L’illusione democratica

Origini fuorvianti

Si è soliti far risalire l’embrione della democrazia al secondo millennio a.C., quando il “re di giustizia” babilonese Hammurabi (1810-1750) redasse i 282 articoli dell’omonimo Codice (Codici di legge erano stati redatti anche in precedenza, come quello di Ur-Nammu nel 2000 a.C. ca.). Tuttavia, anche se questo codice aveva già lo scopo di proteggere i deboli dai potenti (poveri, vedove e orfani) e punire crimini e misfatti, conteneva solo 37 articoli (che Hammurabi aveva copiosamente aggiunto) che servivano a proteggere il popolo e che in seguito avrebbero ispirato ampiamente Greci e Romani. Tuttavia, lo Stato di diritto, che è senza dubbio una condizione necessaria per la democrazia, non è però una condizione sufficiente. Il popolo di Hammurabi infatti, non aveva alcun potere reale, mentre, etimologicamente, dovrebbe averlo la democrazia.

La Grecia non era migliore e pur assicurando una giustizia uguale per tutti (Dracone, 621 a.C. circa) e un uguaglianza civica (Solone, 640-558), negava l’uguaglianza politica riservandola ai soli ricchi. D’altra parte, Clistene di Atene (560 ca. – 500 ca.) può essere considerato il fondatore della democrazia, con l’istituzione dell’assemblea rappresentativa, la bulè, dotata di poteri che nella fase iniziale si limitavano a controbilanciare quelli degli aristocratici, e che in seguito, grazie a un’abile e all’avanguardia “redistribuzione elettorale”, finì per prenderne il posto. Tuttavia, sebbene le donne, gli stranieri e persino gli schiavi godessero dei diritti civili, solo gli uomini di età superiore ai trent’anni godevano dei diritti politici, ossia il 16% della popolazione (in Francia, nel 2018 l’elettorato rappresentava il 77% della popolazione – 51,8 su 66,9 milioni di abitanti -, ma il 12% di questa popolazione era costituita da persone non iscritte alle liste elettorali. Fonte: INSEE). Inoltre, la necessità di essere disponibili per incarichi non retribuiti faceva sì che fossero gli aristocratici a mantenere tutte le magistrature.

Il punto principale, tuttavia, è che il potere fosse in qualche modo condiviso, grazie al sorteggio, tra tutti coloro che erano in grado di esercitarlo.

Le pseudo-democrazie moderne.

Anche nel Medioevo le cose non andavano certo meglio, sia che si trattasse dell’Alþingi d’Islanda del 930 (un parlamento di 63 membri eletti esclusivamente dai proprietari terrieri), sia che si trattasse dell’aristocratica Repubblica Federale delle Due Nazioni (1569-1795), del Parlamento inglese della Magna Carta (1225), convocato a piacere dal Re, o del Parlamento di Montfort (1265), eletto da meno del 3% della popolazione votante. Per quanto riguarda la loro influenza sul resto del mondo, dobbiamo citare le democrazie inglese, americana e francese, tutte e tre iniziate con una rivoluzione.

La prima fu la Gloriosa Rivoluzione del 1688 in Inghilterra, che portò al Bill of Rights (1689), che aumentò il potere del Parlamento e annunciò l’odierna monarchia “di facciata”. Stiamo parlando di una “democrazia parlamentare” all’interno di un regno, in cui il potere si è progressivamente spostato dal Re al Parlamento, poi ai partiti politici, e ora “riposa essenzialmente nelle mani del leader del partito di maggioranza nei Comuni, a cui è affidata la carica di Primo Ministro”(André Émond, “Le parlement de Westminster: une brève histoire de la démocratie anglaise”, Revue de droit parlementaire et politique / Journal of Parliamentary and Political Law, n. 9, Toronto: Carswell, 2015, pp. 255-256): il “monarca eletto”(Cfr. F. W. G. Benemy, The Elected Monarch: The Development of the Power of the Prime Minister, London: Harrap, 1965) del regno.

