conoscitivo vero e proprio “non può che essere la ricezione diretta del dato intelligibile” (“La mente è uno specchio, ma è l’intelligenza che vede”, dice Jean Borella, La charité profanée, p. 84). L’atto conoscitivo in quanto tale è quello “con cui un oggetto conosciuto si unisce direttamente a un soggetto conoscente, in una sorta di trasparenza reciproca che è l’esperienza stessa dell’intelligibile” (Lumières de la théologie mystique, p. 124). Così come la luce che infonde un cristallo non è prodotta dal cristallo, l’intelletto, in atto e nella sua essenza sovraumana, è increato e increabile (Maestro Eckhart, Quæstiones Parisienses. Questio Gonsalvi. Rationes Equardi, 6; Magistri Eckhardi Opera latina, Auspiciis Instituti Sanctae Sabinae, ad codicum fidem edita, edidit Antonius Dondaine o.p., Lipsiæ in ædibus Felicis Meiner, 1936, p.17. J. Ancelet-Hustache ha riassunto l’essenza di questa questione nel primo volume della sua traduzione dei Sermoni (tedeschi), Seuil, 1974, pp. 27-30; Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, p. 322). Ciò si riflette nella dottrina dell’intelletto come senso dell’essere.

Intelligenza e realtà

Intelligenza e realtà fisica

Dire che il ruolo dell’intelletto è quello di essere un “senso del reale” significa osservare che l’atto intellettuale primario è essenzialmente un’intuizione del reale in quanto tale, una consapevolezza che c’è la realtà, o, detto in altro modo: l’essere ha un significato per l’intelletto (La Crise du symbolisme religieux, p. 288. corsivo nostro). La nostra “coscienza di intelligibilità”, la nostra “esperienza semantica” è questa constatazione che l’idea dell’essere ha la sua ripercussione semantica nella nostra intelligenza, anche se ciò non può essere spiegato da alcuna genesi. Questa disposizione metafisica è dunque innata e immediata; ed è proprio l’immediatezza di questa esperienza ontologica che ce la rende direttamente inaccessibile, così come non possiamo vedere la luce che ci fa vedere, se non indirettamente (Jean Borella, Penser l’analogie, Ad Solem, Genève, 2000, p. 111).

Per questo, non è l’essere stesso dell’oggetto conosciuto che viene accolto nell’intelletto, ma la sua modalità intelligibile, spogliata dell’esistenza individuale dell’oggetto stesso; “l’atto di conoscenza si realizza quindi solo a prezzo di una sorta di derealizzazione”. Tuttavia, questa “conoscenza è reale, è addirittura la funzione del reale per eccellenza”: “c’è solo l’essere per la conoscenza”. È questo che rende paradossale la situazione dell’intelletto: è al tempo stesso fuori dal reale e legato al reale. È dunque questa illuminazione “da altrove”; è dunque di un’altra natura, di un altro grado di realtà rispetto a quello che illumina. Jean Borella direbbe che “il contenuto conoscitivo dell’intelletto supera il grado di realtà della sua manifestazione: in altre parole, [che] è trascendente ad essa” (La charité profanée, pp. 123-125). E deve esserlo, poiché tutto ciò che si manifesta non è mai del tutto presente, poiché la sua radice invisibile, la sua causa e la sua fonte rimangono sempre non manifestate.

Intelligenza e realtà soprannaturale

Ciò che è vero per la realtà “visibile” o fisica (la natura), a causa dell'”organo trascendente” dell’intelligenza, è a fortiori vero per la realtà soprannaturale, di cui l’intelligenza è parte. Così Frithjof Schuon potrebbe dire che “l’intelletto è naturalmente soprannaturale o soprannaturalmente naturale” e questa “dimensione naturalmente soprannaturale dell’intelletto […], San Tommaso [l’avrà] indubbiamente insegnata” (“In San Tommaso, l’intero mistero divino è già presente nella natura stessa dell’intelletto”, Lettres de Monsieur Étienne Gilson au père de Lubac, Cerf, 1986, lettera del 21 giugno 1965, p. 76; Le sens du surnaturel, pp. 83-84 e n. 2, p. 84), a dispetto del neotomismo che, ansioso di evitare la critica kantiana, ha stabilito “in linea di principio una distinzione radicale tra l’ordine della conoscenza naturale e quello della conoscenza soprannaturale”; Le sens du surnaturel, p. 83).

È infatti in questa radicale separazione che risiede il paradigma del pensiero “modernista” (questa “eresia”, che Papa San Pio X ha chiamato molto accuratamente “modernismo”, si verifica quando la consapevolezza di una realtà, che è già “sostanza delle cose che si sperano” (Eb 11,1), viene cancellata dalla moderna suggestione occidentale che non esista una realtà “altra”, una realtà soprannaturale; cfr. San Pio X, Enciclica di San Pio X, p. 83). San Pio X, Enciclica Pascendi (1907); Le sens du surnaturel, pp. 59-72), che appunto non può più pensare il soprannaturale. L’origine attuale di questo paradigma può essere visto nell’errore galileiano (con la fisica meccanicistica di Galileo, infatti, il mondo è un puro contenitore spazio-temporale indefinito, senza forma, senza proprietà e senza relazione fisica con nessuno dei fenomeni che si verificano in esso). La rivoluzione paradigmatica della fisica all’inizio del XX secolo (relatività generale, fisica quantistica) non ha ancora cancellato del tutto questa superata visione galileiana ormai obsoleta e la sua formulazione più compiuta, nella sua attuazione filosofica, in Kant.

