Del simbolo universale della Croce

In termini cristiani la Croce ci invita a “diventare Vergini”. È la via insegnata dalla Vergine Maria seguendo i quattro bracci della Croce (cfr. Stéphane). In primo luogo, la Metanoia, la conversione, il riorientamento del braccio verticale inferiore. Solo dopo diventa possibile trovare il centro dei due bracci orizzontali: Catharsis ovvero negativamente purificazione e mortificazione delle passioni e del desiderio, e Apatheia, positivamente pacificazione e disponibilità perfette. Ricondotta al Centro in stato di purezza, verginità e passività perfetta, l’anima è pronta a ricevere il Fiat Lux, il Verbo illuminante e trasformante che vuole incarnarsi in essa. È il doppio mistero dell’Incarnazione e della Transustanziazione. Diventa allora possibile la Theosis, la deificazione dell’anima completamente liberata.

Catharsis ed Apatheia (purificazione e pacificazione) che caratterizzano il “lavoro” spirituale (per altro impossibile da compiere senza la grazia di Dio), designano con chiarezza la duplice qualità della Vergine: la sua purezza assoluta d’Immacolata Concezione (“Que soy era Immaculada Conceptiou1), e la sua pace o perfetta disponibilità (“sia fatta la Sua volontà”, Lc I, 38).

Il punto centrale della croce, in quanto indifferenziazione che precede (logicamente ed ontologicamente) ogni manifestazione, corrisponde all’etere, alla quinta essentia (quintessenza) dell’alchimia e, in quanto equilibrio perfetto, simboleggia la conciliazione dei contrari e la coincidenza degli opposti. Questo è il senso (cfr. Guénon) di al-maqām al-ilāhī, la “stazione divina” dell’esoterismo islamico: al-maqām al-ilāhī, huwa maqām ijtimā` aḍ-ḍiddayn (quella che riunisce i contrasti e le antinomie); o nell’esoterismo cinese, del Zhongyong (l’Invariabile Mezzo), centro immobile della ruota cosmica, riflesso del wei wu wei (attività non agente) del Cielo.

Se consideriamo che l’asse verticale del Cielo incrocia quello orizzontale dell’esistenza, possiamo scorgervi l’Essenza e la Sostanza (tradizione), l’attività “non-agente” del Cielo e la “passività” della Terra (taoismo); Puruṣa e Prakṛti (sāṃkhya); lo spirito e la superficie delle Acque (religioni dette del Libro); la alef e la tau della particella ebraica eth, il Sayyidnā Meṭaṭron e la Šekhinah della Qabbalah ebraica (il Trono e la Presenza divina).

Questa croce dell’Essere la si può spiegare anche con l’ausilio dei tre guṇa del sāṃkhya hindu: tamas (l’inerzia e le sue corrispondenti: oscurità, codardia, colore nero, caduta, ecc.), è la discesa dal centro, l’allontanamento dal Principio; rajas (dinamismo, energia, attività, colore rosso, dispersione centrifuga, ecc.), è l’espansione orizzontale, l’ambito dell’avere, della quantità (nel quale possiamo includere sia l’accumulo di ricchezze che l’erudizione, sia il virtuosismo che la prestazione sportiva); e sattva (equilibrio, serenità, stato luminoso, colore bianco, ascensione, ecc.),  è l’elevazione verticale a partire dal centro, il sovra-essere, l’accesso agli “stati superiori dell’essere”. Sul piano spirituale, la negazione della Trascendenza è tamasico, mentre collocare la Causa o il Fine sull’asse del dispiegamento del mondo, vale a dire confondere l’In-alto con l’in-avanti, è rajasico.

Nel sufismo queste tre tendenze sono: al-‘umq, la profondità; al-‘urḍ, l’ampiezza; e aṭ-ṭūl, l’altezza. Così, nella sura al-fātihah (“l’aprente”) che introduce al Corano, si può leggere:

[…] guidaci al retto sentiero, al sentiero di coloro a cui Tu hai elargito la Tua grazia, non di coloro che sono incorsi nella Tua ira, né di coloro che son fuorviati.