A seguire la Rivoluzione americana intrapresa contro il colonizzatore britannico, con la Guerra d’indipendenza (1775-1783), la Dichiarazione d’indipendenza (1776), la Costituzione (1787) e il Bill of Rights (1789, ratificato nel 1791) che comprendeva la Libertà di stampa, di parola, di religione, di riunione, nonché il diritto di proprietà e il diritto di portare armi… A causa della schiavitù e dei genocidi ed etnocidi dei nativi americani (omaggiati comunque in occasione del Giorno del Ringraziamento), che sono alle radici della costituzione del Paese, i diritti riguardano più la libertà che l’uguaglianza dei cittadini ed è a questo stato di cose che si riferisce la cosiddetta democrazia liberale. La parola “democrazia” non fu mai usata dai Padri fondatori, che esclusero dal voto le donne, i nativi, i poveri, gli schiavi e i giovani, in modo che tutti “i ricchi, i benestanti e gli abili” potessero prendere posto nelle assemblee nazionali, ma soprattutto non il popolo, “il peggiore concepibile… (poiché) non può né agire, né giudicare, né pensare, né volere”(Fu il secondo presidente degli Stati Uniti, John Adams [1735-1826], a esprimersi e ad affermare: “se è normale dichiararsi democratici a 20 anni, a 40 non lo è”). Secondo il quarto Presidente degli Stati Uniti, James Madison Jr (1751-1836), considerato il Padre della Costituzione, l’obiettivo fin dall’inizio fu quello di instaurare una plutocrazia (Sistema politico in cui è il potere finanziario ed economico a governare. Da ploutos – gr. Πλοῦτος -: Dio della ricchezza. La plutocrazia dunque, è il denaro al potere, cioè le mani di chi lo possiede). Il Senato ha lo scopo di “proteggere la minoranza degli opulenti contro la maggioranza” (Citato in Robert Yates, Notes of the Secret Debates of the Federal Convention of 1787, Taken by the Late Hon Robert Yates, Chief Justice of the State of New York, and One of the Delegates from That State to the Said Convention, stampato per G. Templeman, Washington, 1886, online), ovvero i proprietari terrieri da eventuali riforme agrarie, consentendo loro la partecipazione al governo. Se il sistema rappresentativo fu in seguito descritto come una democrazia, fu solo perché i candidati alle elezioni, per puro populismo elettorale, si definivano deliberatamente “democratici” soprattutto per conquistare il voto dei poveri. E fu con la fondazione del Partito Democratico che Andrew Jackson (1767-1845) accedette finalmente alla presidenza (1828) (Francis Dupuis-Déri, “The political power of words: The birth of pro-democratic discourse in the 19th century in the United States and France”, Political Studies, vol. 52, marzo 2004, pp. 118-134).

Infine, ci fu la Rivoluzione francese, ispirata, come quella americana, dall’Illuminismo (in particolare, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) si ispirava alle dottrine filosofiche del XVIII secolo, in particolare di Montesquieu (1689-1755), Diderot (1713-1784), Voltaire (1694-1778) e Rousseau (1712-1778)…). A tutta prima essa sembrò portare altri elementi alla nozione di democrazia, in particolare il riferimento a principi universali e una forte separazione dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, messi a guardia l’uno dell’altro. Tuttavia, anche qui, come già negli Stati Uniti, la democrazia in quanto tale era da evitare. Infatti, Spinoza, Montesquieu e Rousseau avevano giustamente contrapposto la democrazia alle elezioni, essendo queste ultime semplicemente un’aristocrazia, anche se eletta e non ereditaria. Ma era un governo “rappresentativo” eletto che doveva essere messo in atto. Come disse senza mezzi termini il co-ideatore della Costituzione francese, l’abbé Emmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836):

La Francia non deve essere una democrazia, ma un regime rappresentativo. (…) la stragrande maggioranza dei nostri concittadini non ha né un’istruzione sufficiente né il tempo libero sufficiente per volersi occupare direttamente delle leggi che devono governare la Francia; deve quindi limitarsi a nominare dei rappresentanti […] che non abbiano una volontà particolare di imporsi. Se dettassero la loro volontà, la Francia non sarebbe più uno Stato rappresentativo, ma uno Stato democratico. Il popolo, ripeto, in un Paese che non è una democrazia (e la Francia non potrà mai esserlo), può solo parlare, può solo agire attraverso i suoi rappresentanti (François Furet, Ran Halévi (dir.), Les Orateurs de la Révolution française [“Gli oratori della Rivoluzione francese”], t. I , Paris: Gallimard, 1989, pp. 1025-1027).

Così, la possibilità di partecipare personalmente alla formazione delle leggi fu rapidamente eliminata dalla Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789:

La legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di partecipare personalmente, o tramite i loro rappresentanti, alla sua formazione” (art. 6, corsivo aggiunto).

La parola “personalmente” non fu mai più usata nelle Dichiarazioni successive.

