Introduzione

I pregiudizi e gli errori dei sensi vengono alla luce da ogni parte.

Cerchiamo di correggerli con la ragione, e siamo insensibilmente condotti in paradossi inauditi 1.

George Berkeley

Per molto tempo l’intelligenza è stata la facoltà superiore alla ragione, prima di diventare un oggetto di studio per la ragione, accoppiata a un oggetto che poteva essere costruito dall’uomo, sotto lo stesso nome: intelligenza artificiale. Questa inversione può essere spiegata, ma solo storicamente, cioè senza alcun fondamento reale. Rimane quindi l’imperativo di ristabilire l’ordine delle cose, peraltro ampiamente giustificato dai limiti della ragione di cui sopra.

Ci sembra chiaro che la ragione sta al ragionamento come l’intelligenza sta alla comprensione, rendendo entrambe le istanze ugualmente essenziali, ma questa distinzione si riferisce a modalità di conoscenza diverse e controverse.

Ragione, dal latino ratio che traduce il greco dianoia, e in parte logos.

Il significato della dianoia greca (διάνοια) è, senza mistero, il pensiero discorsivo (o ipotetico-deduttivo), il cui significato è direttamente etimologico: da noûs (intelligenza) e di (in due)2 o dia (attraverso)3.

In Platone4 questo è il primo grado di conoscenza degli intelligibili, essendo le scienze dianetiche definite positivamente “dal rifiuto di ricorrere ai sensi e, negativamente, dall’incapacità di andare oltre le ipotesi fino al principio ultimo”5). Come facoltà intermedia, la dianoia si oppone sia al sôma (corpo) sia al noûs (intelligenza)6. Pur proponendo un’epistemologia diversa, Aristotele la definisce allo stesso modo7: una dianoia che raggiunge il suo oggetto discorsivamente, e una noèsis che lo possiede immediatamente per intuizione8.

Da parte sua, ratio (ragione) è legata a ratus (participio di reor: credere, pensare) e, forse, alla radice rat (identica ad arte da ars, artus), “che esprime qualcosa di adattato, disposto e saldo come risultato di questa disposizione”; da qui ratus (assicurato, fissato) per una cosa o una persona, ratis (zattera : pezzi di legno solidamente uniti tra loro) e ratio (un sistema di idee collegate tra loro, conti, ecc.)9, ragionamento10. I diversi significati di ratio (dal verbo ratiocinor: “calcolare” e, solo in senso figurato, “ragionare”) sono comunque espliciti, associando calcolo e ragionamento, sia in termini di azione (o anche di oggetto) che di facoltà11. In stretto accordo con questa etimologia latina, la ragione è legittimamente la facoltà di ragionare discorsivamente, di combinare concetti e proposizioni; ciò costituisce la definizione principale ed essenziale che qui manteniamo12).

Se può esserci stata un’inversione tra ragione e intelligenza, è senza dubbio in parte dovuta all’esistenza di un antenato molto particolare: il greco λόγος (lógos)13 che i latini hanno tradotto anche come ratio, diventato “raison” in francese. In realtà, “logos” non è solo una parola; prima significava “discorso” (costruito), prima di significare la “ragione” espressa da questo discorso – “ragione” che, come in francese, ha anche il significato di principio o causa(come in “raison d’état” (“ragione di stato”) o “raison du plus fort” (“ragione del più forte”)). Ma logos significa anche “relazione” e “parola”. “Parola” si riferisce sia alla ragione o al pensiero, sia alla Ragione suprema o divina, la Ragione che organizza e spiega l’universo (gli stoici, Hegel), Dio che possiede in sé gli archetipi di tutte le cose (Platone); da qui il Logos cristiano, la Parola di Dio, il Verbo divino eterno (Gv I, 1-18), che è il Figlio nella Trinità, e “per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose” (Gv I, 3). Logos si riferisce quindi a “ordine”, “organizzazione”, “coerenza”, applicandosi tanto all’ordine delle cose quanto all’ordine del pensiero14.” L’ordo rerum è in realtà una ratio rerum15 e poi compare il significato di “relazione” del logos: “isomorfismo dell’ordine delle cose e dell’ordine del pensiero”, “condizione e principio del loro accordo”16.

Di conseguenza, nel considerare il logos e il legame che esso esprime tra il mondo e il pensiero, la ragione non può fare di meglio che riconoscerne la presenza, sia che il suo approccio sia metalogico, strutturalista o fenomenologico:

Tuttavia, dobbiamo chiederci se gli sforzi così compiuti per scoprire il logos – siano essi formali nella logica, strutturali nelle scienze umane o trascendentali nella fenomenologia – riescano a raggiungere il principio stesso che rende possibile la conoscenza.

Il principio di identità che governa la logica formale, la sistematicità strutturale o l’evidenza fenomenologica può solo significare il logos, non coglierlo adeguatamente. In effetti, possiamo aspettarci che una disciplina razionale risalga alla cosa stessa che la fonda, e che sia in grado di porla in un atto di cui possa rivendicare l’iniziativa? [… Perché la ragione] si aggrappa a una sorta di purezza astratta che non si riferisce alla profondità del mondo in cui l’uomo è impegnato nella sua umanità concreta”17).

Philibert Secretan

L’intelligenza, dalla cellula alla mente: il noûs

Se la “ragione” deriva in parte da un termine, logos, che non è tanto equivoco quanto polisemico, e che quindi va oltre la stretta definizione di “ragione-calcolo”18), “intelligenza”, attraverso il latino intelligentia, intellegentia (da intellegere “capire”)19 indica un “raccogliere tra” (o “leggere tra le righe”), che, a sua volta, presuppone un al di là del dato (delle sole righe scritte). I significati del verbo latino intellego sono inequivocabili: discernere, districare, percepire, rendersi conto, afferrare, apprezzare (Gaffiot); e anche i termini greci, in fine tradotti da intelligenza, sono espliciti: da un lato súnesis (dal verbo súniemi : hiemi = mandare e sún = con)20) che, con la nozione di riunione, evoca “com-prensione” (prendere con sé, riunire con sé) e, dall’altro lato, aisthesis (dal verbo aisthanomai = percepire, sia con i sensi che con la mente)21, che esprime la percezione, soprattutto da parte dell’intelletto.

L’intelligenza, rispetto a una ragione che combina, dispone e calcola, sarà quindi l’istanza che accetta, ammette e coglie, e si riferirà quindi all’azione del comprendere oltre che alla facoltà di comprendere. Possiamo quindi fare una distinzione pertinente tra il dominio della ragione, che, “nelle sue operazioni empiriche e logiche, è quello del fatto stabilito […] e] il dominio dell’intelligenza [che] è il significato”22. Questa è la definizione essenziale che manteniamo.

Per quanto il logos vada al di là della definizione di ragione23, qui è l’intelligenza che si estende ben oltre questa definizione. L’intelligenza, infatti, è anche definita come comprendente “tutte le funzioni il cui oggetto è la conoscenza” in senso lato: sensazione, associazione, memoria, immaginazione, comprensione, ragione, coscienza (Lalande), costituendo una delle tre classi di fenomeni psichici (cognitivi, affettivi, volitivi). Così, mentre la ragione è intrinsecamente impersonale24, l’intelligenza è radicata nei recessi più profondi dell’individuo, e persino nella vita biologica:

L’intelligenza umana si immerge profondamente negli strati psichici dove è legata a un regno che non le è proprio: che non è ancora la psychè, la coscienza, ma la vita biologica.25

Philibert Secretan

È questo radicamento attraverso gli “strati psichici” che rende legittima la sua analisi psicologica, in particolare, e che permette di distinguere le operazioni dell’intelligenza relative a quattro fasi essenziali: acquisizione, conservazione, trasformazione e trasmissione, nelle quali troviamo le seguenti operazioni principali:

  • la percezione dei fenomeni esterni da parte dei sensi e la percezione interna: senso intimo o coscienza;
  • la concettualizzazione di “verità necessarie”, inaccessibili attraverso la percezione in sé, come il necessario, l’assoluto, l’infinito – questa concettualizzazione è poi la ragione;
  • aggiungendo l’impatto della volontà, troviamo le operazioni di attenzione e osservazione (guardare in contrapposizione a vedere, ascoltare in contrapposizione a sentire);
  • la conservazione combina associazione e memorizzazione
  • l’elaborazione richiede l’astrazione e la generalizzazione;
  • immaginazione (questo è ciò che distingue l’uomo dagli animali: non si tratta tanto di pensare o esprimere qualcosa, quanto di pensare a qualcosa o parlare di qualcosa. Trattandosi quindi di una persona “assente”, “vediamo che la conoscenza mentale implica non solo il pensiero concettuale, ma anche la memoria e l’immaginazione, in funzione dell’assenza nel tempo e nello spazio”26;
  • il ragionamento (deduzione o induzione), che porta al giudizio;
  • il giudizio stesso;
  • l’espressione delle idee attraverso il linguaggio27.