Nel parlare di queste tre tendenze, il Profeta disegnò una croce: aṣ-ṣirāṭ al-mustaqīm, la via dritta è la verticale ascendente; la collera divina agisce in senso inverso; la dispersione di coloro che son fuorviati, gli aḍ-ḍāllīn, è l’orizzontale2.

Quando “la diritta via era smarrita” (inizio della Divina Commedia), rimane pur sempre la via regale verso il Centro, precisamente la via della rettitudine e della santità, la derekh haqqodeš indicata dalla Saggezza profetica tradizionale di Isaia (XXXV, 8).

Qabbalah ebraica, la Šekhinah, in quanto Presenza divina, abita (šakan) contemporaneamente nel tabernacolo, chiamato per questa ragione miškan, e nel cuore dei fedeli: l’essere umano “è il principale ‘punto d’intersezione’ dei raggi sefirotici nel Cosmo; è attraverso di esso che la Ricchezza divina si rivela in tutta la sua irradiazione spirituale”.3

Lo stesso accade con as-Sakīnah dell’esoterismo islamico, con la “Pace nel vuoto” taoista, condizione “che non si prende né si dà, ma in cui si arriva a stare” (Liezi, cap. I), o ancora, con l’Invariabile Mezzo (Zhongyong), il quale “non è identico agli esseri non essendo né diversificato [nella molteplicità] né limitato” (Zhuangzi, cap. XXII).

Primo tempo: il ricentrarsi nell’orizzontalità dell’ampiezza

Una volta individuato il Centro lo si dovrà guadagnare. Stando alla tradizione sufi che distingue l’ampiezza dall’esaltazione (cfr. Guénon), l’ampiezza caratterizza l’espansione indefinita secondo l’orizzontalità umana e mondana che reclama il suo Centro; mentre l’esaltazione esprime l’eventuale assunzione secondo l’Asse verticale.

Questo Centro è al di là di ogni punto di vista, così come la vacuità del buddismo è assenza di punti di vista. È l’Invariabile Mezzo del confucianesimo di cui abbiamo detto sopra, ma anche il non-agire del taoismo, il motore immobile di Aristotele, o ancora, “il mezzo, [il vuoto (non-manifesto)] che unisce i raggi e ne fa una ruota”, come scrive Titus Burckhardt (op. cit.). Così, “il saggio taoista rimane tranquillo al centro della ruota cosmica e nemmeno il collasso dell’universo potrebbe causargli alcuna emozione”, diceva Laozi (Daodejing, XI).

L’uomo che “si centra” corrisponde allora al zhenren (l’Uomo vero) del taoismo ed al al-qadīm (l’Uomo primordiale”) del sufismo. Questo centro è al-maqām al-ilāhī, la “stazione divina” e “stando al Centro si vede tutto: mettiti al Centro e tutto vedi insieme, quanto qui e in cielo, ora e in futuro accade”, scrive Angelus Silesius (Il Pellegrino cherubico L. II, 183).

È nella tradizione indù, segnatamente nella Bhagavadgītā, che si comincia a parlare di rinuncia ai frutti dell’azione, passando dal sakāmakarman, azione con desiderio, compiuta per i suoi frutti, al niṣkāmakarman, azione senza desiderio. A al-faqr (povertà) del sufismo corrisponde lo stato di bālya (infanzia) dell’induismo, che permette di ricevere il Regno di Dio: “Chiunque non riceverà il Regno di Dio come un bambino, non vi entrerà affatto” (Lc XVIII, 17). È la “porta stretta” del simbolismo evangelico (Mt VII, 13-14), inaccessibile ai ricchi in quanto ricchi di molteplicità alla quale sono attaccati.

