Questo articolo è un’estensione dello studio: Democrazia del futuro. Condivisione del potere, pubblicato nel 2022.
Tradotto dal francese da Aldo La Fata e Letizia Fabbro.
La nozione di merito si è chiaramente evoluta nel tempo e le competizioni sportive di oggi ci offrono l’opportunità di ancorare la nostra riflessione a un esempio in cui l’uso improprio di questa nozione diventa più chiaro. Questa indagine etimologica, sociologica, filosofica, metafisica, teologica e spirituale rappresenta una sfida attuale.
- Introduzione
- Indagine etimologica e lessicologica.
- L’esempio caricaturale dello “sport”: un’illustrazione di un’accezione impropria.
- L’istituzione sociale del “merito”, ovvero la trasformazione della disuguaglianza per nascita in disuguaglianza per merito.
- Interpretazione psicologica della nozione di merito.
- Analisi filosofica della nozione di merito.
- Approfondimento metafisico della nozione di merito.
- Elementi teologici sulla nozione di merito.
- Merito e vita spirituale.
- Note
Introduzione
Lo sport moderno – la competizione tra E.P.O. e autotrasfusione o il tradizionale spettacolo politico-demagogico: panem et circences – offre almeno l’interesse di un facile punto di partenza per un esame della nozione di merito.
Dopo una breve rassegna etimologica e lessicologica, possiamo utilizzare questa istituzione quasi postmoderna della competizione sportiva come punto di partenza per esaminare la possibile realtà del merito, secondo la psicologia e la sociologia, ma anche secondo la metafisica e la teologia – la razza umana non si ferma alla fine della pista dello stadio, la cui indefinita circolarità è inscritta nella tragedia della condizione umana.
Indagine etimologica e lessicologica.
Qui troviamo un’evoluzione del significato di “merito” a favore della valorizzazione delle persone e della giustificazione del loro guadagno.
Il latino meritum (da merere: “guadagnare”) era una “cosa guadagnata”: un “guadagno” o un “salario”, un “servizio (buono o cattivo)”; oppure “una condotta (verso qualcuno) […] (che giustifica una ricompensa, una punizione)”. Nel basso latino, e soprattutto nel latino cristiano, è un “valore”, soprattutto al plurale: un “valore spirituale”, o il “fatto di essere degni della misericordia divina”1. In altre parole, questo meritum è semplicemente qualcosa di ricevuto, tranne che nella religione, dove la misericordia divina implica la dignità o il valore spirituale del destinatario – aggiungendo un significato morale e, soprattutto, spostando il merito dalla cosa alla persona.
La parola è entrata nel francese antico come “mérite” (a causa del plurale latino merita), con il significato di “salario” o “ricompensa”, già nel 11192 – significato che ha mantenuto, mascolinizzato, fino all’inizio del XVII secolo (secondo la testimonianza di COTGRAVE, 1611)3. Tuttavia, si trova anche già nel XIV secolo (Songe du Verger) nella sua accezione attuale, dove si passa da “ciò di cui si è degni”: una ricompensa, a “ciò che rende degni“: abilità, talento, qualità4 – che illustra l’influenza del senso cristiano nel secolo.
Va notato che, intorno al 1200, troviamo già il significato quasi moderno di “ciò che dà diritto a (una ricompensa o una punizione)”5, cioè il rovesciamento è completo: la persona “meritevole” ha diritto al suo dovuto.
Il Dictionnaire de l’Académie française del 1694 (1a edizione) elenca il merito come una qualità che può essere sia negativa che positiva, ma con riferimento al giudizio di Dio:
“MÉRITE. s. m.” Ciò che rende una persona degna di lode, o di biasimo, di ricompensa, o di punizione. Dio castiga o premia secondo il merito. In questo senso, si chiama merito delle opere ciò che gli uomini fanno bene o male agli occhi di Dio. […] I meriti della Passione di Gesù Cristo sono chiamati le sue sofferenze e la sua morte, in quanto hanno realizzato la nostra redenzione e ci hanno reso capaci di gloria eterna.
Si noti che il significato secolare è esclusivamente positivo:
“Merite” significa anche virtù, qualità eccellente o combinazione di più qualità buone.