Ci permettiamo di far notare che questo modo (legittimo) di considerare l’intelligenza è troppo generico, includendo da un lato l’identificazione con la coscienza (cfr. punto 1) e, dall’altro, incorporando la ragione (cfr. punto 2). Accantoniamo quindi la definizione pragmatica di intelligenza come misurabile dalla psicologia: agilità mentale o attitudine al calcolo mentale. Pragmatica perché, alla domanda “Che cos’è l’intelligenza?”, si dice che gli inventori del famoso test abbiano risposto: “Ma è proprio questo che il nostro test misura!” (questa risposta pragmatica di Binet e Simon significa che, per loro, non esiste l’intelligenza in sé, l’intelligenza non è “qualcosa” che può essere definito. L’unico modo per vederla è in termini pratici: l’intelligenza consiste nel superare compiti e risolvere problemi). In questo caso, quindi, saranno più rilevanti le definizioni che abbiamo mantenuto: una ragione che calcola o ragiona e un’intelligenza che afferra. Tanto più che, se l’intelligenza affonda le sue radici nel biologico (Secretan) o nel “genetico” (Piaget)28), l’intelligenza si rifà anche al greco noûs (νοῦς)((La quale parola deriverebbe dal verbo greco ginosco: imparo a conoscere, percepisco, sento… e sarebbe un “idioma ebraico per parlare della relazione sessuale tra uomo e donna” (em. Bibbia); da qui, in questo caso, l’espressione “conoscere biblicamente”, un eufemismo per indicare l’esperienza sessuale), lo spirito, che esprime attraverso il latino intellectus. Si può quindi chiamare intelletto 29, per evitare equivoci, e “l’esercizio di questa facoltà si chiama intellezione, che è una percezione distinta unita alla facoltà di riflessione”30. Se nell’antichità il noûs poteva avere una relativa variazione di significato (la mente e le sue varie facoltà), in Platone è in particolare la facoltà più elevata dell’anima, l’unica in grado di contemplare la vera essenza:

La vera essenza, incolore, informe, impalpabile, può essere contemplata solo dalla guida dell’anima, l’intelligenza. Intorno all’essenza si trova il luogo della vera scienza. […] Ogni anima che deve compiere il suo destino ama vedere l’essenza da cui è stata a lungo separata, e si abbandona con piacere alla contemplazione della verità ((Fedro, 247c-d, œuvres de Platon(Opere di Platone), trans. V. Cousin, vol. 6, Parigi: Rey, 1849, p. 51).

E anche in Aristotele:

L’intelligenza (noûs, intellectus) è la cosa più meravigliosa che c’è in noi, e tra le cose che si possono conoscere, quelle che essa può conoscere sono le più importanti31.

Lo stesso vale per Plotino (205-270)32, poi in Agostino (354-430), dove mens (pensiero) è l’anima superiore che contiene distintamente ratio e intellectus (o intelligentia), che è ciò attraverso cui l’uomo riceve la luce divina:

La ragione è un movimento capace di distinguere e collegare le nostre conoscenze 33. (Sermo 43, II, 3; P. L. t. XXXVIII, col. 255; citato in Borella, Amour et vérité, p. 114)).

La differenza tra la funzione dell’anima ragionevole che agisce nelle cose temporali, che non contiene solo la conoscenza, ma si estende anche all’azione; e l’altra funzione più perfetta della stessa anima che consiste nella contemplazione delle cose eterne e si limita alla conoscenza.34.

Allo stesso modo, nel linguaggio del Medioevo, “intellectus era usato per tradurre noûs in tutta la sua forza, ed era opposto a ratio, la facoltà di ragionare discorsivamente”35. Così in Tommaso d’Aquino :

La ragione differisce dall’intelletto come la molteplicità dall’unità. La ragione sta all’intelletto come il tempo all’eternità e il cerchio al centro. Infatti, è caratteristico della ragione estendersi in tutte le direzioni su una moltitudine di cose 36.

Questo intelletto non solo riceve in sé la conoscenza che proviene dall’esterno, come un intelletto passivo, ma anche, come un intelletto attivo, illumina la conoscenza ricevuta per rivelare a se stesso la dimensione intelligibile, come un occhio che illumina ciò che vede.37 È in un altro modo che la natura razionale supera la natura sensibile e che la natura intellettuale supera la natura razionale. La natura razionale supera la natura sensibile per quanto riguarda l’oggetto della conoscenza, perché i sensi non possono in alcun modo conoscere l’universale, che è l’oggetto della ragione. Ma la natura intellettuale supera la natura razionale per quanto riguarda il modo di conoscere la verità intelligibile; perché la natura intellettuale coglie immediatamente la verità alla quale la natura razionale può salire solo attraverso l’indagine del ragionamento 38.

Anche in Dante (1265-1321), seguendo l’uso tomistico, “inteletto e intelettuale” sono sempre presi in senso greco e si riferiscono al pensiero nella sua forma più elevata39. Così, mentre l’intelligenza può assumere un significato psicologico – e, più in generale, diventare un oggetto scientifico – con il nome di intelletto, essa mantiene il suo “valore gnoseologico [… e] segna la facoltà superiore della conoscenza”40.

Vale la pena di definire anche la parola “entendement” – usata sopra per tradurre “intelligenza” in Aristotele all’inizio dell’Ottocento, ma la cui definizione (e quindi il significato comune) deriverà in modo analogo41 e ha avuto un ruolo nell’inversione di significato tra ragione e intelligenza. Sinonimo storico di “intelligenza” (a partire dal XII secolo, in lingua francese), “l’entendement répond à ce qui chez les Latins est appelée intellectus“/”l’intendimento corrisponde a ciò che i latini chiamano intellectus42, così era ancora definito all’inizio del XVIII secolo, da Leibniz o da Malebranche (1638-1715), anche se, nel caso di quest’ultimo, significava “comprensione pura”:

Si viene trasferiti, per così dire, in un altro mondo, cioè nel mondo intelligibile delle sostanze, invece di essere stati in precedenza solo tra i fenomeni dei sensi 43.

[La mente è chiamata] comprensione quando agisce da sola, o meglio quando Dio agisce in essa.44

Con questa parola, comprensione pura, intendiamo solo la facoltà della mente di conoscere gli oggetti esterni senza formare immagini corporee di essi nel cervello per rappresentarli 45.

Naturalmente, i contemporanei empiristi come John Locke (1632-1704)46 o l'”immaterialista” George Berkeley (1685-1753)47 Nell’epoca moderna, tuttavia, questa distinzione tra ragione e intelligenza rimane inconfutabile e, per lo meno, può essere ancora letta dai migliori autori.

Dalla confusione all’inversione.

Questa distinzione tra ragione (dianoia, ratio) e intelletto (noûs, intellectus) non è tuttavia una separazione assoluta, poiché “la ratio è la luce spezzata e frammentaria dell’intellectus48, ma, se la realtà di ciascuno di questi modi di attività cognitiva è indiscutibile, confonderli sarebbe sembrato piuttosto impossibile.

Ora, questa sorprendente confusione, questa assimilazione di ratio e intellectus, si verifica nella filosofia di Descartes a causa della sua riduzione dualistica; si veda, ad esempio, la Seconda Meditazione Metafisica, dove sono menzionati come equivalenti: “sum igitur res cogitans, id est mens, sive animus, sive intellectus, sive ratio49. Tuttavia, all’interno di questa assimilazione abusiva, il metafisico conserva per la ragione un potere di conoscenza intuitiva (intellectus intuitivus)50, che è inconfutabile e senza la quale la metafisica non sarebbe possibile.

Tuttavia, ciò sarà rifiutato da Kant (1724-1804), per il quale esiste solo l'”intuizione sensibile”, o “intuizione empirica”51:

Se intendiamo con questo un oggetto di un’intuizione non senziente, allora presupponiamo un tipo particolare di intuizione, intellettuale, ma che non è nostra, la cui possibilità non possiamo nemmeno intravedere […] un’intuizione di questo tipo, un’intuizione intellettuale, è assolutamente al di fuori della nostra facoltà di conoscere”52.