Per convincersene, basta tornare all’immutabile insegnamento di Platone, per il quale la concezione dell’universo “deriva per illustrazione sensibile da ciò che, in sé, è invisibile e trascendente”. È “nella sua stessa sostanza” che il mondo “è dotato di una funzione ‘iconica’” (La Crise du symbolisme religieux, p. 54); è, dice Platone, “di necessità l’immagine di qualcosa” (Timeo, 29b; La Crise…, p. 40), cosicché ogni cosmologia può essere solo “un mito plausibile (ton eïkota muthon)” (Timeo, 29d; ibid.).

Se, per Platone, “la nostra scienza della natura rimane ipotetica, non è per la debolezza della nostra intelligenza; è per la mancanza di realtà dell’oggetto da conoscere. Di conseguenza, l’unica conoscenza adeguata ad un essere deficiente è la conoscenza simbolica, perché essa pone innanzitutto il suo oggetto per quello che è, ovvero un simbolo, ma un simbolo reale, cioè un’immagine che partecipa ontologicamente al suo modello” (è questo “realismo simbolico” e cioè “l’idea di simbolo che ci permette di pensare l’idea di realtà”; Jean Borella, Symbolisme et Réalité, pp. 29-32); il che significa che “il platonismo non è idealismo” in nessun grado; La crise du symbolisme religieux, p. 31, n. 47. Sottolineatura aggiunta).

La pneumatizzazione dell’intelletto

Abbiamo visto che il paradosso dell’intelletto consiste nel fatto che “può ricevere in sé la conoscenza di tutte le cose solo perché non è nessuna delle cose che conosce” e che, analogamente, il paradosso della conoscenza è che “è una fusione anticipata di soggetto e oggetto, ma [che] la anticipa soltanto perché non la realizza” (Questa dottrina è esposta in La charité profanée, pp. 131, 160-163, 387, 398, 401-408).

Per realizzare tale fusione è necessaria una vera e propria “pneumatizzazione dell’intelletto”, altrimenti l’intelletto non è mai più che l’aspetto conoscitivo della mente e, anche se è quindi essenzialmente identico ad essa, l’esperienza ordinaria non è mai più che quella del solo intelletto. D’altra parte, una tale “pneumatizzazione dell’intelletto” rivelerà la connaturalità o l’identità essenziale dell’intellectus e dello spiritus, come mostra ad esempio Maestro Eckhart (La charité profanée, p. 131).

Tutto sta nella costituzione ternaria dell’uomo, chiaramente affermata da San Paolo: “[…] tutto il vostro spirito (pneuma) e la vostra anima (psichè) e il vostro corpo (sôma) siano conservati immacolati per la parousia del Signore nostro Gesù” (1 Ts V, 23). A ciò si aggiunge la distinzione tra corpo psichico e corpo spirituale (o pneumatico, o celeste), che permette di contrapporre il primo e l’ultimo esame: “Il corpo viene seminato come corpo psichico e risorge come corpo pneumatico. […] Il primo uomo, Adamo, fu fatto anima vivente (psichè), l’ultimo Adamo fu fatto spirito vivificante (pneuma). Ciò che viene prima non è lo pneumatico, ma lo psichico, e poi lo pneumatico. Il primo Adamo era terreno, tratto dalla terra; il secondo è venuto dal cielo” (1 Cor. XV, 44-47).

A questa opposizione corrisponde la regola dell’alchimia spirituale, che consiste “per la grazia del Verbo incarnato, nel separare l’oro puro dello spirito dalla sua lega mortale con la sostanza animica”: “La parola di Dio (Logos) è efficace e più tagliente di una spada a due tagli, penetrando fino alla separazione dell’anima e dello spirito” (Eb IV, 12). Ciò significa che “lo pneuma si attualizza in noi solo attraverso la metanoia, la conversione interiore, che è purificazione della psiche e morte dell’ego“. Questa conversione è solo la dimensione umana dell’azione trasformatrice della grazia divina; per questo “lo pneuma paolino è a volte lo Spirito Santo e a volte l’uomo spirituale, senza che sia sempre possibile discernere se sia l’uno o l’altro”. Questo perché lo spirito dell’uomo, originariamente “ispirato” (Gn II, 17), rimane “inondato dallo Spirito di Dio che lo rinnova (Ep IV, 23) [e] che si unisce a lui (Rm VIII, 16), per “unirlo al Signore e farne un solo pneuma” (1 Co VI, 17)”. (La charité profanée, pp. 157-160).

Che dire ora del rapporto tra lo spirito (pneuma) e l’intelletto (noûs), tanto più che “San Paolo usa talvolta pneuma come sinonimo di noûs”, (Père Prat, Théologie de saint Paul, t. II, p. 62, n. 4; La charité profanée, p. 161)? Una volta accettate le variazioni di vocabolario e in linea con la nostra antropologia, possiamo dire che :

  • “lo spirito designa la vita divina nella creatura, secondo la sua dimensione più interiore, la cui attualizzazione dipende rigorosamente dalla grazia di Cristo”;
  • “l’intelletto designa una facoltà di conoscenza “naturalmente soprannaturale”, che conosce (o può conoscere) la verità spirituale, ma che, essendo per definizione “passiva” (questo è il prezzo della sua oggettività) è anche impotente a muovere la volontà di tutto l’essere”.

In quanto capacità di conoscenza pura (non abolita, ma solo oscurata dal peccato originale), “l’intelletto permette all’essere umano, nel suo stato attuale, di entrare intelligibilmente in contatto con realtà che sono ontologicamente al di là di lui, in altre parole, di averne una chiara consapevolezza: è attraverso l’intelletto, che è naturalmente soprannaturale, che le realtà soprannaturali hanno un significato per un essere naturale, altrimenti rimangono come se non lo fossero”. Il risultato è una duplice relazione tra il noûs e il pneuma:

  • abbiamo bisogno, da un lato, di un’intellettualizzazione dello spirituale, per cogliere efficacemente i misteri dello Spirito;
  • dall’altro, l’intelletto deve essere pneumatizzato per “dare vita e realtà a ciò che è una conoscenza meramente speculativa e quindi impotente”.