Un secolo dopo, in sintonia con l’epoca pre-rivoluzionaria, il Dictionnaire de l’Académie française del 1762 (IV edizione) mette al primo posto il significato laico:
“MERITE. s.m.” Ciò che rende una persona degna di stima. In questo primo senso, quando si parla di persone, si intendono le qualità eccellenti, sia della mente che del cuore.
Soprattutto, nella logica di questa appropriazione delle virtù, appare il significato di usurpazione:
Noi diciamo: Se faire un mérite de quelque chose, per dire: Tirer gloire, tirer avantage d’avoir fait quelque chose (Prendersi il merito di qualcosa, per dire: trarre gloria, approfittare di aver fatto qualcosa). E, Se faire un mérite de quelque chose auprès de quelqu’un, per dire, Mostrare a qualcuno ciò che si è fatto per lui.
Per buona misura in questa evoluzione, il significato cristiano di “Dio ci tratterà secondo i nostri meriti” assume un’accezione esclusivamente negativa nel linguaggio quotidiano: “Quest’ultima frase è passata nella conversazione, dove di solito viene presa nel modo sbagliato. Sarà trattato secondo i suoi meriti”, l’opposto del significato laico del 1694.
Allo stesso tempo, Jean-François FÉRAUD, nel suo Dictionaire critique de la langue française6, utilizzava definizioni molto simili che non è necessario citare. Tuttavia, è significativo che egli derida apertamente l’ormai antico significato di “merito”, concludendo con questo paragrafo: “Worth, in inglese, significa prezzo, valore. “Egli vale diecimila sterline: il a 100.000 liv. sterl. vaillants Dict. de Boyer. * Un traduttore di Pope dice del famoso Hopkins che il suo merito, calcolato correttamente, ammontava alla sua morte a quasi sette milioni. Una traduzione ridicola, come si vede! Si noti anche che, con il verbo “mériter” (meritare), si avalla l’espressione “avoir bien mérité de” (aver meritato bene), in relazione a una persona((“Bien mériter de, c’est avoir rendu de grands services à…(Essere benemerito significa aver reso grandi servigi a…). Ha fatto bene per lo Stato, la Patria, la religione”. – In questo uso è neutro. – Dobbiamo questa espressione ai Romani, bene mereri. Si scrive più spesso di quanto si usi nella conversazione. I Romani ne facevano un grande uso. – La Touche dice che alcuni non approvavano questo modo di parlare, ma che è molto onesto e che si può usare senza scrupoli”), e che “méritoire” (meritevole) e “méritoirement” (meritatamente) erano ancora riservati “alle cose soprannaturali”7.
Nell’edizione del 1832-5 (Dictionnaire de L’Académie française, 6a edizione), la definizione di “mérite” termina con i suoi usi più peggiorativi:
“Par dérision, Faire valoir tous ses mérites, Exagérer ses services (Farsi beffe di tutti i propri meriti, Esagerare i propri servizi). Rendersi merito di qualcosa, trarre gloria, trarre vantaggio dall’aver fatto qualcosa. In senso analogo, si dice: prendersi il merito di qualcosa agli occhi di qualcuno. Se donner le mérite d’une chose, attribuirsi il merito di qualcosa agli occhi di qualcuno” (T. II, p. 194).
Quanto al dizionario del 1932-5 (Dictionnaire de L’Académie française, 8a edizione), esso registrerà essenzialmente solo i significati elogiativi relativi alla persona: “Mérite supérieur, éminent. Merito personale. Uomo di merito, di raro merito” (T. II, p. 178).
Questa breve panoramica ci mostra quindi lo spostamento del significato del merito dalla “semplice ricompensa per il lavoro” alla “dignità della persona che lo riceve”, sotto l’influenza – sbagliata, come vedremo – del suo uso nel linguaggio cristiano. Da quel momento in poi, il merito può diventare “diritto al dovuto”, in un ambito che, da un lato, si va profanando (ben visibile dall’edizione 1762 del Dictionnaire de L’Académie française) e, dall’altro, conserva solo il significato elogiativo per l’individuo (edizione 1932-5), avendo cura di dimenticare l’abuso, precedentemente individuato (edizione 1832-5), consistente nel “trarre gloria” da un merito sopravvalutato o semplicemente inesistente.