Questa evangelica “porta stretta” a cui si accede attraverso lo spogliamento di sé, corrisponde all’estinzione dell’io: la riduzione dell’io fino al suo riassorbimento nel Punto unico, nel Vuoto centrale della Ruota cosmica. È al-fanā’ (estinzione) del sufismo; il nirvāṇa (estinzione) – anzi la nivṛtti (ritorno) – dell’induismo: dissoluzione dell’io individuale ed effimero; il sopa-dhiśeśa-nirvāna del buddismo hīnayāna: stato di arhat liberato dalle passioni; o anche la realizzazione della śūnyatā (vacuità) o il risveglio (sa. Bodhi; giap. satori) del buddismo mahāyāna e zen, corrispondente alla “via di mezzo” (mādhyamika) o alla cessazione di ogni distinzione (yogācārya).

Allora l’essere esce dalla molteplicità, sfugge alla “corrente delle forme” (taoismo), all’alternanza degli stati di “vita” e di “morte” (induismo), di condensazione e di dissipazione (alchimia), di generazione e di corruzione (Aristotele). Entra nello “stato di quiete” (Daodejing, XVI) e conosce così la verità e la libertà (cristianesimo): “così conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi (Gv VIII, 32).

Nel cristianesimo questo mettersi al centro, lo abbiamo visto, significa diventare Vergine. Metafisicamente, tale verginità di cui Maria è il modello, è la materia prima, potenzialità pura ed indifferenziata.

Ma come realizzare in se stessi il mistero della Vergine? L’abbé Stéphane lo spiega con una formula lapidaria: “Non si tratta di compiere atti di carità, ma di farsi carità, umiltà, purezza e bellezza. La neve è bianca, non biancheggia” (trattato III. 2).

Morire a se stessi vuol dire perciò ridursi alla potenzialità pura della materia prima, vuol dire diventare “creatura allo stato puro, […] il puro creato oltre il quale non c’è che il nulla”4. Di fronte a questo puro creato, questo senza-forma, sta l’altro polo principale della manifestazione universale, la Forma delle forme, vale a dire lo stesso Logos, la pienezza sovrabbondante delle possibilità divine rispetto alla povertà della materia.

E dunque, perché diventare Vergine? Perché è il solo modo per generare il Cristo in se stessi!

“Per prima cosa, l’anima deve realizzare le perfezioni verginali che sono come le dimensioni dell’umiltà: purezza, bontà e bel­lezza. Ha luogo allora una sorta di ‘transustanziazione’ dell’anima individuale nella Sostanza universale dalla quale era separata per la caduta e poi una ‘trasformazione’ (etimologicamente, un passaggio al di là della forma) attraverso la realizzazione delle virtù cristiche. Tale condizione si realizza in virtù della grazia deificante dello Spirito Santo che rende feconda la sostanza e le fa generare il Figlio di Dio; allora il Padre riconosce nell’anima l’immagine del Figlio suo e pronuncia le parole dell’adozione [‘Questi è il Figlio mio, l’amato’ (Mt III, 17)]5.

 “Perché generare il Cristo in sé è fare l’unica Volontà del Padre, come ricorda l’abbé Stéphane; ed è proprio per questo, precisa Maestro Eckhart, che c’è sempre solo un Figlio: ‘Il Padre non ha altra Volontà che generare il Figlio Unico, da una parte in seno alla Trinità e dall’altra, in seno alla Vergine Maria per opera dello Spirito Santo. Di conseguenza, l’anima cristiana deve realizzare esistenzialmente lo stato mariale affinché il Padre generi in essa il proprio Figlio” (Stéphane, Trattato I. 1, §9).

“Perciò vi sono molti più figli generati dalle vergini che non dalle donne, perché quelle generano oltre il tempo nell’eternità. Qualunque sia il numero dei figli che l’anima genera nell’eternità non vi è comunque più di un Figlio, perché ciò accade al di là del tempo, nel giorno dell’eternità”. (Eckhart, Sermone n. X).

Così nell’uomo è necessario annichilire la propria volontà in quanto si oppone alla Volontà del Padre. La volontà propria dell’uomo è resa possibile dalla libertà ricevuta da Dio, ma essendo mal orientata, è causa della sua Caduta, del suo peccato d’Origine. Cosa avviene allora quando l’uomo decaduto vuole conformarsi alla volontà del Padre (“sia fatta come in Cielo così in Terra”)? Con la Theologia Teutsch dell’anonimo di Francoforte, distingueremo due modalità della volontà, delle quali prendiamo in consideriamo quella “negativa”: “così, nel ‘volersi unire a Dio’, non si deve vedere l’espressione di un potere della volontà, bensì la volontà negativa di rifiutare tutto ciò che ci separa da Dio […] Se l’essere creato si fa nulla e si vuota totalmente di se stesso, l’Essere increato non può non riempirlo interamente di sé”6.