L’intellettualizzazione dello pneuma non riguarda solo i frutti della comprensione dei misteri, secondo l’insegnamento di San Paolo, secondo cui se “è il mio spirito che prega, […] il mio intelletto non ne trae alcun frutto” (1 Cor. XIV, 14-15), ma serve anche a istruire gli altri: “Preferisco dire cinque parole con l’intelletto, per istruire anche gli altri, che diecimila parole in lingua” (1 Cor. XIV, 18-19), (“Parole in lingua” si riferisce a fenomeni carismatici che si manifestavano con l’emissione di parole inintelligibili; La charité profanée, p. 162). Per questo, “se l’intelletto è la vera ermeneutica dello spirituale, rimane da solo impotente a portare l’essere umano nella vita dello spirito”.

È allora “la pneumatizzazione dell’intelletto che trasformerà l’intelletto speculativo in intelletto operativo”:

  • “Trasformatevi nel rinnovamento del vostro intelletto, affinché siate in grado di discernere la volontà di Dio” (Rm XII, 1-2), (“Trasformare” rende il “meta-morphoser” del testo greco).
  • “[…] spogliatevi dell’uomo vecchio, corrotto da concupiscenze ingannevoli, per essere rinnovati dallo pneuma dell’intelletto e rivestirvi dell’uomo nuovo, l’uomo creato secondo Dio (kata Theon)” (Ep. IV, 19-24).
  • “Chi ha mai conosciuto l’intelletto del Signore?”, chiedeva Isaia (questa domanda di Isaia (XL, 13) è citata da San Paolo in Rm XI, 33; La charité profanée, p. 163, n. 3)? E San Paolo risponde: “L’uomo pneumatico giudica tutte le cose e non è giudicato da nessuno. Infatti, chi ha mai conosciuto l’Intelletto del Signore per poterlo istruire? Ebbene, noi abbiamo l’intelletto di Cristo” (1 Cor II, 16).

“Il fine della pneumatizzazione dell’intelletto è l’accesso all’Uomo interiore, alla Persona immortale”, perché “l’intelletto, nella sua vera natura, si identifica con l’Uomo interiore”, secondo San Paolo:

“Seguendo l’Uomo interiore, mi diletto nella legge di Dio […] Così dunque sono sottomesso per mezzo dell’intelletto alla legge di Dio” (Rm VII, 22-25), (Qui comprendiamo che “separando l’intellettuale dallo spirituale, il neotomismo ha condannato il lavoro teologico a nutrirsi esclusivamente di ragionamenti”, tagliandolo fuori dalle sue “radici mistiche”; Le sens du supernaturel, p. 84).

“Così riceverete la forza di comprendere, con tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità; conoscerete l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza” (Ep. IV, 16-19). (La charité profanée, pp. 160-165).

Gnosi, ignoranza infinita

Conoscerete l’Amore di Cristo che supera ogni conoscenza“, dice San Paolo (qui seguiamo Jean Borella in La charité profanée, pp. 387-408). Tale conoscenza, che supera ogni conoscenza, sarà chiamata gnosi (o teologia mistica – vedi sezione 5). La gnosi è dunque una conoscenza sacra, secondo il suo oggetto, che è l’Essenza divina, e secondo la sua modalità, che è la partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso. Questa partecipazione, che ha a che fare più con l’essere che con il conoscere, è un’attualizzazione che è necessariamente opera dello Spirito Santo.

Questa attualizzazione è il fondamento interno della teologia sacra, così come la Rivelazione è il suo fondamento esterno. Su questo doppio fondamento, la teologia speculativa è l’oggettivazione mentale della teologia mistica, l’espressione imperfetta della contemplazione perfetta.

Ed è proprio questa imperfezione della teologia speculativa che richiederà il suo superamento, che inviterà la ragione a sottomettersi all’intelligenza spirituale e che permetterà di accedere, per grazia, alla gnosi. E questa gnosi è il Regno di Dio, secondo la corrispondenza tra “la chiave della gnosi” (Lc XI, 52) e “la chiave del Regno di Dio” (Mt XXIII, 13), che fonda l’identità di gnosi e Regno di Dio nelle Scritture.

In questo senso, la vera gnosi non è una scienza ma una nescienza, perché in questa gnosi suprema è Dio che conosce se stesso, non appena l’intelligenza è perfettamente spogliata di sé. Solo la non-conoscenza può portare alla sovra-conoscenza: “Se qualcuno pensa di conoscere qualcosa, non la conosce ancora nel modo in cui dovrebbe conoscerla” (1 Cor. VIII, 1-2). E la forza che sola può portare a questa necessaria rinuncia è la forza della carità, il che significa che “la carità è la porta della gnosi” (Sant’Evagrio il Pontico, Lettera ad Anatolios, P.G., vol. XL, col. 1221 C; La charité profanée, p. 396).

Secondo il desiderio di Cristo, si tratta di diventare uno come il Padre e il Figlio sono Uno, e l’Amore è l’unificazione che precede l’Unità; perché l’amore è la sostanza della gnosi, e la gnosi l’essenza dell’amore. La dimensione gnostica della Carità permette l’altruismo radicale dell’amore puro, e la Gnosi è centrata sulla Verità, l’unica Verità che dà. “La gnosi è l’asse verticale, immutabile e invisibile che la danza dell’amore avvolge come una fiamma”.

La preghiera è quindi l’unica attività che si addice alla dignità dell’intelletto ed è l’atto con cui l’intelletto realizza la sua natura deformata. La preghiera è dunque gnosi; “è l’intelletto che prega nella conoscenza e conosce nella preghiera” (Sant’Evagrio il Pontico, Secoli, IV, 43; La charité profanée, p. 398); la conoscenza è la preghiera dell’intelletto. Preghiera e gnosi sono quindi i due pioli della scala di Giacobbe che si incontrano nell’infinito di Dio.