L’esempio caricaturale dello “sport”: un’illustrazione di un’accezione impropria.
Lo sport agonistico “postmoderno” ci sembra si presti particolarmente bene a questa messa in discussione della nozione di merito. A prima vista, per fare un semplice esempio di corsa, potremmo pensare che basti misurare le dimensioni delle gambe per decretare il vincitore: quello con le gambe più lunghe, risparmiando tutto il tempo perso a correre. In altre parole, la misurazione degli attributi fisici con cui gli atleti nascono dovrebbe essere sufficiente a determinare il vincitore, soprattutto perché sappiamo come caratterizzare le disposizioni muscolari, nervose e cardiache che meglio si prestano allo sprint o alla corsa di resistenza, per esempio. Da questo punto di vista, il merito dell’atleta risiede nelle sue caratteristiche fisiche essenziali alla nascita – e conosciamo i Paesi che orchestrano le inseminazioni che rendono possibili, come per i cavalli, gli incroci genetici con il massimo potenziale.
Tuttavia, si può sostenere che, “a parità di gambe”, chi si allena di più aumenta le sue possibilità di vittoria, e che quindi è questa disciplina di allenamento a rendere il vincitore meritevole. È vero! Tuttavia, è chiaro che sappiamo anche misurare le capacità psicologiche dei “giocatori”, nel qual caso colui che combina le più forti capacità psicologiche con le migliori disposizioni fisiche può essere direttamente riconosciuto come il più “meritevole”.
Senza introdurre qui l’uso di agenti dopanti adattati a ciascuna disciplina8). – È facile capire che siamo costretti a far “correre” l’atleta se vogliamo essere sicuri di aver determinato l’effettivo vincitore, il cui merito, ci sembra, risiede nei capricci della buona forma del giorno.
Prima di tentare di concludere sul tema del “merito sportivo”, resta da citare le consacrazioni un po’ surreali quando tutti i concorrenti tagliano il traguardo a pochi centesimi di secondo l’uno dall’altro (sci alpino) o quando i grandi vincitori vengono incoronati in seguito a errori arbitrali dimostrati dal video (calcio), anche se la distribuzione di questi errori non è omogenea. Stiamo sviluppando nozioni di “merito” molto labili, che possono anche essere casuali (sci) o usurpate (calcio).
In fin dei conti, la vera domanda che queste attività paradossali sollevano è su cosa possa basarsi il merito che giustifica la consacrazione di campioni regionali, nazionali o mondiali. Non potendo attribuire questo merito alla disuguaglianza di nascita, né indubbiamente al caso, né certamente all’uso di steroidi anabolizzanti o altri glicocorticoidi, ci sembra che l’unica cosa che resti da mettere al vertice sia la disciplina di allenamento dell’atleta. Purtroppo, possiamo essere certi che questo non sarà mai il criterio più universalmente discriminante, poiché la scarsa forma di un “giocatore” nella giornata “D” può avere la precedenza sul miglior allenamento del mondo, per non parlare del fatto che un atleta più dotato che ha avuto un allenamento meno disciplinato può vincere contro quello che è stato giustamente premiato per il suo allenamento disciplinato. Inoltre, non dovremmo presumere che la persona con la migliore disciplina di allenamento sia potenzialmente nata con essa? Se così fosse, che merito avrebbe?
Così, emblematicamente, con lo sport ci troviamo in una situazione in cui il merito, implicito nelle consacrazioni festose al suono degli inni nazionali e nell’assegnazione delle Légions d’Honneur, non ha alcun significato, o meglio ci sembra corrispondere a un’esigenza di giustificazione che ci appare morale o psicologica, giustificazione della retribuzione, della gloria o dell’orgoglio – condivisi – o anche della qualità dello spettacolo che lo sportivo-attore avrà dato da ammirare…
Se esiste il merito, non è forse un concetto abusato all’estremo nello sport, dove è difficile capire quanto di esso debba andare al vincitore?