Ritroviamo questa volontà unita a quella di Dio, in generale, in tutti i santi e, in particolare, in S. Giovanni della Croce, nel suo Salita al monte Carmelo:

“Da allora […] tenendo l’anima la propria volontà perfettamente unita a quella di Dio, poiché amare Dio vuol dire cercare di spogliarsi e denudarsi per il Signore di tutto ciò che non è Lui, viene subito illuminata e trasformata in Dio, il quale le comunica il proprio essere soprannaturale in tal modo da sembrare che ella sia Lui e possieda quel che Egli possiede”7.

E in Maestro Eckhart nel quale possiamo leggere:

“Perciò noi diciamo che l’uomo deve essere così privo del suo proprio sapere, come lo era quando non era ancora; e che lasci Dio operare quello che vuole, e se ne stia vuoto (cfr. “Beati i poveri di spirito”).

Per questo a seguito di Maestro Eckhart, Simone Weil scriverà:

“Non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento. […] Pensare questo con tutta l’anima, è provare il nulla”. (Cfr. La persona e il sacro).

Secondo tempo: l’esaltazione secondo l’Asse verticale

Secondo Guénon, completato dalla grazia, il zhenren (l’“Uomo vero”), che è tale perché è centrato, può allora essere elevato agli stati superiori dell’essere partendo da questo punto e risalendo secondo l’Asse. Così diventa shenren, l’“Uomo trascendente” o l’“Uomo divino” o l’“Uomo-Dio” (taoismo). Partecipando della Terra e del Cielo, ne diviene il “Mediatore”.

Nella tradizione hindu, l’“Uomo universale” è lo Yogi il cui stato spirituale realizza, attraverso la conoscenza o attraverso l’amore, l’“identità suprema”. È senza qualità e senza azione, senza volizione, pieno di Beatitudine, immutabile, senza forma, totalmente libero e puro; è come l’Etere, incorruttibile, imperituro, inalterabile. Śaṅkara lo descrive così nel suo trattato Ātma-bodha:

“Egli è Brahma, dopo il cui possesso non vi è più nulla da possedere; dopo il godimento della cui felicità non v’è altra felicità che possa esser desiderata; e dopo l’ottenimento della cui conoscenza non v’è altra conoscenza che possa essere ottenuta”.

Nella tradizione ebraica distingueremo, con Léo Schaya (op.cit.), l’“Uomo primordiale” dall’ “Uomo trascendente” e dall’“Uomo immanente”:

– L’Uomo trascendente, Adam ‘ila’ah – definito anche Adam Qadmon, “Uomo Primordiale” – è Dio nella sua Essenza e nella sua Emanazione ontologica. È “l’Uomo sacro e supremo [che] governa tutto ed accorda […] la vita (eterna e transitoria) a tutti gli esseri” (Zohar Terumah, 144 b).

– L’Uomo immanente, Meṭaṭron, è tutta la sua Manifestazione spirituale: il Santo Unico, sia Egli benedetto, ha un Figlio (una Manifestazione), la cui Gloria rischiara l’Universo da un’estremità all’altra (cfr. Zohar Mišpatim 105 a).

– L’Uomo primordiale, Adam ha-Rišon (“Primo Uomo”) è la sua manifestazione insieme sovraformale (Spirito), formale-sottile (Anima) e formale-grossolana (Corpo), ovvero la sua Personificazione cosmica.