Se ci sono delle tappe in questa scala spirituale, sono quelle della spogliazione: desideri del corpo, passioni dell’anima, pensieri dello spirito. Così, le virtù del corpo (somatiche) possono condurre per grazia alle virtù dell’anima (psichiche), le virtù dell’anima alle virtù spirituali (pneumatiche) e le virtù spirituali alla gnosi essenziale.

L’amore e la gnosi sono l’origine e la fine del cammino. Avendo raggiunto Cristo, la Gnosi eterna del Padre, attraverso la carità, partecipiamo alla sua effusione d’amore, che è lo Spirito Santo. L’intelletto, unificato dalla carità, “è elevato a dignità infinita, dignità che possiede in virtù della sua stessa natura intellettuale”. E “l’intelletto nudo è quello che si consuma nella visione di se stesso e che ha meritato la comunione nella contemplazione della Santa Trinità” (cfr. Père Hausherr, Les leçons d’un contemplatif; La charité profanée, p. 396, n. 1).

Solo “la nudità dell’intelletto, o l’ignoranza infinita (Sant’Evagrio), o la nube dell’inconoscibilità (Dionigi l’Areopagita) rappresentano il modo non modale in cui la creatura può diventare immanente alla trascendenza divina”. E “questo modo non modale è il grado più alto della carità”. E “finché l’intelletto non è Dio, la sua luce non è la vera Luce”. Deve rendersi conto della propria sostanza non divina, cioè della propria ignoranza ontologica. “La Beata Vergine conosceva questo segreto, lei che era la pura tenebra in cui la Luce del Mondo prese carne” (La charité profanée, pp. 387-408).

Gnosi o teologia mistica

È nella tradizione dionisiaca, a cui S. Tommaso d’Aquino fa spesso riferimento (egli stesso si riferisce alla tradizione dionisiaca, cita l’Areopagita 1760 volte nella Summa Theologica secondo Timothy Wade), che possiamo scoprire una teologia molto più iniziatica che speculativa, secondo quattro modalità o percorsi che possono condurre, attraverso la grazia, alla conoscenza di Dio.

Partendo dalle Scritture – che sono la regola – vediamo che esse parlano di Dio per mezzo di immagini: la Roccia, la Luce, o di concetti: il Bene, l’Essere, la Vita. Alla prima corrisponderà una teologia simbolica, alla seconda una teologia catafatica (affermativa). Da quel momento in poi, la trascendenza divina richiederà la negazione di tutte le affermazioni su Dio: si tratterà di una teologia apofatica (negativa). Infine, al di là di ogni negazione (l’affermazione di ciò che Dio non è), la teologia apofatica si conclude nel modo non modale della teologia mistica, il “luogo” di ciò che non ha luogo. Queste quattro vie o modalità appaiono quindi come “i quattro gradi di un’unica ascesa di conoscenza” (Lumières de la théologie mystique, p. 94), di cui vedremo che l’Amore è il motore.

La teologia simbolica

La teologia simbolica consiste nell’esplicitare la natura teologica dei simboli. Essenzialmente cosmologici (per natura), i simboli tratti dalla Scrittura sono offerti all’intelligenza perché “possa leggere in queste forme un insegnamento che sfugge a ogni forma” (René Roques, Introduction à la Hiérarchie céleste, S.C. 58, p. XXI; Jean Borella, op.cit, p. 95), così da poter cogliere “nella figura di queste realtà, le realtà senza figura” (Lumières…, p. 95): la Roccia, la Luce, ecc. che simboleggiano (o presentano) Dio.

Se il simbolo collega il visibile all’invisibile, è perché è una “somiglianza dissimile” (René Roques, L’univers dionysien, op.cit., p.201, nota 2; Jean Borella, op. cit, p. 103), e questa antinomia è intrinseca alla natura del legame simbolico: la somiglianza che lega staticamente il visibile all’invisibile è la natura analogica del simbolo; e la dissomiglianza che ci fa rinunciare all’immagine e, dinamicamente, salire verso il modello, è la sua virtù anagogica (l’atto anagogico è, letteralmente, “la salita verso l’alto”).

La teologia affermativa

Con la teologia affermativa entriamo nel campo dell’intelligibilità concettuale, della ragione discorsiva e quindi del linguaggio, necessario per comprendere le nozioni o le idee su Dio. Poiché queste sono utilizzate inizialmente nella Scrittura e poi trasmesse dalla Tradizione, questa teologia nozionale è totalmente legittimata e, da quel momento in poi, è addirittura dovere del teologo (Lumières…, p. 102) commentare e spiegare tutte queste nozioni della Scrittura: Vita, Causa, Principio, ecc.

Inoltre, il suo discorso dovrà lavorare dall’alto verso il basso, in modo che le affermazioni successive siano inizialmente fondate il più vicino possibile a Dio. Questo ordine discendente è l’imitazione del proodos, la processione dell’immanenza divina secondo i gradi della Creazione: Uno o Bene, Essere, Vita, Intelligenza, ecc. Questa discesa, che da un lato porta la teologia affermativa il più vicino possibile a Dio, dall’altro, allontanandosi sempre di più, fa sì che essa tenda ad essere “sempre meno vera e in un certo senso esaurisce la propria possibilità” (p. 98).

La teologia negativa

La teologia negativa consiste nel “negare ogni simbolo e ogni nozione applicata a Ciò che è al di là di ogni figura e di ogni nome” (p. 99). Inoltre, ben al di là di una semplice negazione che annullerebbe quanto affermato in precedenza, la teologia negativa emerge come anagogia della teologia affermativa: il concetto negato cessa di indicare semplicemente un oggetto mentale e diventa “il segno di un’operazione che l’intelligenza teologica deve compiere”; il linguaggio concettuale si è trasformato in un operatore metafisico!