Senza prestare più attenzione ai campioni sportivi – Chevaliers-de-la-Légion-d’Honneur – ma scoprendo l’uso sociale delle medaglie al merito: Ordre national du Mérite, Mérite agricole, Pour le Mérite (decorazione prussiana “Blauer Max”), Ordre du mérite militaire, Ordre du mérite militaire de Bavière, Ordre du Mérite (dal Regno Unito), Mérite agricole du Québec, Ordre national du mérite agricole, Mérite Christine-Tourigny (dal Barreau du Québec), Ordre du Mérite maritime, Mérite diocésain Monseigneur-Ignace-Bourget, Ordre du Mérite civil, Croix du mérite de guerre, Ordre du Mérite social (Francia, 1936), Ordre du mérite militaire (Canada), Ordre du Mérite commercial (Francia, 1961), Ordre du Mérite combattant (sostituito dall‘Ordre national du Mérite), Institution du mérite militaire, Ordre du Mérite de Savoie, Ordre du mérite militaire (Francia, 1957), ecc. , Il fatto è che, a prescindere dal Paese o dal contesto socio-culturale, si tratta di vere e proprie istituzioni.
Incoraggiare gli abitanti di un Paese (merito nazionale) o di una professione (merito militare, agricolo, marittimo…) a lavorare per quello che si considera il bene pubblico è certamente legittimo (e non discuteremo qui l’etica di eventuali manipolazioni in vista del bene pubblico). Ma la domanda che ci poniamo è un’altra: cosa viene istituzionalizzato? L’opera come risultato o l’opera come atto? E se passiamo dal risultato all’atto, non arriviamo alla persona che lo compie – che sarebbe quindi il suo merito? Un modo per fare luce su questo tema potrebbe essere quello di guardare a un’altra istituzione, la scuola, il cui ruolo essenziale sembra essere quello di trasformare le disuguaglianze di nascita in disuguaglianze di merito9. Qui troviamo la stenografia semantica dell’attribuzione a una persona di un merito relativo a qualità prevalentemente innate, sia fisiche (le lunghe gambe di un corridore o di un giocatore di basket) sia morali, sia che tali qualità siano reputate individuali (forza di volontà, autodisciplina) o culturali (ambiente sociale, vincoli legati a un particolare contesto educativo).
Interpretazione psicologica della nozione di merito.
Assegnare il merito a una persona, perché abbiamo identificato l’opera con l’atto personale che l’ha prodotta, è un luogo comune delle pratiche sociali; ma questa identificazione si basa sul presupposto che la persona abbia qualcosa a che fare con le sue azioni.
La necessità di valorizzare i bambini è stata ampiamente dimostrata dalla “pedagogia positiva”: l’incoraggiamento positivo – a prescindere dai limiti “negativi” che devono essere posti – promuoverà uno sviluppo sano nei bambini, mentre questi possono essere facilmente “spezzati” da giudizi negativi ogni volta che provano a fare qualcosa (il solito “sei una schifezza”), o anche da una semplice etichettatura categorica, che riduce la persona a un singolo aspetto o tendenza del suo carattere.
In tutti i casi (che l’incoraggiamento sia positivo o meno), che i commenti si riferiscano specificamente ai risultati o alle azioni del bambino, è chiaro che, nella costruzione della sua identità, il bambino interpreterà questo apprezzamento (positivo o negativo) come caratterizzante la sua persona. In seguito, naturalmente – e giustamente – il giovane adulto o l’adulto si affiderà ai suoi punti di forza, alle sue “qualità”, oppure rimarrà bloccato dall’etichettatura in cui sarà stato intrappolato.
In altre parole, la confusione infantile tra l’opera, l’atto e la persona che lo compie è una fase iniziale dello sviluppo del bambino – che Piaget senza dubbio confermerebbe – e l’Io – che potrebbe essere correttamente equiparato a questa confusione – sembra essere una tappa necessaria dello sviluppo, essendo l’adulto ideale colui che non fa più questa confusione.
Non abbiamo ancora risposto alla domanda sulla responsabilità dell’atto, che è più filosofica che psicologica. D’altra parte, abbiamo visto che l’associazione di un merito a una persona è più che altro un processo psicologico necessario allo sviluppo del bambino. Da qui, certamente, la natura spesso infantile dei premi sportivi e delle cerimonie di medaglie, attraverso il riconoscimento della loro esistenza positiva grazie alle loro qualità.
Analisi filosofica della nozione di merito.