Nel cristianesimo, l’Uomo perfetto è ovviamente il Cristo. Egli è “l’uomo che ha realizzato tutte le sue virtualità di uomo nonché la suprema: la sua non-dualità con Dio…”, scrive Dom Le Saux (4-2-1967). E si apprezzerà la corrispondenza tra l’insegnamento dell’India, del sufi Rūmī e di Maestro Eckhart, a proposito del Sé, dell’amore, e degli altri, poiché nel vero amore del Sé, la distinzione tra egoismo e altruismo perde ogni significazione; la Carità non è la carità!

“È questo Sé che l’uomo che ama realmente se stesso o gli altri, ama in se stesso o negli altri; è per il solo amore del Sé che tutte le cose sono care” (Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, II, 4).

“Colui che ama vede il Sé, il Signore, ugualmente in tutti gli esseri, e tutti gli esseri ugualmente nel Sé supremo” (Bhagavadgītā, VI, 29; XIII, 27).

“Se ami il tuo Sé, tu ami tutti gli uomini come fossero il tuo Sé” (Maestro Eckhart, Evans I, 139).

“Cos’è l’amore? Lo saprai quando sarai me” (Rūmī, Mathnawī, volume II, introduzione).

Un “egoismo della salvezza”8 è quindi una pura impossibilità.

La guarigione in due tempi: Crux sancta sit mihi lux

L’uomo si può quindi conformare all’Essere in due tempi. Al ricentrarsi iniziale: al-fanā’ (estinzione [dell’io]) del sufismo, corrisponde il “riassorbimento verticale”: fanā’ al-fanā’ (l’estinzione dell’estinzione) o alfanā’ fī al-tawhī (l’estinzione nell’unicità), secondo la formula del teologo islamico al-Ghazālī (1058-1111), che ci sembra possa corrispondere al Consummata in Unum (consumata nell’Uno), di Marie-Antoinette de Geuser (1889-1918).

Similmente, al nirvāṇa (estinzione) o nivṛtti (ritorno), corrispondono per l’induismo: parinirvāṇa (estinzione totale) o parinivṛtti (ritorno assoluto), per il buddhismo hīnayāna: nirupa-dhiśeśa-nirvāṇa (liberazione completa) e, per il buddhismo mahāyāna: apratiśīta-nirvāṇa (estinzione differita del bodhisattva, il quale fa voto di guidare gli altri esseri sulla via della liberazione) e pratiśīta-nirvāṇa (realizzazione dello stato di buddhità)9.

Nel giudaismo, questi due tempi sono ben spiegati da Léo Schaya (op. cit.):

“Quando Dio perdona, il suo Rigore si riassorbe nella sua Clemenza, e l’uomo passa di nuovo dal suo stato di peccato con tutte le sue oscure conseguenze, allo stato di grazia che, nella sua pienezza totale, raggiunge l’Illuminazione spirituale, la visione beatifica e deificante dell’Uno. Il ritorno dell’uomo alla sua Essenza pura e divina è segnato da queste due “stazioni” principali:

  • Lo “stato primordiale” o “edenico”, che la Qabbalah chiama Šemittah (“remissione”): stato di deiformità perfetta che implica la Presenza evidente e permanente di Dio nell’uomo;
  • Lo “stato universale” o “divino”, chiamato Yovel (“Giubileo”): stato di Illuminazione e di Identità suprema, dell’unione totale con Lui.

È il perdono di Dio che consente all’uomo di raggiungere la prima “stazione”, ed è l’Afflusso totale della sua Luce che lo conduce alla “Meta”.

Queste due “stazioni” principali della Liberazione spirituale, che sono quelle dell’unione con l’Immanenza e la Trascendenza, hanno le loro rispettive espressioni simboliche nelle istituzioni sacre dell’Anno sabatico (Šemittah) e dell’Anno giubilare (Yovel)”.

Nel cristianesimo ritroviamo i due tempi della conformità all’Essere nell’Uomo nuovo della Redenzione e nell’Uomo perfetto della Parusia (ritorno glorioso di Cristo) e del Pleroma (riassorbimento dell’Universo in Cristo), nell’Uomo celeste che è Cristo.