Con il rifiuto del suffragio universale a favore del suffragio censitario riservato ai cittadini più abbienti, anche il sistema politico delle repubbliche francesi era direttamente – e costituzionalmente – aristocratico e plutocratico. Esattamente come negli Stati Uniti, si voleva un “Paese governato dai proprietari” (François Furet, Denis Richet, La Révolution française, Paris: Fayard, 1973, p. 259. Boissy d’Anglas fu l’emblematico difensore di questa ideologia). Naturalmente, anche in Francia, a metà Ottocento, la parola “democrazia” fu maliziosamente associata a quella di “repubblica”, per conquistare i poveri, e ancora oggi l’inganno continua a non essere evidente a tutti.

Dall’inganno all’illusione

Chiamare “democrazie” i regimi basati sulle elezioni è stato il grande inganno della seconda metà del XIX secolo; credere oggi che le nostre repubbliche siano democratiche è un’illusione. Così, i presidenti proclamano all’infinito: “Viva la Repubblica!”, ma nessuno ha mai osato dire: “Viva la democrazia!”, un augurio che sembra essere riservato alla Ligue des droits de l’homme (Risoluzione adottata il 5 giugno 2017 con 278 voti a favore, 23 contrari e 27 astensioni. Cfr. https://www.ldh-france.org/wp-content/uploads/2017/06/ RESO-VIVE-LA-DEMOCRATIE-DEF-6-June.pdf.). Ed è facile capire perché.

Questa illusione democratica, spesso denunciata, consiste nel credere che le decisioni politiche, grazie alle elezioni, riflettano quindi la volontà generale, mentre ciò avviene raramente (livelli di tassazione, abolizione della pena di morte, mancata considerazione dei voti bianchi o nulli, matrimonio per tutti, ecc.) Eppure è questa volontà generale che costituisce la sovranità popolare, e questa volontà generale secondo Rousseau, non è rappresentabile (legislativa), ma solo delegabile (esecutiva).

Se pensiamo che la “democrazia” consista, da un lato, in decisioni prese in accordo con la maggioranza e, dall’altro, in un potere legittimo a seguito di elezioni, i regimi occidentali sono ben lungi dall’essere tali.

Possiamo citare il Trattato di Maastricht, respinto in Francia con un referendum, ma comunque accettato da un voto di entrambe le camere a Versailles (ovviamente costituzionalmente legale). In questo caso, l’illusione democratica consiste nel credere che i rappresentanti rappresentino per davvero.

Per quanto riguarda le elezioni, basta pensare ai cittadini non iscritti alle liste elettorali (12%), agli astenuti (42%) e alle schede bianche o non valide (7%), per scoprire che chi è stato eletto con il 65% dei voti espressi è in realtà stato eletto da meno di un terzo dei cittadini aventi diritto al voto. Eletto con il 51%, significa allora eletto solo da meno di un quarto. È facile capire la necessità di legittimità, ma è anche facile vedere l’artificio e i limiti del voto libero. Ecco perché il diritto di voto per alcuni è diventato un dovere per altri, senza però risolvere il problema dell’elezione in quanto tale. In questo caso, l’illusione democratica consiste nel credere nella legittimità del potere o, quantomeno, nella sua legittimazione attraverso l’elezione di pochi da parte di altrettanti pochi.

Infine, se dovessimo prendere ad esempio il principio inaugurale della “democrazia”: una giustizia identica per tutti in uno Stato di diritto – Hammurabi e Dracone insegnano – troveremmo che il caso in cui la giustizia stessa annuncia una “sentenza esemplare” nega allora l’isonomia, ovvero l’uguaglianza di fronte alla legge. (Detto questo, la democrazia è “molto rapidamente, troppo rapidamente identificata con lo Stato di diritto”; Miguel Abensour, “Utopie et démocratie”, Raison présente n. 121, 1° trimestre 1997, p. 29. Infatti, se lo Stato di diritto è una condizione necessaria della democrazia, è ben lungi dall’essere una condizione sufficiente). Sarebbe certamente meno elegante cambiare la legge in base alle circostanze del crimine commesso (sempre che possa essere retroattiva – ma ci sono precedenti in tal senso), ma la formula rimane incompatibile con la sacrosanta isonomia proclamata dalla stessa Giustizia.

La democrazia ateniese non era una vera democrazia perché escludeva gran parte della popolazione dal suo governo. Ricordiamo a questo proposito la classica divisione in classi di Solone: gli Eupatridi (i proprietari terrieri più ricchi), i Gemoroi (gli altri proprietari terrieri, i contadini), la classe popolare (il resto della popolazione) e gli schiavi (che erano solo proprietà). D’altra parte essa dimostrò che ciò che contava non era la falsa idea di una presunta rappresentanza del “popolo” da parte dei delegati, ma il metodo di reclutamento. Grazie al sorteggio, ogni cittadino era a sua volta governato e governante, “comandava e obbediva a sua volta” (Aristotele). Questa è la cosiddetta uguaglianza politica! E la coesione sociale, nella Serenissima Repubblica Veneta durante il Rinascimento, si basava su questa (Cfr. Bernard Manin, Principes du gouvernement représentatif – “Principi del governo rappresentativo” -, Paris: Calmann-Lévy, 1995).