Da quel momento in poi, la comprensione (Verstand) – l’intelligenza (intelletto) – diventa l’attività cognitiva inferiore e operativa, che fa astrazioni e dà forma concettuale alla conoscenza sensibile53, e li collega tra loro per stabilire un discorso coerente; per lui, questo è il sapere discorsivo, cioè la ragione. Allo stesso modo, nell’inversione totale di Kant, la ragione (Vernunft) diventa la facoltà superiore della conoscenza, la facoltà delle idee e dei principi, dell’autonomia e della libertà di distinguere il vero dal falso, raggiungendo un livello di intelligibilità sintetico, sistematico, universale e unitario. Tuttavia, questa inversione, senza dubbio facilitata dalla lingua tedesca ((“Vernunft sembra avere il senso del buon senso pratico (come νοῦς in greco), il che si accorda bene con questa visione di Kant secondo cui le idee della Ragione non devono più essere considerate come problemi di speculazione, ma come principi pratici, appartenenti alla sfera dell’azione”, C. Webb in Lalande, op. cit, p. 287), ci sembra l’unica vera “rivoluzione corperniana” di Kant, se di rivoluzione si è trattato.

Nonostante la sua considerevole influenza fino ai giorni nostri e le sue numerose appropriazioni (e diverse interpretazioni), non sono mancate le critiche al razionalismo kantiano [i primi: Herder (1744-1803), Jacobi (1740-1814), G. E. Schulze (1761-1833)], sia scientifico che filosofico; ad esempio:

Kant non ci parla della volontà divina o della mente divina, ma, prendendo la mente umana con le sue leggi universali e necessarie, sostiene che almeno i principi più generali della fisica matematica sono legati a queste leggi per deduzione rigorosa. Egli tentò una tale deduzione dal suo sistema di categorie. Ma qualsiasi deduzione di questo tipo è oggi considerata dagli studiosi (e Poincaré insiste giustamente su questo punto) come un sofisma insostenibile54.

Nella psicologia scozzese, […] un certo numero di giudizi generali sono dati come verità indubitabili, la cui negazione la mente non può nemmeno concepire. [Lo stesso criticismo kantiano, a ben guardare, sembra essere, almeno nella sua lettera, non una filosofia pienamente idealista, ma una dottrina intermedia tra un idealismo dialettico radicale come quello di Platone e una concezione dogmatica delle leggi della mente come quella della filosofia scozzese. Così, le leggi fondamentali della mente sono accettate acriticamente nella filosofia scozzese e con una critica insufficiente nel kantianesimo ortodosso55.

A parte il sofisma denunciato sopra, ci sono due critiche fondamentali alla critica – di cui il kantianesimo è solo un iniziatore e un esempio – che ci sembrano inoppugnabili e ridanciane; la prima ha a che fare con la contraddizione o l’illusione o addirittura con il “sonno critico”, l’altra con la paradossale riduzione razionalista.

La contraddizione kantiana sta nel progetto stesso della critica della “ragion pura”, una critica che la ragione dovrebbe svolgere da sola (“La ragion pura non si occupa in realtà di nient’altro che di se stessa, e non può nemmeno avere un’altra funzione”, “Appendice alla Dialettica trascendentale”, Critica della ragion pura (trans. J. Tissot, op. cit., p. 545), mentre il limite posto da Kant stesso: “Ciò che limita deve essere diverso da ciò che serve a limitare”56 rende questo progetto obsoleto. La ragione non può limitare la ragione; al contrario, se possiamo prendere coscienza dei limiti della ragione, è perché c’è in noi una potenza intellettuale superiore alla ragione e quella conoscenza gode della sua interna illimitatezza57. Puntare su una critica della ragione in sé, quando è stata negata qualsiasi autorità superiore, è quindi un’impresa illusoria. Al “sonno dogmatico” criticato da Kant nei confronti della metafisica (confuso con la scolastica wolfiana58 risponde così il “sonno critico” (Borella), che vi ritorna legittimamente. È il cerchio della conoscenza che Hegel gli restituisce:

Uno dei punti fondamentali della filosofia critica è che prima di salire alla conoscenza di Dio, e dell’essenza delle cose, dobbiamo indagare se la nostra facoltà di conoscenza può condurci lì […]. Questo punto di vista è apparso così pieno di accuratezza da suscitare ammirazione e approvazione unanime […]. Se non vogliamo lasciarci fuorviare dalle parole, vedremo facilmente […] che tutte le ricerche relative alla conoscenza possono essere fatte solo conoscendo, e che ricercare questo cosiddetto strumento di conoscenza non è altro che conoscere. Ora, voler conoscere prima di conoscere è assurdo come la saggia precauzione di quello scolaro che voleva imparare a nuotare prima di avventurarsi nell’acqua.59.

La riduzione paradossale è, ovviamente, quella del razionalismo. Infatti, se Kant nega l’intuizione intellettuale, è solo perché la immagina, sul modello dell’intuizione sensibile, come avente un oggetto davanti a sé. Ora, “al di là della conoscenza per osservazione, c’è spazio per la conoscenza per partecipazione”60. Pensare una cosa è certamente costruire un concetto ma, soprattutto, è essere “intellettualmente afferrati da un senso, da un intelligibile, che ‘riconosciamo’ più che conoscerlo”61. Privato di questa facoltà, Kant può criticare Leibniz per aver “intellettualizzato i fenomeni”62 in un “intellectuelles System der Welt” (un sistema intellettualizzato del mondo)63, ma da qui il paradosso notato da Jules Lachelier:

Il completamente determinato (estensivamente e intensamente), il completamente spiegato (nel divenire e nell’esistenza) devono essere, perché non possiamo fare a meno di cercarli; ma dovremmo cercarli al di là del tempo e dello spazio, cioè dove attualmente ci è impossibile trovarli. – Da qui il paradosso, nel linguaggio di Kant, per cui l’intelligibile, cioè l’oggetto stesso della nostra intelligenza, è proprio ciò che sfugge a ogni presa della nostra intelligenza64.

Resta il fatto che, in seguito a questa riduzione, l'”intellettualismo” è nato nella prima metà dell’Ottocento 65 con, “quasi sempre, un’accezione peggiorativa” (Lalande); e che, in seguito all’inversione kantiana, è diventato a volte difficile sapere che cosa ciascuno intenda per ragione, intelligenza e comprensione (quest’ultima ormai desueta) e, se non è sempre così, le variazioni di vocabolario dovrebbero d’ora in poi renderci molto cauti. Ad esempio, Hegel (1770-1831) identificava il reale e il razionale 66), facendo della Ragione un paradossale “assoluto relativo”, cioè, pur essendo naturale e storica, la Ragione si identifica tuttavia con l’intero essere oggettivo e il suo significato. Nonostante quello che potremmo definire un “panpsichismo deistico evolutivo”, capiremmo meglio associando il reale e l’intelligibile (o significato)67.

L’intelligenza è la facoltà del relativo, mentre la ragione è la facoltà dell’assoluto. L’intelligenza spiega, ma la ragione concepisce ciò che viene spiegato. La prima ci fa conoscere, ma la seconda ci fa vedere; perché la ragione apre una finestra sull’Essere. Poiché parte da ciò che è necessario, dice ciò che non può non essere; e, senza l’aiuto dell’esperienza, impone la verità”68.

Blanc de Saint-Bonnet finisce addirittura per opporre la ragione al ragionamento – che deriverebbe da una radice ebraica che significa vedere (sic)! Da quel momento in poi, l’Abbé Lacuria (1806-1890) fu condannato a seguire il proprio pensiero. La prima facoltà, attraverso la quale “comunichiamo direttamente con l’infinito”, sarebbe per lui “una sorta di intuizione” o “un sentimento intimo che riempie le profondità della nostra anima, ma la cui forma ci sfugge, di cui spesso possiamo dire come San Paolo: ‘Quæ non licet homini loqui, di cui non è permesso all’uomo parlare'”. Quanto alla seconda facoltà, sarà quella della divisione, del discernimento, della separazione: “il nostro senso spirituale del limite [… attraverso il quale] entriamo in relazione con il molteplice o il finito”69. Lo spirito della distinzione da fare è qui chiaramente presente, ma per dare loro dei nomi, l’Abbé Lacuria si trova di fronte a una contraddizione tra le etimologie di “intelligenza” a cui ha accesso: per Bautain: intus legere = leggere dentro, quindi, per lui, un senso dell’infinito, e per Blanc de Saint-Bonnet: inter legere = scegliere tra, quindi ragionare. Di fronte a queste difficoltà, Lacuria cominciò con l’abbandonare la parola “intuizione” (da intueri, intuens, intus ens = essere dentro), che poteva essere usata per esprimere la vista dell’infinito e la propria unione con esso, e riservarla allo stato di vita in Dio dopo la morte. Poi, a causa dello sforzo di penetrazione a cui sembra riferirsi la parola “comprensione” (da in tendere = tendere all’interno), Lacuria la mantiene infine per designare “intelligenza” e, per la facoltà di distinzione (ragione), adotta la parola “intelligenza”, seguendo in questo Blanc de Saint-Bonnet:

È dunque deciso che d’ora in poi esprimeremo con comprensione il senso dell’infinito o l’idea dell’essere, quali sono nell’uomo, e con intelligenza il senso del finito o l’idea del non-essere, quali sono anche nell’uomo.70

Questa assimilazione spirituale, l’opera della fede, si realizza per mezzo di quella meravigliosa facoltà della comprensione, che abbraccia l’infinito in un unico abbraccio credendo a ciò che l’intelletto non può né raggiungere né contenere.71

Forse ancora più significativo di questo periodo travagliato, l’Abbé Lacuria non si attenne a questo programma e usò la parola “intelligenza” in entrambi i sensi, sebbene fosse stato attento a distinguerli. Dal canto suo, il filosofo Félix Ravaison (1813-1900) considerava la parola intelligenza come “conoscenza intuitiva o immediata così come conoscenza concettuale e discorsiva”, quest’ultima equiparata alla comprensione, mentre Henri Bergson (1859-1941), contrapponendo l’intelligenza all’intuizione72, userà l’intelligenza solo nel senso di conoscenza concettuale e razionale, e ne farà un sinonimo di comprensione:

L’intelligenza è caratterizzata dal potere indefinito di scomporre secondo qualsiasi legge e di ricomporre secondo qualsiasi sistema73.