Infatti, come il simbolo, per la sua virtù anagogica, permette di non prendere l’immagine per la Realtà, così la parola (o la nozione che designa o il concetto attraverso il quale la nozione è pensata) acquista la sua vera utilità quando la mente si rende conto dell’inadeguatezza del concetto al suo Oggetto, quando l’intelligenza anagogica cessa di considerarlo come una cosa mentale ma si rende conto della realtà trascendente che designa.

Così, l’intelligenza teologica percepisce “il modello come trascendente al suo riflesso nel pensiero” (p. 111) e chiameremo questa tensione anagogica (Ibid., pp. 101, 107, 111. Si veda anche Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, pp. 123, 332-338) la consapevolezza di questa “tensione che regna tra l’essenza intellettiva della nozione e il modo mentale della sua esistenza, tra il contenuto trascendente di ciò che è pensato e l’atto (il concetto) che lo pensa” (p. 111). In altre parole, la teologia negativa può permettere di “realizzare l’unità del vedere (simbolo) e del concepire (nozione), del simbolo, visione senza intellezione, e del concetto, intellezione senza visione, nella visione intellettiva” (p. 99). Questa visione intellettiva, che è una “gnosi per nescienza” avendo rinunciato a ogni conoscenza concettuale, è allora materia di teologia mistica.

La teologia mistica

Di conseguenza, la teologia mistica si distingue dalla teologia negativa solo in quanto fine del cammino dal cammino stesso. Quando quest’ultimo ha negato tutti i simboli e i concetti, può apparire la teologia mistica. Quando l’intelletto non vede più il concetto come una cosa mentale, perché lo ha negato, perché ha chiuso gli occhi, allora può realizzare la Realtà informale e anonima. Allora fa “l’esperienza decisiva e paradossale dei propri limiti, e [può] improvvisamente sperimentarsi come pura capacità di adorazione contemplativa” (pp. 10-11). Tale realizzazione è ovviamente una questione di conoscenza e di amore. Ma di che tipo di amore e di che tipo di conoscenza stiamo parlando?

Fondamentalmente, “la potenza anagogica è opera dell’Amore e traduce l’operazione dello Spirito Santo nel cuore dell’intelletto” (p. 110): “L’amore non è che il movimento stesso della teologia, la potenza dinamica che la fa […] andare oltre i nomi e le forme. E questa potenza erotica che è nell’intelligenza creata non è altro che la sua partecipazione allo stesso Erôs divino, allo Spirito d’Amore che è Dio nella sua estasi trinitaria” (p. 108). Anche la conoscenza in questione è per partecipazione. Dicendo “Dio” e negandolo come concetto, ciò che rimane è l’intuizione intellettuale – che “è la vita stessa dello spirito” – il cogliere l’intelligenza da un senso, nell’esatta misura in cui l’intelletto diventa una cosa sola con questo intelligibile. L’oggettività metafisica, in cui il conoscere, il conosciuto e la conoscenza sono unificati, è intrinseca e qualitativa, mentre “l’oggettività fisica è estrinseca e relativa: è solo il riflesso di quella precedente, che la fonda ontologicamente” (p. 106). Siamo ormai al di là di ogni operazione noetica (un ordine di conoscenza che implica, anche nel caso dell’intuizione intellettuale, una certa speculatività) (p. 112), per approdare a un’ontonesi in cui essere e conoscere sono indissociabilmente unificati.

Se la potenza anagogica è opera dello Spirito nell’intelletto, questa operazione è possibile perché trova “nell’intelletto stesso una capacità sovraconcettuale che viene risvegliata e attualizzata dal compito apofatico: la grazia presuppone la natura che perfeziona” (p. 110). La natura più profonda dell’intelletto è dunque l’intuizione pura: non come atto intellettivo, ma come natura soprannaturale, identità virtuale tra sé e il senso che l’ha colta. Superando il noetico, “obbedisce non solo all’attrazione dell’Amore divino, ma anche alla propria necessità interna”.

Le teologie negative e mistiche si rivelano così “una ‘Pasqua’ dell’intelletto” (p. 108), un percorso spirituale che comporta morte e resurrezione: “morte ai concetti affermativi […] che diventano segni del loro stesso superamento; resurrezione, perché l’intelletto che ha acconsentito […] alla propria cancellazione, alla propria crocifissione, si stabilisce in uno stato supremo di ‘gnosi per nescienza’” (pp. 108-109).

Questi due momenti, estintivo e unitivo, sono rivelati proprio dalla morte e dalla risurrezione di Cristo. Lo spogliarsi di tutte le operazioni intellettuali, la rinuncia a tutti gli oggetti determinati, per riconoscere l’unico Oggetto divino, è la morte di un’intelligenza crocifissa con Cristo e che, come lui, avendo rinunciato a ogni forma intelligibile del divino, può solo gridare: “Eli, Eli, lamma sabacthani!” […] L’intelletto pasquale, battezzato nella morte di Cristo, risorge con Lui” (pp. 115-116). Nel cristianesimo, infatti, “non ci può essere altra via alla gnosi che Gesù Cristo stesso, incarnazione del Logos, cioè della Conoscenza che Dio prende di sé. […] Ed è per questo che, da Origene a Maestro Eckhart, e tra i più grandi mistici, la conoscenza di Dio, la vera gnosi, si identifica con la filiazione divina: conoscere Dio è diventare ‘Figlio'” (p. 43).

Quindi bisogna essere intelligenti per essere salvati?

Ci sembra che gli elementi di risposta siano stati sufficientemente delineati per poter formulare una risposta a questo titolo.