Il suffragio a sorte è democratico, l’elezione è aristocratica (lo si era capito da tempo: Aristotele, La Politica, IV, 9, 1294-b.). Questa non è una novità, e lo avevano ben compreso, ciascuno a modo suo, Guicciardini (1483-1540), Harrington (1611-1677) e Montesquieu (1689-1755), che si espressero a favore della rappresentanza (In altre parole, visto il risultato attuale, la costituzione di una “élite politica istituzionalizzata”, Moses Finley, Démocratie antique et démocratie moderne – “Democrazia antica e moderna” -, Paris: Payot, 2003, p. 75), come lo stesso Rousseau, e non a favore di una “democrazia” diretta.

Potremmo certamente vedere un progresso nel fatto che una parte sempre maggiore della popolazione gode dei diritti civici e del diritto di voto, ma questo inganno è l’illusione democratica: il potere rimane di fatto confiscato da una determinata classe sociale grazie al mantenimento della “rappresentanza”. Si tratta di pura demagogia, che consiste nel credere e/o far credere alla gente di avere un qualche potere (ovvero solo quello di scendere in piazza, di scioperare o di bloccare le rotonde con i Gilet Gialli – movimenti sociali in Francia nel 2018). Tutto questo è ben lontano dalla Costituzione montagnarda del 1793, che non fu mai applicata, ma che proponeva che “il popolo sovrano [fosse] l’universalità dei cittadini francesi” (art. 7), aggiungendo al suffragio universale diretto l’adozione delle leggi più importanti tramite referendum. In altre parole, i cittadini diventavano legislatori! In definitiva, con la confisca del potere (legislativo), la “democrazia” che conosciamo oggi “non è più un mezzo per controllare il potere [esecutivo] ma un mezzo per inquadrare le masse” (Jacques Ellul, L’Illusion politique [1965], Paris: La Table Ronde, 2004, pp. 218-219). Per fare questo, l’importantissima classe “dirigente” deve manipolare l’opinione pubblica e “fabbricare il consenso” (manufacture of consent) delle masse (Cfr. Walter Lippmann, Public Opinion, 1922). “L’opinione pubblica non esiste”, ha detto Pierre Bourdieu (1930-2002), perché i sondaggisti, rilanciati dalla stampa, “fanno l’opinione” pretendendo di misurarla (Cfr. Patrick Champagne, Faire l’opinion, le nouveau jeu politique – “La formazione delle opinioni, il nuovo gioco politico” -, Paris: Les Éditions de Minuit, 1990). È così che nasce una “post-democrazia” (Cfr. Jacques Rancière, La Mésentente : Politique et philosophie – “Il disaccordo : Politica e filosofia” -, Paris: Galilée, 1995), un sistema cosiddetto “consensuale” in cui lo Stato di diritto finisce per fondersi con uno Stato di opinione. L’assurdità di una simile deriva è illustrata quando i cittadini vengono interpellati su domande in cui non hanno alcuna competenza, ad esempio: “Crede che la clorochina sia un trattamento efficace contro il covid-19?” (Cfr. Christine Mateus, “Covid-19 : 59% des Français croient à l’efficacité de la chloroquine” – “Covid-19: il 59% dei francesi crede nell’efficacia della clorochina” -, Le Parisien, 5/4/2020). Non si dovrebbe anche chiedere loro se ritengono affidabile il sistema di guida dei missili recentemente sviluppato dall’esercito francese o se credono che ci sia stato un errore di calcolo nell’ultimo rapporto della Cour des Comptes? (La ‘Corte dei Conti’ in Francia è un organo governativo responsabile della sorveglianza finanziaria e della responsabilità). L’alto tasso di risposta a questo tipo di sondaggi insensati suggerisce che molti degli intervistati credono veramente alla partecipazione democratica.