D’altra parte, Émile van Biéma, considerando il significato ormai invertito di “comprensione”, proponeva di “considerare la confusione di intelligenza e comprensione come una semplice improprietà di espressione”74. Quanto a James Mark Baldwin (1861-1934), egli si attenne alla distinzione originaria tra ragione e intelletto (certo, senza alcun fine metafisico), ma utilizzò comunque l’inversione kantiana delle denominazioni:

Understanding is discursive and hence based on premises and hypotheses, themselves not subjected to reflexion, while […] Reason apprehends in one immediate act the whole system, both premises and inference, and thus has complete or unconditioned validity (La comprensione è discorsiva e quindi basata su premesse e ipotesi, di per sé non sottoposte a riflessione, mentre […] la Ragione apprende in un atto immediato l’intero sistema, sia le premesse che l’inferenza, e quindi ha validità completa o incondizionata75.

Come si vede, l’intelligenza è gradualmente scomparsa (riservata alla psicologia); ciò che resta è negarla. Da qui il paradosso di Marcel Proust (1871-1922) che nega l’intelligenza, pur offrendone una “brillante descrizione” in La Recherche du temps perdu (1913-1927)76; distingue forse tra i due significati di “intelligenza”? Da qui anche l’argomentazione sofistica di Jacques Derrida (1930-2004) che, portando la filosofia della struttura alla sua logica conclusione, afferma che “non esiste un’origine assoluta del significato in generale77, […] senza che sembri sospettare che questa affermazione, per essere pertinente, richiede esattamente il contrario”78.

Derrida si rende conto che c’è una contraddizione nel rovesciare la metafisica e la trascendenza con l’aiuto del concetto di segno, che è inseparabile dalla sua finalità referenziale, e quindi dall’affermazione di un trascendente.79.

Jean Borella

Se questa breve panoramica si ferma prima della fine del Novecento, è perché questa situazione di inversione, persino di confusione e di negazione è ormai immutata80. Nel recente Grand dictionnaire de la philosophie (2003), Sébastien Bauer (ca. 1970), per “intellezione”, dà l’ultima parola a Kant; Pierre-Henri Castel (1963) definisce l’intelligenza esclusivamente come oggetto della psicologia; e, per quanto riguarda la ragione, Suzanne Simha sembra avallare la critica kantiana (in particolare contro Leibniz), e mette in discussione la distinzione di André Lalande (1867-1963) tra ragione costituita (che si confonde con le sue produzioni nelle scienze in particolare) e ragione costituente, “perenne, che non è altro che la mente umana con i suoi grandi principi” 81, a favore della prima.

I regimi di ragione

Da questo punto di vista, non crediamo che sia la ragione in quanto tale a essere evolutiva, contrariamente a quanto possono pensare alcuni hegeliani o derridiani, ma piuttosto la mente che mette al lavoro questo strumento. Infatti, la ragione, come ogni strumento, è soggetta al suo utilizzatore, alle sue idiosincrasie, alla sua mentalità e, nel suo inserimento culturale, ai paradigmi, alle concezioni dominanti del suo tempo. Se, sulla scia dell’antropologia strutturale, Derrida può denunciare una concezione unitaria della ragione82, si tratta di un puro sofisma, perché “se così fosse, nessun pensiero avrebbe il diritto di trarre razionalmente una tale conclusione: la ragione è una o non è83”. Infatti, se la ragione è soggetta a tre cose: il suo oggetto, l'”impero della logica”84. Ciò è illustrato da quella che dovrebbe essere chiamata “ragione artificiale” (e non intelligenza artificiale) 85, forza o energia mentale che una parte dell’umanità ha acquisito nel 194686.

Se non si può dire, crediamo, che “la storia della Ragione ‘in generale’ è la storia del senso”87, possiamo certamente, seguendo Jean Borella, distinguere diversi regimi di ragione. Questo perché, pur essendo formalmente universale, la ragione si applica materialmente a oggetti che variano a seconda del luogo e del tempo, nonché a seconda della cultura che media in un modo o nell’altro le esperienze sensibili e intellettive. Quindi, se la ragione naturale si rivela una finzione, esiste comunque una ragione culturale, e quindi la possibilità di regimi distinti di razionalità. In Occidente, almeno, esistono all’incirca quattro regimi di questo tipo:

  • il regime platonico di una ragione intellettiva gerarchicamente ordinata al divino [V-IV secolo AEC, poi II-V secolo, poi Quattrocento];
  • il regime aristotelico-tomistico di una ragione logica soggetta alla rivelazione, ma ancora intrisa di intellettività [V secolo CEA e XIII secolo (poi XV-XIX secolo)];
  • il regime kantiano di una ragione scientifico-critica, orizzontalmente contrapposta alle credenze religiose88;
  • il regime cibernetico o combinatorio [derridiano] di una ragione decostruita e decentrata, lasciata al potere delle sue determinazioni economiche, sociali o etnologiche89.

L’intelligenza come senso dell’essere.

Se l’intelligenza deve essere distinta dalla ragione, è, come abbiamo detto, perché “viene da fuori” (o “attraverso la porta”)90. Certamente, dato il suo stato psicocorporeo, è vero che per l’uomo “nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu” (nulla è nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi)91 ma, solo nella misura in cui aggiungiamo la correzione leibniziana: “nisi ipse intellectus” (se non l’intelletto stesso)92! Se la ragione dipana il ragionamento, è infatti l’intelligenza che lo comprende, e nessuno può costringere nessuno – nemmeno se stesso – a comprendere ciò che rimane incompreso. Simone Weil (1909-1943) lo ha dimostrato meglio di chiunque altro:

l’intelligenza, nel suo atto di intellezione, è perfettamente libera, e nessuna autorità, nessuna volontà, nemmeno la nostra, ha potere su di essa: non possiamo costringerci a capire ciò che non capiamo”93.

L’atto conoscitivo in quanto tale, come abbiamo detto, è in quella “sorta di trasparenza reciproca” che si verifica nell’unione diretta tra un oggetto conosciuto e un soggetto conoscente, costituendo “l’esperienza stessa dell’intelligibile” (Borella). L’intelletto, in atto e nella sua essenza metafisica, è come un cristallo infuso di luce: non la produce 94. Questo è ciò che si riflette nella dottrina dell’intelletto come senso dell’essere95.

Se la realtà e l’intelligenza sono inseparabili96, è perché la realtà ha senso solo per l’intelligenza97. Dire che il ruolo dell’intelletto è quello di essere un “senso del reale” significa notare che l’atto intellettuale primario è essenzialmente l’intuizione del reale in quanto tale, la consapevolezza che esiste un reale98, “chiarezza immediata che si impone”, come dice Léon Noël:

L’intelligenza obbedisce solo all’oggetto, nient’altro la domina, ma lì, nella chiarezza immediata che si impone al suo sguardo, trova il riposo definitivo.99

La nostra “coscienza dell’intelligibilità”, la nostra “esperienza semantica” è questa constatazione che l’idea dell’essere ha la sua ripercussione semantica nella nostra intelligenza mentre ciò non può essere spiegato da alcuna genesi. Questa disposizione metafisica è dunque innata e immediata; ed è proprio l’immediatezza di questa esperienza ontologica che ce la rende direttamente inaccessibile, così come non possiamo vedere la luce che ci fa vedere, se non indirettamente.100. Per questo, non è l’essere stesso dell’oggetto conosciuto che viene accolto nell’intelletto, ma la sua modalità intelligibile, spogliata dell’esistenza individuale dell’oggetto stesso; “l’atto di conoscenza si realizza quindi solo a prezzo di una sorta di derealizzazione”. Tuttavia, questa “conoscenza è molto reale, è addirittura la funzione della realtà per eccellenza”((“L’intelligenza è oggettiva per definizione, altrimenti non avremmo idea dell’oggettività. Ricordiamo che un animale non vede il mondo come una realtà oggettiva in sé: tutto ciò che esiste è il suo Umwelt“, Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, p. 273): “non c’è essere se non per la conoscenza”. È questo che rende paradossale la situazione dell’intelletto: è al tempo stesso fuori dalla realtà e legato alla realtà. È, quindi, questa illuminazione “da altrove”; è, quindi, di un’altra natura, di un altro grado di realtà rispetto a quella che illumina. Jean Borella direbbe che “il contenuto conoscitivo dell’intelletto supera il grado di realtà della sua manifestazione: in altre parole, [che] è trascendente ad essa”101. E deve esserlo, poiché tutto ciò che si manifesta non è mai del tutto presente, poiché la sua radice invisibile, la sua causa e la sua fonte rimangono sempre immanifestate.

