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Metafisica delle fiabe

Bruno Bérard e Jean Borella

Questo libro è stato scritto in francese, gli elementi di presentazione che seguono sono stati tradotti in italiano.

Venendo dalla profondità del tempo e da tutte le regioni del mondo, le fiabe pullulano di indicazioni storiche o etnografiche. Non danno, segretamente, una lezione sul futuro spirituale di ogni essere umano? Questo libro, dopo una panoramica della storia dei racconti e delle loro diverse interpretazioni, offre commenti metafisici su tre racconti: “Pollicino”, “La ragazza dalle mani mozzate” e “Quello che fa il vecchio è sempre ben fatto”.

Sommario

  1. Prefazione
  2. Prima parte. Fiabe

    1. Capitolo I Le fiabe come materiale
    2. Capitolo II Interpretazioni delle fiabe
  3. Seconda parte. Interpretazioni metafisiche delle fiabe

    1. Capitolo III “La ragazza senza mani”
    2. Capitolo IV “Quello che fa il vecchio è sempre ben fatto”
    3. Capitolo V Il “Grande Orco e Pollicino”

Estratto

 Il Grande Orco e Pollicino

L’orco percepì l’odore della carne fresca. Sente più di quanto vede e desidera ciò che sente. La freschezza della carne è la freschezza dell’anima umana nelle sue più nobili facoltà che la potenza divoratrice aspira a gustare, che vuole cogliere e saziare. Delle sue facoltà, il potere divoratore non conosce la vera natura. Ne percepisce solo la brillantezza, l’aspetto lucente: “sono pezzi deliziosi” dice l’orco il cui profumo lo ha condotto sotto il letto dove la moglie ha nascosto i sette fratelli. Che cosa significa? Se questo racconto tratta davvero di un viaggio iniziatico, sembra di poter vedere qui la considerazione di una delle tentazioni più forti che l’anima incontra nel suo cammino, cioè il desiderio di possedere i più alti doni spirituali. Abbiamo sempre trovato molto ambigua la formula del Guénon che, per distinguere la via iniziatica dalla via mistica, parla, per la prima “di una effettiva presa di possesso degli stati superiori dell’essere”. Ora, è forse qui che si manifesta nel modo più radicale la differenza, e anche l’incompatibilità, tra la via cristiana e quella guénoniana. L’iniziato guénoniano è una sorta di “tecnico” degli stati superiori di cui ha piena padronanza: abbiamo parlato a questo proposito di “demiurgo iniziatico”. Quanti lettori di Guénon, leggendo le sue presentazioni, non hanno sognato, anche loro, di raggiungere questo possesso effettivo, che li renderebbe, in un certo senso, dei superuomini definitivi, come questi onniscienti rosacroix che padroneggiano misteriosamente tutte le forme dello Spirito , vagando in silenzio, in incognito, come il conte di Saint-Germain, da ovest a est. L’attrazione esercitata da un tale “ideale” iniziatico sul lettore ben disposto è superiore a quella di ogni altro: che cos’è un cavaliere, un re, un imperatore, accanto a colui che, possedendo gli stati superiori dell’essere, possiede anche, e proprio per questo tutti i poteri, poteri che evidentemente disdegna di esercitare? Chi negherà che la speranza di un possesso così effettivo ha spinto molti a cercare l’organizzazione iniziatica adeguata per garantirne l’accesso, e li ha portati ad accettarne i vincoli? Ma chi non vedrà l’effetto dell’anima desiderante che vuole afferrare i suoi più alti postulati? Chi negherà che una parte della nostra anima consideri avidamente tutto ciò che le sue facoltà spirituali possono portarle e di cui crede di potersi nutrire?

Questo, ci sembra, è ciò che il racconto descrive nella figura dell’orco affamato della carne fresca dei sette fratelli; almeno questo è uno dei possibili significati del dramma che sta per compiersi, significato che ci pone di fronte alla più formidabile prova spirituale e che non è estraneo al peccato contro lo Spirito. Secondo la verità del cammino spirituale, questa prova deve infatti concludersi non con il possesso, ma con la rinuncia al possesso, rinuncia che è il “dono più perfetto” a cui possiamo aspirare. Al contrario, l’avidità “spirituale” appartiene all’orco della nostra anima, che non può comprendere che le alte facoltà dello spirito sono tutte di spogliamento, di povertà e di amore.  [pp. 166-167]

Epitome

Il parallelismo del titolo con la Psicoanalisi delle fiabe di Bettelheim annuncia che si tratta di interpretare, ma a un nuovo costo, questo “materiale” venuto dal profondo dei secoli e da tutte le regioni del mondo, e che, tuttavia, ha già dato luogo a molteplici interpretazioni, siano esse sociologiche, mitiche, psicanalitiche, esoteriche, iniziatiche, persino “meteorologiche”.

È perché, quando si ha a che fare con tali oggetti, che hanno attraversato il tempo e lo spazio e che sono stati intesi in modi così diversi, abbiamo il diritto di chiederci se, più profondamente, non contengano principi ed elementi di natura metafisica non sono coinvolti, e se non danno, segretamente, una lezione sul futuro spirituale di ogni essere umano.

Tale è il rischio che corre questa Metafisica delle fiabe, che, dopo un excursus sulla loro storia e le loro interpretazioni, propone il commento di tre racconti: “Pollicino”, “La fanciulla dalle mani mozzate” e “Che cosa fece il vecchio è sempre ben fatto”.

Una prefazione di Jean Borella tratteggia alcuni tratti di quella che potrebbe essere una teoria generale delle fiabe, capace di giustificarne l’interpretazione metafisica. Perché si tratta di fare qualcosa di diverso dal cercare le cause storiche, sociologiche o psicologiche che permettono di portare scientificamente al racconto, si tratta di partire da esso, di prenderlo come guida secondo la sua intenzione didattica, che è la sua finalità pulita troppo spesso trascurata. Così, una metafisica delle fiabe ipotizza, cioè crede, che quanto si afferma nel racconto indichi anche una realtà propriamente spirituale, e non solo la formazione psicologica del bambino. Suppone quindi che l’essere umano sia chiamato a un destino spirituale, cioè a realizzare ciò che la sua natura teomorfa gli propone di fare. Se l’anima occidentale si meravigliava dell’inconscio psichico, si vede chiaramente che vi si perdeva come Narciso che annega nel voler ricongiungersi all’immagine di sé che era solo in superficie. È che, molto più profondamente, c’è un “inconscio spirituale”, un senso innato del divino e del trascendente. È a lui che il racconto è rivolto in una mezza parola. Lo vuole e lo deve, perché il mistero divino che è in noi rappresenta anche il nostro vero destino, che l’etimologia della parola “fata” richiama: fata, “dea dei destini”, forma femminile di fatum, il destino divinamente “pronunciato”, che è attaccato al verbo fari, parlare.

Due capitoli presentano, prima di tutto, uno la storia e la definizione delle fiabe – in particolare rispetto a favole, leggende, miti e altre novelle –, l’altro una panoramica delle varie interpretazioni incontrate: “meteorologica”, sociologica, psicoanalitica (freudiana e junghiana), “esoterica”, “iniziatica”, permettendo di distinguerla da ciò che dovrebbe essere un’interpretazione metafisica.

Infine, ed è questa l’essenza del libro, una presentazione delle esegesi metafisiche (o spirituali) di tre racconti, scelti tra i più noti, permette al lettore di giudicare per parti questa Metafisica delle fiabe.

Recensioni

Intervista filmata

— Baglis TV

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