L’impossibilità della democrazia

Una volta dissipata l’illusione della democrazia, non resta che convenire sul fatto che la democrazia è impossibile. Lo dimostrano i fallimenti dei tentativi di “democrazia alternativa”, come la ribellione zapatista (EZLN – Ejército Zapatista de Liberación Nacional, Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) nel Chiapas messicano (1994), le manifestazioni a Seattle contro la riunione dell’Organizzazione mondiale del commercio (1999), il primo Forum sociale mondiale (FSM) a Porto Alegre (2001), e persino le “Nuits debout” (“Notti in piedi”) francesi (2016) o le attuali marce globali per il clima (2019).

Il diritto dei popoli all’autodeterminazione?

Una prima impossibilità fondamentale risiede nel rifiuto del “diritto dei popoli all’autodeterminazione”, che è stato affermato con tanta forza (Carta delle Nazioni Unite, artt. 1 e 2, confermati dalla Corte internazionale di giustizia), ma che esclude questo diritto ai popoli corso, basco, catalano, cabilo, acadiano, quebecchese, hawaiano, groenlandese, uiguro, papuano, baluchi, tamil, sikh, faroese, andaluso, siciliano, veneziano, tibetano, gallese e scozzese, solo per citarne alcuni. In altre parole, con la rara eccezione di un referendum autorizzato, una volta che uno Stato è in vigore può essere modificato solo da un colpo di Stato. La fermezza violenta di pochi o di una maggioranza che rappresenta lo Stato e non il popolo, può quindi essere affrontata solo con la violenza attiva. Certo, comprendiamo l’importanza di regole stabili, ma se queste sono per sempre immutabili, allora dov’è la democrazia? Vista diversamente, questo significa che, una volta costituita storicamente, una nazione è condannata a gestire i propri sistemi politici come meglio può all’interno di un dato perimetro stabilito. L’impossibilità di fatto della democrazia è proprio questo.

Controllo economico

Una seconda grande impossibilità sembra essere legata all’inestricabile intreccio tra politica ed economia (come hanno ben visto Miguel Abensour e André Gorz) nella loro azione congiunta sulla società, che si tratti di capitalismo cinese, liberismo anglosassone o altro. L’economia che si basa proprio sul mantenimento delle differenze sociali non potrà mai essere vista come “democratica”: prestatori e mutuatari, differenziali del costo del lavoro (e dumping sociale), dirigenti d’azienda e dipendenti, asservimento del Sud all’Occidente, azionisti e lavoratori, ecc. ecc. Ciò è ben illustrato dalla libera circolazione delle merci e dei capitali, ma non delle persone, e persino, al contrario, dai micidiali fallimenti delle società comuniste.

Questa combinazione di autorità politiche ed economiche è inseparabile dalle società produttive e consumistiche di tipo occidentale e dal loro contesto globalizzato e standardizzante. Altre strategie sono possibili. Da questo punto di vista, Pierre Clastres (1934-1977) ha mostrato come, in alcune culture, l’economia di sussistenza (è esclusa la produzione in eccesso o la produzione per altri) sia associata all’uguaglianza politica. Contrariamente a quanto si crede, la padronanza della natura e l’innovazione sono tutt’altro che assenti da queste economie di sussistenza, e i capi sono forti della generosità, dell’oratoria e della capacità di risolvere i conflitti in modo pacifico; la loro autorità è simbolica, essi non danno ordini! (Pierre Clastres, La Société contre l’État – “La società contro lo Stato” -, Paris: éd. de Minuit, 1974, pp. 27, 133-136 e 164. Soprattutto tra gli amerindi). Più precisamente, possiamo dedurre che esista un ordine in questo intreccio tra politica ed economia.

Il rapporto politico di potere precede e fonda il rapporto economico di sfruttamento. Prima di essere economica, l’alienazione è politica, il potere viene prima del lavoro, l’economico è un sottoprodotto del politico, l’emergere dello Stato determina l’emergere delle classi (ibidem).

In ogni caso, è per questo che i regimi politici in vigore non sono mai chiamati democrazie, ma repubbliche, monarchie o dittature militari. La maggior parte delle repubbliche ha un sistema parlamentare (Germania, Italia, India, ecc.), un sistema presidenziale (Stati Uniti, Paesi sudamericani, ecc.), un sistema semi-presidenziale (Francia, Polonia, Algeria, ecc.) o un sistema a partito unico (Cina). Per quanto riguarda le monarchie, esse sono costituzionali (il monarca esercita il potere e il parlamento, se esiste, ha poteri deboli: il Marocco, ad esempio), costituzionali con sistema parlamentare (il monarca non esercita il potere: Regno Unito, Spagna, Canada, Giappone, ecc.) o assolute (Arabia Saudita).