Per convincersene, basta tornare all’insegnamento immutabile di Platone, per il quale la concezione dell’universo “deriva per illustrazione sensibile da ciò che è in sé invisibile e trascendente”. È “nella sua stessa sostanza” che il mondo “è dotato di una funzione ‘iconica’” 102; esso è, dice Platone, “di necessità l’immagine di qualcosa” (Timeo, 29b), cosicché ogni cosmologia non può che essere “un mito plausibile (ton eïkota muthon)” (Timeo, 29d)103. Se, per Platone,

la nostra scienza della natura rimane ipotetica, non è per la debolezza della nostra intelligenza; è per la mancanza di realtà dell’oggetto da conoscere. Da quel momento in poi, l’unica conoscenza adeguata a un essere carente è quella simbolica, perché pone innanzitutto il suo oggetto per quello che è, un simbolo, ma un simbolo reale, cioè un’immagine che partecipa ontologicamente al suo modello.104

Note

  1. Les principes de la connaissance humaine, Paris: A. Colin, 1920, p. 3[]
  2. la discorsività è soggetta a dualità, divisione.[]
  3. riferendosi alla mente come “mezzo di rifrazione” attraverso il quale l’oggetto passa per essere conosciuto.[]
  4. Le quattro operazioni dell’anima: l’intelligenza al massimo, la conoscenza discorsiva al secondo, la fede al terzo e l’immaginazione all’ultimo”, Repubblica, VI, 511d-e (Œuvres complètes, trans. Robert Baccou, Paris: Garnier, t. 4, 1950). “Non c’è dunque che il metodo dialettico che, mettendo da parte le ipotesi, va dritto al principio per stabilirlo solidamente; che tira gradualmente fuori l’occhio dell’anima dal pantano in cui è vergognosamente sommerso, e lo solleva con l’aiuto e il ministero delle arti di cui abbiamo parlato”, Repubblica, VII, 533c-d (Œuvres de Platon, trad. V. Cousin, Paris: Rey & Gravier, t. X, 1834). X, 1834.[]
  5. Christophe Rogue, Grand dictionnaire de la philosophie (sotto la dir. di Michel Blay, Paris: Larousse, CNRS ed, 2003), s.v. dianoia: “La dianoia non è dunque che un’introduzione alla dialettica, che sola, considerando sinotticamente la rete delle ipotesi, può superarla e condurre alla conoscenza (noèsis) fondata sulla contemplazione del Bene anipotetico” (ibidem[]
  6. Timeo, 88a per la prima opposizione, Repubblica, III, 395b e Leggi, XI, 916a per la seconda (Bailly).[]
  7. Metafisica, IV, 7, 1012a1.[]
  8. La Scuola distinguerà quindi tra cognitio abstractiva e cognitio intuitiva (ibid.).[]
  9. “Livre de raison” (liber rationis o liber rationum) significava libro dei conti: “rassegna discorsiva dell’intero andamento di una casa” (Lalande). Inoltre, “rendere conto e rendere ragione sono due espressioni praticamente sinonime: lo sa bene la lingua italiana, che usa il termine ragioniere per indicare un contabile” (Secretan, op. cit., p. 76[]
  10. Cfr. commento di Jules Lachelier, in Lalande, s.v. Raison, nota, p. 877[]
  11. In termini di azione: calcolo, supputazione; conto, registro; in senso figurato: sistema, procedura, metodo; valutazione. In termini di facoltà: calcolo, ragione, modo ragionevole o giudizioso di fare le cose; razionale; teoria, dottrina, sistema scientifico. Ratio può anche significare “causa” (Félix Gaffiot, Dictionnaire Illustré Latin-Français, Paris: Hachette, 1934).[]
  12. Se contrapponiamo la ragione alla follia o alla passione, passiamo dal razionale al ragionevole. Se la contrapponiamo alla fede, distinguiamo tra “conoscenza naturale” e conoscenza rivelata (Leibniz). Se viene contrapposta all’esperienza, la ragione può diventare un sistema di principi a priori: “verità indipendenti dai sensi” (Leibniz), che la scuola empirista contesterebbe, in quanto tutto deve essere derivato dall’esperienza; oppure alla ragione può essere data la capacità di una conoscenza sintetica a priori, come nel caso della matematica e dei principi della scienza (Kant[]
  13. Da “lego“: dire, parlare; con la seguente serie di significati particolari: affermare, sostenere, supportare; insegnare; esortare, consigliare, comandare, indirizzare; annunciare con la parola, destinare a…[]
  14. Ad esempio: Logos, “Parola che trasmette adeguatamente la ragione interna del parlante e la ragione esterna inscritta nell'”ordine delle cose””, Gérard Legrand, Dictionnaire de philosophie, Paris: Bordas, 1972; cfr. CNRTL, corsivo aggiunto[]
  15. Philibert Secretan, “Raison et intelligence” (conférence de déc. 1975, Université de Fribourg), Échos de Saint-Maurice, t. 72, 1976, p. 76.[]
  16. Ibidem, traduciamo.[]
  17. Secretan, ibid., p. 77. Sottolineatura aggiunta. “Le scienze logiche corrono sempre il rischio di agire come se questa “intuizione” del loro principio equivalesse a cogliere il loro fondamento, e a iscriverlo nel procedimento della loro autofondazione” (ibid.[]
  18. Così potremmo pensare che: “lo scopo di questo logos […] è di darci accesso a un al di là delle parole e persino delle realtà puramente materiali”, Bernard Suzanne, “Le vocabulaire de Platon”(“Il vocabolario di Platone”), s.v. logos, Platone e i suoi dialoghi (online[]
  19. da “inter” = tra e “lego” = raccogliere e, in senso figurato: raccogliere attraverso le orecchie o gli occhi, leggere[]
  20. correre o scorrere insieme, da cui “co-naissance” in francese: “nato con”, “intelligenza, cioè la mente nel limite in cui comprende”, em-Bibbia, lessico greco ed ebraico (online). Da questa nozione di riunione (sún) deriva, dal greco antico al francese moderno, passando per il latino medievale, il significato di “buona intesa” o “rapporto più o meno segreto tra persone diverse” (cfr. CNRTL, s. v. intelligence[]
  21. In connessione con la sua radice “thes” = deporre, porre, depositare, conservare, ammettere, mettere in atto, accettare[]
  22. Secretan, ibid., p. 78[]
  23. oltre agli esempi già citati, in Filone di Alessandria (c.-20-c.45), “il logos è l’intelligenza divina nell’atto stesso di creare il mondo intelligibile, archetipo di ciò che sarà il mondo sensibile (De mutatione nominum, 116)” e “forza che abita il mondo sensibile (De opificio mundi)”, Annie Hourcade, Le grand dictionnaire de la philosophie, s.v. Logos, p. 639[]
  24. per esempio, Eraclito nota: “il logos è comune”, B 2 (J.-P. Dumont, D. Delatre, J.-J. Poirier (eds.), Les Présocratiques, Paris: Gallimard, 1998[]
  25. Secretan, op. cit., p. 78.[]
  26. Jean Borella, Amour et vérité, op. cit., p. 109[]
  27. Naturalmente, queste operazioni distinte dall’analisi non sono indipendenti, ognuna presuppone tutte le altre; così come questo insieme cognitivo non è indipendente da quello volitivo o, spesso, da quello affettivo[]
  28. il suo famoso La Naissance de l’intelligence chez l’enfant (1936)/ The Origins of Intelligence in Children (New York: International University Press, 1952), dove, da epistemologo più che da psicologo, ha potuto mettere in luce questa “costruzione-acquisizione” della conoscenza da parte dell’intelligenza (di cui si è parlato sopra[]
  29. che “ha conservato nella sua importazione qualcosa di più metafisico”, Lalande, op. cit., s. v. Intelletto (p. 521).[]
  30. Leibniz, Nouveaux essais (op. cit.), II, 21, § 5. Sottolineatura aggiunta.[]
  31. Etica Nicomachea, L. X, cap. VII (1177a), La morale et la politique d’Aristotele, trans. M. Thurot, Paris: Firin Didot, 1823 (online, n.p.[]
  32. “L’intelletto è il principio dell’essenza o della cosa o dell’intelligibilità come l’Uno è il principio dell’essere. L’intelletto è uno strumento eterno della causalità dell’Uno (cfr. V 4.1, 1-4; V I 7.42, 21-23)”, Lloyd Gerson, “Plotino”, Stanford Encyclopedia of Philosophy (ed. 2014). Si veda anche Jean Trouillard, La Procession plotinienne et La Purification plotinienne, Paris: PUF, 1955.[]