Dal punto di vista filosofico, la nozione di merito, che significa innanzitutto ricompensa, è inseparabile dalla nozione di giustizia e, se questa giustizia esiste, è ovviamente perché l’uomo ha un senso di ciò che è “giusto”.
Questo senso di ciò che è “giusto” si riferisce alla giustizia distributiva (potremmo dire: “a ciascuno secondo ciò che gli spetta” o “trattare in modo diseguale cose diseguali”), che si distingue dalla giustizia commutativa (contratti tra parti “uguali”) e dalla giustizia penale. Aggiungiamo ora la distinzione kantiana tra giudizi analitici e sintetici10. Si potrebbe dire che, rispetto a una “sanzione analitica” in cui la “ricompensa” è la conseguenza dell’atto stesso (aver superato il liceo, essere ubriachi per aver bevuto troppo), la legge propone “sanzioni sintetiche”, cioè senza un legame diretto con le opere che le motivano. In questo senso, il merito si aggiunge all’atto in modo sintetico, estrinseco o esterno: non c’è alcun legame razionale tra la stupidità di un bambino e la sculacciata che riceve, o tra un parcheggio sbagliato e una multa di 30 euro. Si dice che queste sanzioni sono oggettive, non logiche, arbitrarie…
Tuttavia, è importante rendersi conto che l’esistenza di sanzioni sintetiche è un privilegio insignificante, rispetto a una conseguenza implacabile che deriverebbe dall’atto commesso, che sarebbe l’atto stesso, e che verrebbe scoperta solo a posteriori.
Approfondimento metafisico della nozione di merito.
Nell’ideale metafisico, è ovvio che Dio non ci deve nulla. Quindi non possono esistere né il merito né il demerito: è solo la conseguenza che deriva dalla natura dell’atto. Quindi non è Dio che sanziona, ma è l’atto stesso che distrugge o compie (in senso letterale). Ecco perché nel “mondo angelico” gli angeli sono puramente in Paradiso o all’Inferno, senza possibilità di redenzione.
Ma nel mondo relativo è una fortuna che il merito si aggiunga all’atto – in modo sintetico o esterno, affinché l’uomo possa avere questo gioco, questo spazio libero, tra influenze più o meno causali e conseguenze più o meno ineluttabili. Per rendersene conto, basta pensare ai bambini piccoli che sono assolutamente obbligati a ricevere questo tipo di punizione oggettiva, non logica, arbitraria… Quindi, anziché costituire un privilegio insignificante, questo gioco è in realtà inseparabile dalla misericordia divina.
Elementi teologici sulla nozione di merito.
Indiscutibilmente biblica11 come idea di un “giudizio di Dio” corrispondente al bene o al male compiuto dall’uomo durante la sua vita, la nozione di merito, probabilmente introdotta nell’uso teologico da Tertulliano, appare, a prima vista, come un “diritto a una ricompensa”.
Tuttavia, si distingue subito tra il diritto stretto, nel qual caso si parla di merito de condigno 12, e la semplice correttezza, nel qual caso si parla di merito de congruo 13. Inoltre, si ricorderà soprattutto che la vita eterna, per ogni essere creato, non può che essere una grazia soprannaturale e che la grazia stessa, principio di tutti i meriti, non può essere meritata 14.
“Così, San Tommaso poteva dire che noi meritiamo la vita eterna de condigno per la grazia che agisce in noi, ma che, per quanto riguarda il nostro libero arbitrio, questo merito non può mai essere altro che de congruo, nella misura in cui il libero arbitrio, per la virtù della grazia stessa, vi aderisce” 15.
In altre parole,
“il merito è dunque ed è solo una proporzione stabilita da Dio tra gli esseri liberi e i doni che Egli destina loro, il che non fa sì che questi doni siano meno doni per questo motivo, ma piuttosto che siano doni effettivi: che non rimangono esterni a noi e come se fossero estranei, ma che diventano effettivamente nostri, senza cessare minimamente per questo motivo di essere radicalmente di Dio e solo di Dio” 16.
Infine, se la grazia rende meritorie le nostre azioni, è per mezzo dell’infusione in noi della carità, cioè dell’amore di Dio riversato nei nostri cuori dal suo Spirito Santo (Rom., V, 5)17.