1. Se l’intelligenza consistesse solo nella sua recente definizione riduzionista di agilità mentale (o “capacità mentale”, come direbbe Schuon), è fin troppo ovvio che la disuguaglianza intellettuale degli uomini, in virtù della loro nascita, è incompatibile con la giustizia divina e che, in quanto tale, non è certo necessario essere intelligenti per essere salvati. Inoltre, va notato che Santa Teresa di Lisieux è un Dottore della Chiesa (Ciò non significa che Teresa Martin non fosse molto intelligente, anche nel senso laico del termine: poetessa, pittrice, interessata alle scienze fisiche, all’astronomia, ecc. e morì all’età di 24 anni!), proprio come San Tommaso d’Aquino, e che la processione dei santi sembra coprire l’intera varietà umana, da questo punto di vista.

2. Ecco perché, se esiste una “intellettualità” sacra, è innanzitutto perché l’intelligenza di cui l’uomo è dotato è il suo “senso della realtà”, il suo senso del soprannaturale (per questo la metafisica è una “scienza intrinsecamente sacra che trascende tutte le formulazioni che le diamo e tutti i recipienti umani che la accolgono”; cfr. Jean Borella, “Gnose et gnosticisme chez René Guénon”, pubblicato nell’opera collettiva Dossier H: René Guénon, L’Age d’Homme, Losanna, 1984). È soprattutto perché questo potere di conoscere gli viene solo dalla liberalità di un Dio che è “il Padre delle luci” (Gc I, 17) e che questo “metafisico” è proprio il Logos, la Parola divina stessa: “Luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” (Gv I, 9) (Lumières…, p. 61).

“L’uomo è, per essenza, un essere innanzitutto intellettuale, un essere innanzitutto di conoscenza, anche della più umile conoscenza sensibile; per quanto il desiderio possa parlare in lui a voce alta e forte, esso parla a qualcuno che lo ascolta e lo riconosce, e per il quale ha senso o che lo ripudia. L’uomo non è mai una macchina per desiderare. Ma non è nemmeno una macchina credente, un ‘automa religioso’ che riceverebbe nella sua pura esteriorità una rivelazione e una salvezza radicalmente eterogenee alla sua natura” (Jean Borella, “La gnose au vrai nom”, III, 6 & 7, revue Krisis n° 3, septembre 1989).

Accogliere la rivelazione -la rivelazione soprannaturale- nell’intelligenza del credente richiede che quest’ultimo abbia una capacità naturale di intelligibilità. “Se questa autocomprensione non è una riduzione idealistica del rivelato alle condizioni a priori della conoscenza del soggetto umano, è perché queste forme intelligibili sono naturalmente ordinate a realtà metafisiche e soprannaturali” (ibid.).

Questo è il “momento gnostico” dell’atto di fede: questa ricettività intellettiva alla rivelazione viene insegnata e comunicata attraverso il linguaggio; si tratta quindi di un atto di conoscenza che è, inoltre, necessariamente speculativo. Per questo, non è un semplice esercizio della ragione naturale, ma “l’attualizzazione di quelle possibilità teomorfiche implicite nella creazione dell’uomo ‘a immagine di Dio’, […] un’intellettualità intrinsecamente sacra […] fatta] di questi logoi spermatikoi, di queste Forme del Verbo divino inseminate in ogni intelligenza (questa luce del Verbo “che illumina ogni uomo che viene in questo mondo”), e quindi una sorta di ‘rivelazione’ interiore e congenita, per immanenza nell’anima di queste icone intellettive che sono le Idee metafisiche” (ibid. ).

3. Resta il fatto che la gnosi, o teologia mistica, è una conoscenza salvifica solo se l’uomo rinuncia alla propria conoscenza – speculativa – per lasciare che Dio conosca se stesso; E Cristo stesso, incarnazione del Logos, cioè della Conoscenza che Dio fa di se stesso, è la via cristiana eminente della gnosi, in una religione gnostica((questo termine, divenuto recentemente peggiorativo (senza dubbio per paura dell’ontologismo o dei vari eccessi gnostici che hanno in comune solo questa recente etichettatura), ha tuttavia una dignità scritturale irrefragabile. È merito di Jean Borella aver riabilitato l’uso insostituibile di questa gnosi cristiana. Si veda in particolare La charité profanée, op. cit. e Problèmes de gnose, L’Harmattan, 2007.), in essenza4

Se per entrare nella “superconoscenza”, l'”epignosis” paolina, è necessario “aver rinunciato a ogni conoscenza, anche a quella delle Idee stesse” (Penser l’analogie, p. 189), ciò significa che “l’intelligenza metafisica deve impegnarsi concretamente nella fede nel Dio rivelato: senza rivelazione, non c’è oggetto divino”; “e senza oggetto divino […], non è possibile alcuna liberazione, poiché è proibito ogni pellegrinaggio verso una luce che è assente. L’intelletto deve compiere una sorta di sacrificium intellectus, deve seppellirsi nella fede come nella morte di Cristo Logos, ma per rinascere con lui” (Lumières…, n. 25, p. 189).

Se, dunque, Cristo ha potuto dire: “la tua fede ti ha salvato”5, è proprio quel sola fides sufficit (la sola fede è sufficiente), quello del cieco guarito, quello del buon ladrone o quello del “carbonaio”, tanto quanto quello di San Tommaso d’Aquino6. Una volta che l’intelligenza ha svolto la sua funzione, che è quella di rendere intelligibile il messaggio della fede nella grazia dello Spirito affinché l’essere umano possa aderirvi7 liberamente, non c’è più differenza, ci sembra, tra questo ingresso nella teologia mistica – o nella Docte Ignorance (Nicolas de Cues): questo passaggio in cui l’intelligenza chiude gli occhi (S. Denys l’Aréopagite) di fronte a ciò che, in ogni caso, è “al di là degli occhi” (Malebranche8) -e una diretta “sepoltura nella fede” (che rinuncia – sia pure per incapacità “intellettuale” – ad “affermare” prima e a “negare” poi): una diretta accettazione della propria creaturale “ignoranza ontologica”.