Se si usa l’aggettivo “democrazia” per designare il Paese, come avviene per le democrazie popolari dell’URSS, si finisce per avere regimi totalitari, e aggiungere “popolare” a “democratico” non è certo garanzia di democrazia, come dimostra il caso della Repubblica Popolare Democratica di Corea! Resta il fatto che la Repubblica Democratica del Congo (RDC) è probabilmente più democratica di quanto non lo fosse la Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Da questo punto di vista, gli Stati Uniti hanno conservato la storica opposizione tra repubblica e democrazia nei nomi dei loro due principali partiti: il Partito Repubblicano e il Partito Democratico, anche se quest’ultimo ha mantenuto la sua immagine originaria di doppiezza.

In breve, se la democrazia non esiste da nessuna parte, gli è perché è impossibile.

La diacrazia, cosa significava “democrazia”

Ricordiamo il quadro dipinto da Aristotele (La Politica, Libro III, cap. 5, § 1-5 – trad. Barthélemy Saint-Hilaire, 1279a & b). La stessa divisione dei governi, tratta da Erodoto, si ritrova in Platone (Repubblica, L. I), ma fu Aristotele a sistematizzare il pensiero intorno a questa classificazione, che era comune all’epoca. Il metodo si ritrova in Spinoza (Traité Théologico-Politique/Trattato teologico e politico, 1670), in Montesquieu (De l’Esprit des Lois/Lo spirito delle leggi, 1748), anche se considera solo l'”uno” e i “molti”, in Machiavelli (Discorso sulle Decadi di Tito Livio, 1517-1519, L. I, cap. II), in Rousseau (Du contrat social/Il Contratto Sociale o Principi di Diritto Politico, 1762, L. III, cap. III et X) e in Hobbes (De Cive, Imperium , cap. VII, § 3)…)). In quest’ultimo pensatore si distinguono solo tre casi:

1. in cui uno solo ha il potere: questa è la monarchia (la regalità dice Aristotele) e la sua deviazione, se non è più il bene comune o l’interesse generale ad essere perseguito, è la tirannide;

2. in cui molti hanno il potere: questa è l’aristocrazia, e la sua deviazione è l’oligarchia (“predominio dei ricchi”);

3. in cui la maggioranza ha il potere: questa è la repubblica (politeia o regime costituzionale) e la sua deviazione è la demagogia (“predominio dei poveri a esclusione dei ricchi”).

Nota: democratia in greco aveva sia l’attuale significato positivo di “democrazia” sia quello peggiorativo qui reso con “demagogia” (B. Saint-Hilaire), il che può aver portato a fraintendimenti. Non è questo il caso di Polibio (L. VI), dove, con meno forza, “regalità, aristocrazia e democrazia” sono corrotte da “monarchia, oligarchia e oclocrazia [tirannia della folla, o della massa come diremmo oggi]”. Aristotele usa talvolta anche “oclocrazia”, nel senso di una democrazia deviata in una tirannia dei poveri (i più numerosi).

Dopo 2.500 anni di esperienze diverse, questo quadro merita di essere completato in vari modi. Possiamo farlo partendo dal numero di individui nelle cui mani si concentra il potere e dai due significati attuali di anarchia: 1) nessuno ce l’ha, è un’ucarchia (“Ucrazia”, sul modello di “utopia”, è già utilizzato dal movimento Ukratos – attualmente sostenuto dall’associazione “umanista razionale). Davanti ad una vocale, la “o” greca (da oûdén = non uno, cioè nessuno) diventa “oukh“; semplificheremo l’ukharchia in ucarchia ovvero il caos; 2) oppure tutti ce l’hanno, e allora è una “panarchia” (non stiamo parlando qui della panarchia apolitica, a-territoriale e piuttosto anarchica di Paul-Émile De Puydt (1810-1888) e, potremmo pensare a questa come ad una possibile democrazia. Occorre considerare cinque casi (sulla base della stessa riflessione, si veda Francis Dupuis-Déri, “L’anarchie en philosophie politique. Réflexions anarchistes sur la typologie traditionnelle des régimes politiques” – “L’anarchia nella filosofia politica. Riflessioni anarchiche sulla tipologia tradizionale dei regimi politici” -, Les Ateliers de l’éthique, vol. 2, n. 1, primavera 2007; “Monarchia, aristocrazia, democrazia e anarchia: riflessioni sui diversi regimi politici (di Francis Dupuis-Déri)”, partage-le.fr, 2014).

1. in cui nessuno ha il potere: questa è l’anarchia (“a” alfa privativo) o, per evitare il doppio significato di “anarchia”, “ucarchia”, la conseguenza sarebbe il disordine, la confusione. Diciamo “sarebbe”, perché un’ucarchia è impossibile sia sociologicamente che metafisicamente.