  33. De ordine, II, II, 30; Patrologia Latina, t. XXXII, col. 1009; citato in Borella, Amour et vérité, p. 113.). Ciò non impedisce l’uso della ratio in una varietà di sensi, per non dire altro, come ha sottolineato Frederick Van Fleteren, “Authority and reason, faith and understanding in the thought of St. Augustine“, Augustinian Studies, 4, 1973, p. 43[]
  34. Agostino, Trinità, L. XIII, cap. 1; Œuvres complètes de Saint Augustin, trad. M. Devoille, Bar-le-Duc: Raulx, Guérin, 1869[]
  35. Lalande, op. cit., s. v. Intellect (p. 521). Si veda anche Julien Peghaire, Intellectus et ratio selon s. Tommaso d’Aquino, Parigi: Vrin, 1936[]
  36. Questioni sul libro della Trinità di Boezio, q. 6, a. 1, sol. 3; citato in Borella, Amour et Vérité (Amore e verità), p. 114[]
  37. Summa contra Gentiles (1259), II, cap. 76; citato, in sostanza, in Borella, Amore e verità, pp. 114-115.[]
  38. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia IIae, q. 5, a. 1, s. 1[]
  39. René Berthelot (1872-1960), in Lalande, op. cit. s. v. Intellect (p. 521).[]
  40. Lalande, op. cit., s. v. Intellect (p. 521[]
  41. Si trova già nella prima edizione del Dictionnaire de l’Académie (1694), con un significato ampio che include la comprensione e la conoscenza: “Power, faculty of the soul, by which it conceives, connoists & understands“. Un secolo dopo, nel Dictionaire critique de la langue française di Jean-François Féraud (Marsiglia: Mossy, 1787-1788), il significato viene ridotto alla sola concettualizzazione: “Faculté de l’âme, par laquelle elle conçoit” (Facoltà dell’anima, per mezzo della quale essa concepisce); questo è stato approvato dall’Académie française (5a ed. 1798), fino all’8a ed. (1932-1935) quando, sebbene nell’accezione invariata fosse diventato un termine esclusivamente filosofico, il Dizionario aggiunse, tornando al significato originario: “Significa anche, sia nel linguaggio filosofico sia in quello quotidiano, capacità di comprendere”. Il significato originale è quindi sopravvissuto almeno fino al XX secolo[]
  42. Leibniz, Nouveaux essais (op. cit.), II, 21, § 5.[]
  43. Leibniz, Nouveaux essais (op. cit.), IV, 3, § 5.[]
  44. Malebranche, De la recherche de la vérité, L. V, cap. I, § 1.[]
  45. Malebranche, De la recherche de la vérité, L. III, cap. I, § 3.[]
  46. “Il potere di pensare è chiamato Comprensione e il potere di volere è chiamato Volontà”), Saggi, L. II, cap. VI (cfr. Lalande). In altre parole, Locke considera la psiche cognitiva come un blocco, nel senso moderno di intelligenza, cioè comprendente coscienza e ragione.[]
  47. Contrariamente al senso tradizionale e metafisico, la comprensione (mente, intelletto), per Berkeley, non fornisce un accesso diretto alla realtà, il mondo materiale non avendo altra esistenza se non quella di essere percepito – questo è il suo famoso esse est percipi (cfr. A Treatise Concerning the Principle of Human Knowledge, Dublin: Pepyat, 1710, I, 3), ma l’esistenza pratica di un ambiente è comunque una certezza, associata a quella di Dio, nella consapevolezza che tutto ciò che esiste è, esclusivamente, pensato: “Secondo noi, le cose non pensanti percepite dai sensi non hanno un’esistenza distinta dall’essere percepite, e quindi non possono esistere in nessun’altra sostanza se non in quelle sostanze inerti e indivisibili, o spiriti, che le agiscono, le pensano e le percepiscono”; les Principes de la connaissance humaine, trans. Ch. Renouvier, Paris: A. Colin, 1920, p. 68: “Le cose da me percepite sono conosciute dall’intelligenza e prodotte dalla volontà di uno Spirito infinito. E non è forse tutto questo molto chiaro ed evidente? Non c’è forse qualcosa di più di ciò che una piccola osservazione nella nostra mente […] non solo ci permette di concepire, ma ci obbliga anche a riconoscere? Non è forse semplice ed evidente?”, Three Dialogues between Hylas and Philonous in Opposition to Sceptics and Atheists (1713), J. Tonson ed. 1734, “Deuxième dialogue”, online, traduciamo. Può sorprendere leggere un’affermazione equivalente di Henri Poincaré: “Tutto ciò che non è pensiero è puro nulla, poiché possiamo solo pensare il pensiero e tutte le parole che abbiamo per parlare delle cose possono essere solo pensieri; dire che c’è qualcosa di diverso dal pensiero è quindi un’affermazione che non può avere alcun significato” (La valeur de la science, Paris: Flammarion, 1905, p. 276). Come Berkeley, Poincaré non negava l’esistenza oggettiva delle cose: “L’unica realtà oggettiva è la relazione delle cose, da cui risulta un’armonia universale. Senza dubbio questi rapporti, questa armonia, non possono essere concepiti al di fuori di una mente che li concepisce o li sente. Ma sono comunque oggettive perché sono, diventeranno o resteranno comuni a tutti gli esseri pensanti” (ibidem, p. 271).[]
  48. Jean Borella, Amour et vérité, p. 112.[]
  49. “sono dunque una cosa pensante, o ancora uno spirito, o ancora un’anima, o ancora un intelletto, o ancora una ragione”, cit. da Jean Borella, Amour et vérité, p. 113. La traduzione di Victor Cousin, che omette “anima” dalla serie, è equivalente: “je ne suis donc, précisément parlant, qu’une chose qui pense, c’est-à-dire un esprit, un entendement ou une raison”, Œuvres de Descartes, trans. V. Cousin, Paris: Levrault, 1824, t. I, p. 251[]
  50. Ad esempio: “Car je saurois rien révoquer en doute de ce que la lumière naturelle me fait voir être vrai, […] d’autant que je n’ai en moi aucune autre faculté ou puissance pour distinguer le vrai d’avec le faux, qui puisse me enseigner que ce que cette lumière me montre comme vrai ne l’est pas, et à qui je puisse me fier que à elle” (“Non posso infatti dubitare di nulla di ciò che la luce naturale mi mostra come vero, […] in quanto non ho in me nessun’altra facoltà o potere di distinguere il vero dal falso, che possa insegnarmi che ciò che questa luce mi mostra come vero non lo è, e su cui possa fare affidamento se non su di essa”), Méditation troisième, Œuvres de Descartes, Paris: Levrault, 1824, t. I, p. 270[]
  51. Kant distingue tra “intuizione empirica”, che si riferisce al contenuto della sensazione, e “intuizione pura”, che, priva di qualsiasi contenuto della sensazione, è quella delle forme semplici della sensibilità, la forma semplice della sua facoltà di conoscenza. In entrambi i casi, siamo lontani dalla nozione di intuizione intellettuale, che egli non concepisce e quindi rifiuta[]
  52. Critique de la raison pure/Critica della ragion pura, trad. it. J. Tissot, Parigi: Ladrange, 1845, t. I, p. 462 e 464. Enfasi aggiunta. Ecco il paragrafo che contiene la prima parte della citazione: “Se per noumeno intendiamo una cosa in quanto non è oggetto della nostra intuizione sensibile, a parte il nostro modo di percepirla, allora questa cosa è un noumeno in senso negativo. Ma se intendiamo con ciò un oggetto di un’intuizione non sensibile, allora presupponiamo un tipo particolare di intuizione, intellettuale, ma che non è nostra, la cui possibilità non possiamo nemmeno intravedere; e questa cosa sarebbe allora un noumeno in senso positivo”; sottolineato nel testo[]
  53. “Tutta la nostra conoscenza inizia con i sensi, passa da lì alla comprensione, e finisce con la ragione [Alle unsere Erkenntniss hebt von den Sinnen an, geht da zum Verstande, und endigt bei der Vernunft]. […] Abbiamo definito la comprensione come potere delle regole; qui distinguiamo la ragione dalla comprensione chiamandola potere dei principi”, Critique de la raison pure, trad. A. J.-L. Delamarre e F. Marty, Œuvres philosophiques, ed. F. Alquié, Paris: Gallimard, 1980, t. I, pp. 1016-1017[]