È certamente per questo che, accanto alla nobile via dell’intellettualità sacra, ve ne possono essere altre. 9, come la ternaria : la via del saggio, la via dell’eroe e la via del santo (vie dell'”intelligenza”, dell'”azione” e dell'”amore”), non senza mostrare che ognuna, necessariamente, contiene in modo eminente le altre due10. E, se dovessimo citare il punto comune a tutti i cammini, diremmo che esso risiede necessariamente nell’incontro tra la metanoia, la libera conversione dell’uomo, e la grazia di Dio.

Note

  1. Introduzione

    Se ci si pone questa domanda e viene subito in mente una risposta negativa, è per almeno tre motivi che non possono essere scartati senza considerare tutte le loro conseguenze.

    La prima ragione viene in mente quando con un certo stupore misto a meraviglia scopriamo i testi straordinariamente ricchi e intelligenti di Tommaso d’Aquino, Giovanni Duns Scoto, Ruggero Bacone e San Bonaventura non a caso definiti rispettivamente dottor angelico, dottor sottile, dottore mirabile e dottore serafico. La medesima sorpresa la abbiamo di fronte a dei metafisici che furono anche dei matematici, come Platone, Cartesio, Pascal, Leibniz e Guénon. È vero che, ad eccezione di Platone, da un certo punto di vista, costoro non furono teologi, anche se alcuni di loro si occuparono di precise questioni teologiche (grazia, transustanziazione, ecc.). È significativo, a proposito del fatto che non è vero che l’intelligenza si eserciti quasi solo esclusivamente sulle questioni scientifiche, che “della massa di manoscritti lasciati da Newton [il grande scienziato che sintetizzò la fisica e l’astronomia con la teoria della gravitazione universale], la metà riguardino proprio la teologia, un quarto l’alchimia (121 trattati) e un quarto la fisica” (Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, riedizione coll. Théôria, L’Harmattan, 2009, p. 60, nota 145). Attraverso la teologia accediamo a un’intelligenza (ovvero a una comprensione) dei misteri cristiani prima insospettabile (da noi “insospettabile”, perché Origene e S. Agostino sono geni della teologia, almeno alla pari con i dottori medievali).

    La seconda ragione viene dalla meditazione sulla dogmatica cristiana. Come ci ha ricordato Jean Borella (Problèmes de gnose, L’Harmattan, 2007, cap. VII), la dogmatica è l’espressione o la formulazione, la più trasparente possibile, dei misteri cristiani e si colloca tra la rivelazione e la teologia – caso unico tra le tradizioni religiose, dato che queste ultime hanno “classicamente” una rivelazione (scritta o meno) che formula e delle teologie che interpretano. Lungi dal costituire un’interpretazione – che è appunto il ruolo delle teologie, nessuna delle quali, nemmeno quella di San Tommaso d’Aquino, è mai stata canonizzata (anche se l’enciclica di Leone XIII Æterni Patris [4 agosto 1879] ha definitio “la dottrina del Dottore comune come norma delle scienze filosofiche e teologiche”; Jean Borella, Le sens du surnaturel, Ad Solem, Ginevra, 1996, p. 83) – la dogmatica si presenta come una nuda formulazione (Problèmes de gnose, ibid.). Ci sembra che il mistero cristiano sia di un’intelligenza ineguagliabile. È per questo che alcune delle più grandi menti della storia hanno potuto dedicarvi la loro intera vita. La dogmatica ha fissato dei punti fermi e impedendo qualsiasi deriva interpretativa “aneddotica” è riuscita a trasmettere per duemila anni e oltre la comprensione del mistero cristiano (quest’ultimo presentato sotto forma di “paradosso massimo”: su questo si veda il nostro libro, Introduction à une métaphysique des mystères chrétien, en regard des traditions bouddhique, hindoue, islamique, judaïque et taoïste, L’Harmattan, 2005, imprimatur della diocesi di Parigi), mostrandolo soprattutto in relazione ai misteri della Trinità e di Cristo (cfr. Parte 1: “La Trinità cristiana”, capitolo 1. La risoluzione dei paradossi – approcci concettuali e dottrinali e Parte 3: “Il Cristo cristiano”, capitolo 11. Una sintesi paradossale universale – approcci concettuali e dottrinali).

    Il terzo motivo, antropologico, si riferisce alla “natura” dell’uomo, e in particolare alla dimensione essenziale della sua “intelligenza”. Da qui in poi, l’uomo non può non essere intelligente, è fatto per essere intelligente, è “gnostico” per natura. Si pone allora la questione, qui acuta, della funzione di questa intelligenza umana e, in particolare, del suo possibile ruolo di fronte alla rivelazione. Cosa può pretendere di sapere l’uomo? Come si coniugano credenza e conoscenza?

    Ci sembra che definire l’intelligenza sia il primo passo giusto. Poi potremo vedere come si applica al mondo (cosmologico) e a ciò che va oltre il mondo (metafisico). Sarà allora certamente più facile comprendere dottrine come la “pneumatizzazione dell’intelletto” (cfr. l’insegnamento di San Paolo) e, paradossalmente, prevedere la vera “gnosi” che è quella delle “intelligenze che sanno chiudere gli occhi”(Formula di San Dionigi l’Areopagita, Teologia mistica, 997 A & B). Ciò farà indubbiamente luce sulla domanda che dà il titolo a questo saggio e ci permetterà di elaborare una risposta.