Avevamo lasciato in sospeso la questione della responsabilità di una persona per i suoi atti. Senza negare ogni responsabilità, ci sembra che si possa comunque concludere qui che non c’è alcun merito, sia che si tratti del “merito ultimo” del condigno – il non merito assoluto di una dignità ricevuta – sia del “merito relativo” della congruo – quel merito di convenienza o apparente, quando il libero arbitrio dell’uomo, sotto l’effetto della grazia, gli permette di aderire al disegno divino.
Merito e vita spirituale.
Per concludere sull’insieme di queste prospettive – che abbiamo visto non essere certo contrapposte, ma gerarchicamente ordinate – ci sembra preferibile formulare cosa significhi per noi oggi la nozione di merito.
Abbiamo visto trasformare il significato della parola merito da “semplice ricompensa per il lavoro” a “dignità propria di chi lo ha fatto”, attraverso una sorta di appropriazione usurpata e profanata del significato cristiano, secondo un modello di società che cerca legittimamente il bene pubblico e una valorizzazione psicologica necessaria allo sviluppo dei figli, mentre in definitiva, in termini teologici oltre che metafisici, questa nozione non ha alcun significato.
In definitiva, quindi, crediamo che questo concetto vuoto debba essere assolutamente e totalmente escluso dal pensiero alla base delle nostre azioni. Questo, crediamo, è il significato più profondo degli insegnamenti dell’umiltà, dell’abnegazione (l’abneget semetipsum di Matteo, XVI, 24), del distacco (Maestro Eckhart), a cui si aggiungono quelli del tiro con l’arco zen o nishkāmakarman (è l’indifferenza ai frutti dell’azione, con cui l’essere si sottrae alla catena indefinita delle conseguenze delle azioni. Si contrappone al sakāmakarman, l’azione con desiderio, eseguita in vista dei suoi frutti (cfr. Bhagavadgītā)) della tradizione indù.
Per gli altri, invece, ci sembra che riconoscere i loro meriti, a parte quelli dei bambini che avremo il compito di educare – e rispetto ai quali abbiamo individuato la necessità provvisoria dell’Io – sia, riferendoci al “merito ultimo” del condigno (il non merito assoluto di una dignità ricevuta), riconoscere la dignità dell’uomo che “supera infinitamente l’uomo” (Pascal), sia riconoscere nuovamente l’Altro in ogni altro.
E, in effetti, se ci rendiamo conto che Cristo è la Relazione per eccellenza: la relazione di Dio con Dio (Padre e Figlio), la relazione di Dio con il mondo e del mondo con Dio (Creazione, Redenzione) e la relazione con il prossimo, possiamo dimostrare, con Jean Borella, che se “il nostro prossimo è Cristo, è perché Cristo è il nostro prossimo”, o, detto altrimenti, perché Cristo è l’unico prossimo, essendo la relazione di prossimità stessa. Da quel momento in poi, gli altri sono vicini solo in virtù della loro partecipazione alla relazione cristica di prossimità18.
Anche Jean Borella potrebbe scrivere: “‘L’avete fatto a me’, non al Padre o allo Spirito”, ma al Figlio; è “il Prossimo divino, la Prossimità ipostatica, che, per sviluppare i suoi effetti nell’ordine del relativo, usa gli altri e me stesso come supporti creati della Prossimità increata”. Così, “il fine dell’atto d’amore non è l’altro in quanto tale, ma l’altro come prossimo”, e l’unico prossimo è Cristo. In altre parole, “il prossimo è la materia della prossimità, Cristo è la sua forma eterna”19.