  54. René Berthelot, Un romantisme utilitaire, essai sur le mouvement pragmatiste, Paris: Alcan, 1911, p. 299[]
  55. René Berthelot, ibidem, Paris: Alcan, 1911, p. 299. O Antoine Augustin Cournot (1801-1877): “Se l’ordine che osserviamo nei fenomeni non fosse l’ordine che si trova in essi, ma l’ordine che le nostre facoltà vi mettono, come voleva Kant, non ci sarebbe più alcuna critica possibile delle nostre facoltà, e tutti cadremmo, con questo grande logico, nello scetticismo speculativo più assoluto” (Essai sur les fondements de nos connaissances et sur les caractères de la critique philosophique, Paris: Hachette, 1851, t. I, § 90, p. 179.[]
  56. Critique de la raison pure (trans. J. Tissot, op. cit.), p. 444. Sottolineato nel testo. L’errore di traduzione di Tissot (lapsus grammaticale: “ce qui sert” invece di “ce qu’il sert”) non si trova in Barni (G.F., “8e section des antinomies”, in fine, p. 428; citato in La crise du symbolisme religieux, op.cit., p. 321[]
  57. Cfr. Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, pp.321-325.[]
  58. Dal filosofo Christian Wolf (1679-1754).[]
  59. Hegel, La logica di Hegel, trad. it. Augusto Véra, Parigi: Ladrange, 1859, t. I, pp. 221-222[]
  60. cfr. Raymond Ruyer, “les observables et les participables”, Revue philosophique, 1966, t. CLVI, pp. 419-450; Jean Borella, Lumières de la théologie mystique, Losanna: L’Âge d’Homme, 2002, ripubblicato a Parigi: L’Harmattan, 2015, p. 106[]
  61. Borella, Lumières de la théologie mystique (2015), p. 106). È questa ri-cognizione che Platone chiama reminiscenza: “ciò che si chiama cercare e imparare non è assolutamente altro che ricordare”, Menon 81d (Œuvres de Platon, trad. V. Cousin, Paris: Rey, t. VI, 1849, p. 172).[]
  62. nella sua ricerca di una (nuova) terza via, contro il “dogmatismo” e l’empirismo, Kant vede Leibniz intellettualizzare i fenomeni e Locke sensazionalizzare i concetti: “Leibniz intellectirt die Erscheinungen, so wie Locke die Verstandesbegriffe… sensificirt”; Kritik der reinenVernunft [Critica della ragion pura], K. Kehrbach (ed.), Leipzig: Ph. Reclam, 1878, p. 246; Émile van Biéma, in Lalande, op. cit, p. 523.[]
  63. Critique de la raison pure (Kehrbach), p. 245; Émile van Biéma, in Lalande, op. cit., p. 523.[]
  64. in Lalande, s.v. raison, in nota, p. 881). La critica di Derrida evidenzia così il paradosso kantiano: “Il “tribunale della ragione” kantiano assicura alla tradizione filosofico-istituzionale il suo formidabile potere – e la sua abdicazione, la sua impotenza, la sua effettiva impotenza”, Jacques Derrida, Du droit à la philosophie, Paris: Galilée, 1990, pp. 95-96[]
  65. in inglese nel 1829 e in francese nel 1851 (CNRTL).[]
  66. Prefazione ai suoi Principi di filosofia del diritto (1820-1821): “Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig” (tutto ciò che è razionale è reale; e tutto ciò che è reale è razionale[]
  67. Che ci sembra essere il caso: “Eccitato come da un’esca, il pensiero si eleva, per virtù propria, al di sopra della coscienza naturale, delle cose sensibili e dei ragionamenti, e si colloca nel pensiero puro […] È questo desiderio provato dal pensiero di raggiungere l’essenza universale, e la soddisfazione che ne trae, che costituisce il punto di partenza e il motivo dei suoi sviluppi. Sviluppare per il pensiero non è altro che cogliere il suo contenuto e le sue determinazioni, dando loro la forma libera del pensiero puro, libera nel senso che si conforma alla loro necessità interna”, Logica di Hegel, trad. it. A. Véra, Parigi: Ladrange, 1859, “Introduzione”, § XII, pp. 224-225. Enfasi aggiunta. Peraltro, Hegel mantiene la gerarchia terminologica di Kant con “Verstand” come “comprensione separata” e “Vernunft” come “ragione unificante finale”, Jacques d’Handt, Dictionnaire des concepts philosophiques (ed. Michel Blay), s.v. Dialettica, p. 214[]
  68. Blanc de Saint-Bonnet, De l’unité…, t. I, p. 7). E quando si difende altrettanto bene dall’essere tradizionalista che razionalista, è la ragione che divide in due: “Direi allo stesso modo al razionalista che sono più uno di lui: lui vede una sola ragione, io ne vedo due, la ragione interiore, che illumina ogni uomo che viene al mondo, e la ragione esteriore, che illumina l’umanità in mezzo a questo mondo” (ibid., 24). Sono idee che riprenderà ne L’Infaillibilité (1861) per dotare la ragione di una certa infallibilità naturale[]
  69. Lacuria, Les Harmonies de l’être (1847), t. I, p. 242.[]
  70. Lacuria, Harmonies… (1847), t. I, pp. 245-246.[]
  71. Lacuria, Harmonies… (1899), t. I, p. 219.[]
  72. Questa opposizione rende impossibile l’espressione intuizione intellettuale. “, Émile van Biéma, in Lalande, op. cit., p. 526[]
  73. L’Évolution créatrice (1907), Paris: PUF, 86e éd., 1959, p. 98.[]
  74. Lalande, s.v. Intelligence, p. 526, in nota.[]
  75. “La comprensione è discorsiva e quindi basata su premesse e ipotesi, esse stesse non sottoposte a riflessione, mentre […] la Ragione apprende in un atto immediato l’intero sistema, sia le premesse che l’inferenza, e quindi ha validità completa o incondizionata”; in Friedrich Kirchner, Kirchner’s Wörterbuch der Philosophischen Grundbegriffe, 5. Aufl, Neubearbeitung von Carl Michaëlis, Leipzig, 1907, V° 725b; cfr. Lalande, pp. 287-288[]
  76. Catherine Malabou (1959), “Qu’est-ce que la vie artificielle?”, Les Chemins de la philosophie di Adèle Van Reeth, France Culture, 01/09/2017.[]
  77. De la grammatologie (1967), pag. 95.[]
  78. Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, Paris: L’Harmattan, 2009, p. 311[]
  79. Ibid. “È Derrida stesso a dichiarare giustamente che “la coerenza nella contraddizione esprime la forza di un desiderio”, L’écriture et la différence (1967), p. 410 (ibid.). La critica di Borella al riduzionismo semiotico (o strutturalista) si basa su un “argomento di grande semplicità: si tratta di osservare che il discorso del superfacilismo strutturale (che nega ogni trascendenza del discorso) si pone sempre in una posizione privilegiata di trascendenza rispetto a tutti gli altri discorsi; niente di più accecante di un’intenzione critica” (ibid., p. 310).[]
  80. Nell’opera di Roberto Finelli, ad esempio, il “Verstand” di Hegel è rimasto tradotto con “intelletto”: “L’astrazione è la chiave di volta che ci permette di comprendere una modalità arcaica e falsa del funzionamento della mente e della conoscenza: una modalità inadeguata del pensiero che Hegel chiama Verstand, intelletto”, “Riflessioni sulla Scienza della Logica di Hegel – tra antropologia e logica”, Influxus (online), URL: http://www. influxus.eu/article534.html[]
  81. Cfr. Il corso di André Lalande del 1909-1910 e l’applicazione di questa distinzione in Lalande, La Raison et les Normes, Paris: Hachette, 1948[]
  82. nota “l’eterogeneità, nello spazio e nel tempo, delle forme di pensiero, ridotte alla contingenza di semplici disposizioni o combinazioni di elementi”.[]
  83. Jean Borella, Lumières de la théologie mystique, p. 59.[]
  84. “La logica è da intendersi come il sistema della pura ragione, l’impero del puro pensiero”, Hegel, La scienza della logica, Norimberga: J. L. Schrag, 1812, t. I, p. xiii.[]