    L’intelligenza

    1. Dobbiamo subito scartare la definizione pragmatica di intelligenza come misurabile in psicologia. Infatti, alla domanda: “Che cos’è l’intelligenza?”, gli inventori del famoso test risposero: “Ma è proprio questo che il nostro test misura” (Questa risposta pragmatica di Binet e Simon significa che, per loro, non esiste l’intelligenza in sé, l’intelligenza non è “qualcosa” che può essere definito. L’unico modo per vederla è in termini pratici: l’intelligenza consiste nel superare compiti e risolvere problemi). Per “intelligenza”, quindi, non intendiamo agilità mentale o attitudine all’aritmetica mentale.

    2. Dobbiamo anche abbandonare la definizione kantiana di intelligenza come “comprensione”, un intermediario tra senso e ragione, una definizione che in definitiva è facile da confutare. A prima vista, si tratta di una semplice inversione di vocabolario tra “ragione” e “intelligenza”, ma occorre ristabilirla. L’origine di questa infelice inversione risiede senza dubbio nella relativa confusione di Cartesio tra i due termini (l’equivalenza tra ratio e intellectus si trova nella Seconda Meditazione Metafisica; Jean Borella, La charité profanée, Éd. du Cèdre, Paris, 1979, pp. 126-127, ripubblicato dalle Éditions Dominique Martin Morin e poi da L’Harmattan) – solo “relativo”, perché il metafisico conserva per la ragione il suo potere di conoscenza intuitiva (intellectus intuitivus) (Per esempio: “Non posso dubitare di nulla di ciò che la luce naturale mi mostra come vero […] E non ho in me nessun’altra facoltà o potere di distinguere il vero dal falso, che possa insegnarmi che ciò che questa luce mi mostra come vero non lo è, e su cui possa fare affidamento tanto quanto su di essa”, Méditations, AT IX-1, p. 30), senza la quale l’uomo non è in grado di distinguere il vero dal falso e senza la quale non ci sarebbe metafisica possibile (cfr. La charité profanée). Ma, avendo fatto della ragione (Vernunft) la facoltà superiore del pensiero, Kant vedrà ora nella comprensione (Verstand, intellectus) solo l’attività conoscitiva inferiore: quella che dà al dato sensibile, cioè alla materia della sensazione e alla forma dello spazio e del tempo, una forma concettuale (“Tutta la nostra conoscenza comincia con i sensi, passa da lì alla comprensione e finisce con la ragione. [Abbiamo definito l’intelligenza come potere delle regole; qui distinguiamo la ragione dall’intelligenza chiamandola potere dei principi”; Critica della ragion pura (tr. it.). Fr. Alexandre J.-L. Delamarre et François Marty in Œuvres philosophiques, édition Ferdinand Alquié), tomo I, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), 1980, pp. 1016-1017. “I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono ciechi. […] La comprensione non può intuire nulla, né i sensi possono pensare nulla. Solo dalla loro unione può nascere la conoscenza”; Critica della ragion pura, trans. Tremesaygues e Pacaud, P.U.F., p. 77). Ma questa inversione è in realtà una negazione, la negazione dell’intellectus (intelletto intuitivo): “l’intuizione intellettuale, infatti, non è nostra, e […] non possiamo nemmeno prevederne la possibilità”, scrive (Critica della ragion pura, trad. Tremesaygues e Pacaud, P.U.F., p. 226.[]

  2. Jean Borella, Lumières de la théologie mystique, coll. Delphica, l’Age d’Homme, Losanna, 2002 (184 pagine), p. 106.[]
  3. Ibidem.[]
  4. È proprio quello che ha ricordato recentemente Benedetto XVI (udienza del 18 aprile 2007), a proposito dell’opera di Clemente di Alessandria: “Clemente traccia un percorso di iniziazione alla Rivelazione, la vera gnosi, che è la conoscenza di Gesù Cristo, alla quale ogni cristiano è chiamato. […] suscitata da Cristo stesso, la vera gnosi è una comunione d’amore con Lui, che porta la vita cristiana al suo grado ultimo, quello della contemplazione” (ZENIT, ZF07041810, 2007-04-18).[]
  5. Per esempio in Lc VII, 50; VIII, 48; XVII, 19; XIX, 42; Mc V, 34; X, 52. I capitoli III e IV della Lettera ai Galati sono intitolati: “Dottrina della salvezza per fede”[]
  6. “Direi volentieri che l’intelligenza più profonda consiste proprio nel capire che abbiamo bisogno di essere salvati” (Jean Borella, comunicazione privata, 17-IV-2007.[]
  7. Questa adesione implica la volontà dell’uomo, complementare alla sua intelligenza. Jean Borella ha mostrato chiaramente come funziona questa combinazione nel suo La charité profanée. Questo ci porta a scoprire che l’esclusione reciproca del sapere, riservato allo studioso, e del credere, riservato al credente, è un’illusione, poiché non possono operare l’uno senza l’altro. cfr. il nostro articolo: “Croire, savoir, connaître (dans l’œuvre de Jean Borella)”, pubblicato originariamente sul sito web de L’Harmattan, ora su Metafysikos.com.[]
  8. De la recherche de la vérité, II, II, 3[]
  9. Pamphile, nel suo Voies de sagesse chrétienne, méditation sur l’Ascension, L’Harmattan, 2006, ha individuato diverse vie generiche, che presenta in coppie complementari: le vie del viaggio e dell’eremitaggio, le vie della sofferenza e della gioia, le vie coniugali e monastiche…[]
  10. “Sulla via di una progressiva configurazione alla natura divina, resa possibile perché l’uomo è stato creato a immagine di Dio, Clemente di Alessandria sottolinea che lo sforzo dell’intelletto non può mai essere separato dalle opere buone che liberano l’uomo dalle passioni e fanno crescere in lui l’amore”, Benedetto XVI, ibidem.[]