Note
- CNTRL (Centre National de Ressources Textuelles et Lexicales); http://www.cnrtl.fr (consultato il 7 luglio 2008).[↩]
- Ph. de THAON, o “BENEDEIT, St Brendan, ed. E. G. R. Waters, 64”; ibidem.[↩]
- J. DUBOIS, H. MITTERAND, A. DAUZAT, Dictionnaire étymologique et historique du français, Larousse, 1993 ed.[↩]
- Per esempio “qualità morale notevole” in CORNEILLE, Cid, I, 2 in Œuvres, ed. Marty-Laveaux, 1993). Ch. Marty-Laveaux, t. 3, p. 111, già nel 1636; e “habileté, talento” nel 1668 in LA FONTAINE, Fables, VIII, 8 in Œuvres, ed. H. Régnier, t. 2, p.248 CNTRL, ibid.[↩]
- In Elie de St Gille, ed. G. Raynaud, 1034: “Par selonc le merite le loier en avrès“; CNTRL, ibid.[↩]
- Marsiglia, Mossy, 1787-1788; t. II, p. 642b.[↩]
- ” ‘MÉRITOIRE’, che merita ricompense eterne. – È quindi usato solo per riferirsi alle opere buone. Questo è meritorio verso Dio, davanti a Dio”. Acad. “Il digiuno e l’elemosina sono opere meritorie. – Da qualche tempo l’uso di questa parola è stato esteso. “Cela est ou n’est pas fort méritoire, très–méritoire: c’è merito nell’averlo fatto. Sa di gergo aziendale e di neologismo. MÉRITOIREMENT, meritoriamente. “Per fare l’elemosina meritoriamente, bisogna farla per Dio, per amore di Dio. – Si dice solo del merito soprannaturale”[↩]
- Ad esempio, gli steroidi anabolizzanti derivati dall’ormone maschile hanno un grande successo, soprattutto in specialità come i lanci, dove quasi il 50-70% degli atleti ne fa uso, soprattutto anabolizzanti sintetici, in dosi straordinarie, che portano a un aumento spettacolare del peso e della massa muscolare; cfr. Encyclopædia Universalis 1995, s.v. (“doping sportivo”[↩]
- La scuola non insegna, ma serve a verificare se il bambino proviene davvero da una famiglia intellettualmente sviluppata; completa, formalizza e ratifica l’educazione della famiglia: “La scuola serve a vestire le disuguaglianze di nascita come disuguaglianze di merito”, cfr. Ivan Illich, citato da Jacques Illich). Ivan Illich, citato da Jacques Neirynck, Le 8° jour de la création, introduction à l’entropologie, Presses polytechniques et universitaires romandes, Lausanne, 1990, 2a edizione, p.262.[↩]
- il giudizio analitico (che è sempre a priori) è chiamato “analitico” da Kant perché non ci dice nulla che non sapessimo già, come ad esempio che la somma degli angoli di un triangolo è due retti o che ogni corpo è esteso. Il giudizio sintetico, invece, aggiunge al concetto di soggetto qualcosa che non era contenuto in esso[↩]
- tutti gli elementi qui presentati provengono dal Dictionnaire de théologie, L. Bouyer, Desclée & Co., Tournai, Belgio, 1963, s.v. (“merito”).[↩]
- De condignus, a, um: del tutto degno; si può tradurre con “merito della dignità”, essendo questa dignità quella che l’uomo deriva da Dio.[↩]
- De congruo, ĕre, grui: (Lebaigue p. 270 e p. 271) – intr. – 1 – cadere insieme, incontrarsi, riunirsi. – 2 – coincidere (parlando di tempo), arrivare nello stesso momento. – 3 – combaciare, essere d’accordo con, concorrere. – 4 – intendersi, essere d’accordo, accordarsi, essere in armonia, riunirsi (dizionario latino-francese redatto con l’aiuto di Jean-Claude Hassid, consultato su http://www.prima-elementa.fr/Dico.htm il 18 luglio 2008). Si può quindi tradurre come “merito della convenienza”[↩]
- Sant’Agostino dirà così che Dio, coronando i meriti dei suoi santi, non fa che coronare la propria grazia[↩]
- cfr. Dictionnaire de théologie, op.cit.[↩]
- Dictionnaire de théologie, op.cit; corsivo mio[↩]
- Su tutto questo, cfr. S. Tommaso, Sum. Theol., Ia, IIæ, q. 114; cfr. Dictionnaire de théologie, op.cit.[↩]
- potremmo prendere come riferimento il modo in cui Cristo stesso afferma di essere il prossimo in Matteo: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (X, 40), “In verità vi dico: in quanto l’avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (XXV, 40 e 45).[↩]
- La charité profanée, Éditions du Cèdre, 1979; capitolo XIV. Le funzioni trinitarie delle ipostasi, sezione III. Le Verbe comme fondement de la relation de proximité, § 4. Le prochain est le Christ parce que le Christ est le prochain, pp. 287, 288[↩]