  • Sociologicamente, sia per l’homo politicus autoctono che per le società tradizionali con autorità diffusa (come dimostra Pierre Clastres, Cfr. Pierre Clastres, La Société contre l’État – “La società contro lo Stato”-, Paris: éd. de Minuit, 1974, ad esempio) o di società composte da una popolazione più numerosa con autorità più marcata; erano le premesse dello Stato di diritto (da prima di Hammurabi e ben prima di Solone), un’estensione più ampia dei principi familiari o parentali e possiamo senza dubbio affermare con Aristotele che l’homo conjugalis et familias precede l’homo societatis (“L’uomo è un essere incline a formare una coppia, ancor più che a formare una società politica, in quanto la famiglia è qualcosa di anteriore alla città e più necessaria di essa”, Etica Nicomachea, VIII, 14, 1162 a 15-20 – trans. J. Tricot, Vrin, 1990) – e possiamo capire perché Aristotele non abbia specificato questo caso.
  • Metafisicamente, in quanto l’autorità è una delle conseguenze della volontà umana.

2. in cui Uno solo ha il potere: la monarchia, o anche il “dispotismo illuminato” alla Machiavelli.

3. in cui più persone hanno il potere: l’aristocrazia, cioè etimologicamente il governo dei migliori, che resta comunque un’ottima idea! Da qui la nozione post-rivoluzionaria di “aristocrazia naturale”, da omologare all'”aristocrazia eletta”, attraverso un'”aristocrazia dei lumi” (Auguste Comte, Cours de philosophie positive, t. 4, p. 59, CNRTL). Da qui anche le “élite” autoproclamate di oggi e il problema della “riproduzione delle élite” (Bourdieu). Dopo la deriva oligarchica plutocratica dei primi tempi (elezione sulla base del suffragio censitario da parte dei più ricchi), abbiamo ora l’invenzione di una meritocrazia (i “buoni studi” sostituirebbero il denaro), nell’illusione di una “uguaglianza delle opportunità” (Rawls). Alla fine, le nostre aristocrazie elettive conservano l’immagine, usurpata o meno, e in parte certamente meritata, di una “mafia”, di una cleptocrazia, che una lettura dei rapporti della Cour des Comptes (Corte dei Conti) è ben lungi dallo smentire. Quando una minoranza impone le sue decisioni a tutti, è totalitarismo. Certo, se le decisioni sono finalizzate al bene comune, il termine sembrerà oltraggioso, ma allora i dizionari dovrebbero essere riscritti.

4. in cui i più numerosi hanno il potere: è diventato difficile chiamare democrazia l’unico mantello elettorale utilizzato per legittimare l’oligarchia degli eletti. Sono rappresentati nel senso teatrale della parola, soprattutto nelle fasi pre-elettorali, o anche nel contesto della riforma delle pensioni o della crisi del covid-19. Le leggi che non riflettono la volontà generale lo testimoniano. Inoltre, tale pseudo-democrazia è singolarmente e diffusamente denunciata come “tirannia della maggioranza”, da Benjamin Constant (Principes de politique, 1806) a Friedrich Hayek (La Constitution de la liberté, 1960), passando per Tocqueville (“Le despotisme de la majorité”, Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1835, t. 1, Paris: Flammarion, 1981, p. 230), Herbert Spencer (“Il dominio dei pochi da parte dei molti è anch’esso una tirannia”, cfr. Le Droit d’ignorer l’État/Il diritto di ignorare lo Stato, 1850), John Stuart Mill (De la liberté, 1859, Paris: Gallimard, 1990, pp. 65-66) e Isaiah Berlin (Éloge de la liberté, 1958). Certo, questa tirannia è, nel migliore dei casi, limitata da una Costituzione, ma chi l’ha scritta, chi la revisiona, chi la interpreta?

5. in cui Tutti hanno il potere: questa sarebbe la democrazia. Nella sua seconda accezione, l’anarchia sarebbe più accuratamente chiamata “panarchia” (o “omnicrazia”). Certo, un tale regime resta da ordinare e orchestrare ma, teoricamente, è l’unico che sarebbe veramente democratico. Più precisamente, non si tratta di far sì che tutti abbiano il potere contemporaneamente, ma che il potere venga ripartito tra tutti, nel modo più appropriato; a turno, per esempio; da questo punto di vista, si dovrebbe parlare di diacrazia (Condividere si dice metekhein o metalambanein, ma è il prefisso “dia” che indica meglio la distribuzione).