  85. è la sua denominazione di “intelligenza artificiale”, secondo una traduzione modellata sull’inglese (artificial intelligence – Warren McCulloch, 1956) che sembra dotarla, illusoriamente, di un’autonomia consapevole. Se fino a poco tempo fa Marcel Schützenberger riteneva “fuori questione far eseguire [il riconoscimento facciale] a un computer” (“Una cellula è molto più complessa…”, op. cit, p. 89), i principali campi dell'”intelligenza” sono coperti: l’elaborazione automatica del linguaggio naturale, la rappresentazione e l’elaborazione della conoscenza (apprendimento, ecc.), il ragionamento (sistemi esperti, ausili diagnostici e decisionali), la visione, la robotica avanzata (intervento nel mondo), attingendo alle discipline dell’informatica, della logica, della linguistica, della psicologia cognitiva, delle neuroscienze, dell’ergonomia e persino della filosofia; cfr. Denis Vernant, Grand dictionnaire de la philosophie, p. 577[]
  86. Il 7 agosto 1944 è stato messo in funzione il “Calcolatore automatico di sequenze” o Mark 1. Fino ad allora, l’uomo aveva acquisito solo energia meccanica o termodinamica (fuoco, animali da tiro, vapore, petrolio, elettricità, energia atomica), ma ora dispone di energia mentale[]
  87. Jacques Derrida, L’écriture et la différence, Paris: Seuil, 1967, p. 55.[]
  88. È questa ragione che Lutero chiamava “preventivamente” “la puttana del diavolo”, Predigten Luthers gesammelt von Joh. Poliander 1519-1521, n. 92 (27.1.1521), D. Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, Weimar: H. Böhlau & Nachfolger, 1883, 9, 559, 28-29. Per Lutero, la ragione – chiamiamola intelligenza – è anche “qualcosa di divino, è il principio di tutte le arti e di tutta la saggezza, la potenza, la virtù e la gloria che gli uomini possiedono in questa vita, è sovrana sulla terra e la sua maestà è stata confermata da Dio dopo la caduta di Adamo”, Disputatio de homine (1536), Martin Lutero, Studienausgabe, ed. H.- U. Delius, Berlin: Evangelista, Berlino, Milano. U. Delius, Berlin: Evangelische Verlagsanstalt, 1979-1992, vol. 5, 129, 11-15, 18-19, 22-23, tesi 4, 5, 7,9; citato da Pierre E. S. Metzger, “Luther et la prostituée du diable”, La Revue réformée, n. 203, 1999/2-marzo 1999, t. L.[]
  89. Borella, ivi, pp. 60-61). Si veda lo sviluppo di questa analisi nell’Appendice 12 di Bérard, Métaphysique du paradoxe[]
  90. Letteralmente (thurathen); Aristotele, Sulla generazione degli animali, II 3, 736 a, 27-b 12.[]
  91. Questa formula, originata da Aristotele e, per la sua versione latina, dal Medioevo, sarebbe diventata la tesi polemica di Locke (1632-1704) nel suo Saggio sulla comprensione umana (1689), contro la dottrina razionalista delle idee innate. Egli non si rese conto che la nozione associata di “senso interno” era, in effetti, innata. Questa formula sarebbe diventata il motto di altri empiristi come Hume (1711-1776), ad esempio nel suo An enquiry concerning human understanding (Londra: A. Millar, 1748). Questa formula si trova naturalmente in Tommaso d’Aquino (“Praeterea, omne quod cognoscitur a mente per sui similitudinem, prius fuit in sensu quam fiat in mente“, Questioni controverse sulla verità, q 10, a 9, 4e, http://docteurangelique.free.fr, 2a ed, agosto 2012), non che sia un empirista poiché, per lui, l’intelletto preesiste alle impressioni di Hume[]
  92. Nuovi saggi sulla comprensione umana, Libro II, cap. 1, § 2; cfr. Jean Borella, Le mystère du signe, Paris: Maisonneuve & Larose, 1989, p. 240 (ristampato in Histoire et théorie du symbole, Lausanne: L’Âge d’Homme, 2004; Paris: L’Harmattan, 2015). Hegel la mette in un altro modo: “La filosofia speculativa non deve rifiutare questa proposizione [“nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu”], ma deve anche ammettere il principio opposto: “nihil est in sensu quod non prius fuerit in intellectu”, attribuendogli il significato generale che il νοῦς, e, in senso più profondo, la mente è la causa del mondo, e quindi che il sentimento morale e religioso è un sentimento, e quindi un fatto di esperienza, il cui contenuto ha la sua radice e la sua sede nel pensiero”, Logique de Hegel (Logica di Hegel), trans. Augusto Véra, Parigi: Ladrange, 1859, vol. I, pp. 217-218. E Leon Trotsky (1879-1940) la mette in un altro modo: “Noi conosciamo del mondo solo ciò che ci viene dato dall’esperienza. Questa idea è corretta a condizione che non si intenda per “esperienza” la testimonianza diretta dei cinque sensi. Se riduciamo la questione all’esperienza nel suo senso strettamente empirico, allora è impossibile arrivare a un giudizio sull’origine delle specie, per non parlare della formazione della crosta terrestre. Dire che l’esperienza è alla base di tutto è dire troppo o niente. L’esperienza è la relazione attiva tra soggetto e oggetto. Analizzare l’esperienza al di fuori di questo quadro – cioè al di fuori dell’ambiente materiale oggettivo del ricercatore, un ambiente da cui è distinto ma di cui, da un altro punto di vista, è comunque parte integrante – significherebbe dissolvere l’esperienza in un’unità informe in cui non ci sono né soggetto né oggetto, ma solo la formula mistica dell’esperienza. Un “esperimento” o “esperienza” di questo tipo è valido solo per il bambino nel grembo materno – ma il bambino è purtroppo privato della possibilità di condividere le conclusioni scientifiche della sua esperienza”. Scritti, 1939-40; citati in The Editor, “Logica formale e dialettica”, Revolution (www.marxiste.com), 25/09/2014.[]
  93. Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, p. 291. Analogamente, Moore scrive: “non possiamo assolutamente pensare ciò che non possiamo pensare” (cfr. The Evolution of Modern Metaphysics: Making Sense of Things, Cambridge University Press, 2012). Oppure Gaston Bachelard: “la comprensione è un’emergenza della conoscenza”, Le rationnalisme appliqué, Paris: PUF, 1949, p. 19[]
  94. È questa essenza sovraumana che Maestro Eckhart chiama “increata e increabile” (Quæstiones Parisienses. Questio Gonsalvi. Rationes Equardi, 6; Magistri Eckhardi Opera latina, Auspiciis Instituti Sanctae Sabinae, ad codicum fidem edita, edidit Antonius Dondaine o.p., Lipsiæ in ædibus Felicis Meiner, 1936, p. 17). J. Ancelet-Hustache ha riassunto l’essenza di questa questione nel primo volume della sua traduzione dei Sermoni (in tedesco), Seuil, 1974, pp. 27-30; Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, p. 322[]
  95. Per una panoramica sull’intelligenza come senso dell’essere, con un abbozzo di metafisica della cultura (cultura come intelletto agente), si veda La crise du symbolisme religieux, pp. 273 ss. o Ésotérisme guénonien et mystère chrétien, Losanna: L’Âge d’Homme, 1997, p. 59.[]
  96. “La dottrina dei grandi intellettualisti non consiste nell’ammettere solo elementi intellettuali, ma nel sostenere che l’intelligenza e la realtà sono inseparabili nella profondità delle cose e che nell’uomo stesso un elemento intellettuale è inseparabile da qualsiasi stato o atto di coscienza”; Alfred Fouillée (1838-1912), in Lalande, op. cit, p. 524[]
  97. “Così come il dolce ha senso solo per il gusto e il rosso solo per la vista – e non per la volontà o l’immaginazione”, La crise du symbolisme religieux, p. 273. “L’intelletto richiede l’intelligibilità, come l’occhio richiede la luce; e questa intelligibilità rivela l’essere” (ibid.).[]
  98. Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, p. 288.[]
  99. Léon Noël, “Le psychologue et le logicien”, Revue néo-scolastique de philosophie, 28ᵉ année, 2e série, n°10, 1926 (pp. 125-152), p. 134.[]
  100. Jean Borella, Penser l’analogie (Genève: Ad Solem, 2000), Paris: L’Harmattan, 2012, p. 111[]
  101. Jean Borella, Amour et vérité, pp. 110-112[]
  102. Jean Borella, La crise du symbolisme religieux, p. 40.[]
  103. Ibid., p. 41.[]
  104. È questo “realismo simbolico” (cioè “è l’idea di simbolo che ci permette di pensare l’idea di realtà”, Jean Borella, Symbolisme et Réalité, ed. 2012, p. 248), che significa che “il platonismo non è idealismo”; La crise du symbolisme religieux, p. 31, nota 47.[]