Come si vede, sarebbe meglio abbandonare il termine “democrazia”, ormai troppo polisemico e le cui realizzazioni sono ben lontane da (o addirittura contrarie a) ciò che hanno in mente coloro che ci pensano più seriamente.

Quali sarebbero dunque gli elementi generali che caratterizzerebbero una “panarchia diacratica” (sempre che non si tratti di un pleonasmo)?

1. In quanto società umana, una “democrazia” è “sia una forma di socializzazione […] sia una forma di istituzione politica del sociale” (Miguel Abensour, op. cit., p. 35). Una tale società è per natura “antiautoritaria” (Pierre Leroux) e quindi un perpetuo “movimento contro lo Stato” (Clastres, Abensour, Cfr. il suo libro: La Démocratie contre l’État. Marx et le moment machiavélien, Paris: éd. du Félin, 2012), soprattutto se lo Stato si trasforma in un apparato di dominio (Marx): plutocrazia, cleptocrazia. Così, contro Hobbes, non abbandona la sovranità collettiva, ma con Locke (dopo Aristotele e lontanamente Hannurabi) riconosce, come base minima uno Stato di diritto. Se la sovranità non viene abbandonata gli è perché la volontà generale non può essere rappresentata (da un organo legislativo), ma può solo essere delegata a un esecutivo (Rousseau). Sostenuto da Kant e da molti altri (Harrington, Guicciardini e Montesquieu), il sistema rappresentativo da solo non è democratico, come i costituzionalisti americani e francesi (Madison Jr., Sieyès) hanno chiaramente visto e consapevolmente ed esplicitamente promosso. Questo sistema, che ha uno scopo preciso e parziale (Rousseau), deve essere migliorato (Leroux) e integrato da lotterie appropriate (Platone, Aristotele e molti altri oggi: Manuel Cervera Marzal e Yohan Dubigeon, “Démocratie radicale et tirage au sort, au-delà du libéralisme”, Presses de Science Po, “Raisons politiques”, 2013, n. 50; Olivier Dowlen aggiunge “preselezione”. The Political Potential of Sortition: A Study of the Random Selection of Citizens for Public Office, Exeter: Imprint Academic, 2008). Dovremmo senza dubbio immaginare che le candidature vengano presentate a specialisti riconosciuti, a loro volta estratti a sorte… Questo rafforza l’idea che il sorteggio non potrebbe esistere senza altri metodi di selezione: in particolare la cooptazione. Il vantaggio di questi tempi è che non è necessario creare un’azienda da zero.

2. La separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario (Montesquieu), ognuno dei quali limita gli altri, è fondamentale, ma se questi tre poteri sono asserviti o controllati da poteri superiori e meno limitati (l’economia o i media), questa separazione da sola è insufficiente. Rovina questo schema di diacrazia. Ad esempio, l’idea di Jürgen Habernas di “dibattito pubblico” scompare dietro il potere dei media, che da “strumenti di libertà” (Tocqueville) sono diventati “cani da guardia” (Serge Halimi), servendo a “fabbricare consenso” (Walter Lippmann).

3. Segnata da divisioni, opinioni divergenti e interessi contrastanti, una democrazia è intrinsecamente incompleta (Lefort, Delecroix), inventiva e quindi “selvaggia” (Claude Lefort). Di conseguenza, deve sviluppare una “istituzionalizzazione del conflitto” (Lefort) – ma non troppo! Non si deve permettere che i conflitti scompaiano in procedure che li annientino. La libertà è intrinseca (Bakunin) a una società di associati o di amici (Leroux), o addirittura di fratelli (Platone); “in un regime politico libero, la libertà è il suo stesso fine” (Abensour). Dobbiamo quindi smettere di “temere le masse” (Étienne Balibar) e di cercare di controllarle (Jacques Ellul).

4. In definitiva, la democrazia “selvaggia” significa rinunciare alla democrazia. A partire dalla parola stessa, il cui significato etimologico è irrilevante (potere ai più numerosi, nel senso di Aristotele), seguito da ciò che ne è stato fatto dalle rivoluzioni americana, inglese e francese (confisca del potere) e, infine, dalla demagogia che le è definitivamente associata.

Accetta l’ignoto, l’imprevedibile e l’indeterminato, rifiuta di cercare l’armonia o l’unità ad ogni costo, ma avanza semplicemente secondo il principio diacratico: il potere non appartiene a nessuno (Lefort), è condiviso, nel tempo e nello spazio, e l’uomo è fatto per comandare e obbedire a sua volta (Aristotele).