  • “Dovete rivestire l’uomo nuovo” (Ef. IV, 24) […]. “Occorre, ben spesso, che tu faccia quello che non vorresti e che tu tralasci quello che vorresti”10; è la centratura secondo l’ampiezza.
  • L’uomo celeste è il Cristo risorto (“il Cristo è del Cielo”, 1 Cor 15, 48) che dobbiamo diventare a nostra volta con lui e in lui, incontrandoci tutti “in un unico Uomo perfetto, nell’età adulta della pienezza del Cristo” (1 Cor XV); è l’esaltazione secondo l’Asse eterno.

Per questo Gregorio il Sinaita (1255-1346), dice:

“Ci sono essenzialmente due amori estatici nello Spirito: l’amore del cuore e l’amore dell’estasi. Il primo è quello di coloro che sono ancora nell’illuminazione, il secondo, di quelli che sono consumati nella carità”.11

Ma soprattutto e come abbiamo visto, questi due tempi cristiani si trovano negli insegnamenti della Vergine e di Cristo; quello della Vergine costituisce innegabilmente il primo passo. Se in effetti solo Dio È, l’unione non può essere altra che “l’unione di colei che non è con Colui che è” come ha indicato santa Elisabetta della Trinità.12 Possiamo allora schematizzare i due tempi della guarigione visualizzando le analogie tra le sei tradizioni:

Se è necessaria una conclusione, ci sembra che il secondo tempo di questa Guarigione in due tempi rientri nella pura speranza secondo la promessa di Cristo e della Grazia di Dio. Quindi dobbiamo preoccuparci veramente solo del primo tempo. D’altronde, è proprio quello che insegna Cristo: “Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù” (Mt VII, 33; Lc XII, 31) Ora, il Regno di Dio è dentro di noi (cfr. Lc XVII, 21).

È conveniente dunque (applicarsi a) rinunciare a se stessi (Abneget semetipsum)13, per conseguire l’anattā: l’inesistenza dell’io o annullamento dell’io14); ovvero, arrivare a scoprire che si è un “non-io”; oppure realizzare al-fanā’ (l’estinzione) o il nirvāṇa, come direbbero altre tradizioni.

“Se cerchiamo la verità attraverso i testi che parlano di colui che “vede il Sé” e che “vede il Signore” ci chiederemo: come possiamo vedere il Sé? E se vedere il Sé è impossibile poiché è l’Uno, come possiamo vedere il Signore? La verità è che l’individualità deve essere trascesa”15.

“Se tu desideri essere amico di Dio e che Dio ti ami, rinuncia a questo mondo e al mondo futuro. Non desiderare né l’uno né l’altro; vuotati di questi due mondi e rivolgi il tuo viso verso Dio. Allora Dio rivolgerà il suo volto verso di te e ti colmerà della sua Grazia”.16

“Questa sia la mia preghiera. Tu, o caro Timoteo, con un esercizio attentissimo nei riguardi delle contemplazioni mistiche, abbandona i sensi e le operazioni intellettuali, tutte le cose sensibili e intelligibili, tutte le cose che non sono e quelle che sono; e in piena ignoranza protenditi, per quanto è possibile, verso l’unione con colui che supera ogni essere e conoscenza. Infatti, mediante questa tensione irrefrenabile e assolutamente sciolto da te stesso e da tutte le cose, togliendo di mezzo tutto e liberato da tutto, potrai essere elevato verso il raggio Soprasostanziale della divina tenebra”.17

Concentriamoci dunque su questo primo tempo che ci è stato assegnato; su questo solo e necessario denudamento, abbandono, annientamento dell’io, consunzione dell’individualità. Perché l’abbandono reale implica la rinuncia al secondo tempo. Non aspettiamoci nulla!, perché confidare non è sperare; perché confidare in un indicibile non è come sperare in un bene concepibile; “mi uccida, pur Egli, io spererò, confiderò, in Lui”, diceva Giobbe (XIII, 15). Se la rinuncia non uccide la Speranza, se l’abnegazione è sinonimo di Carità, rimane il paradosso della Fede: “nessuno conosce [i segreti di] Dio se non lo Spirito di Dio!” (1 Col II, 11), sapendo che “lo Spirito è quello del Padre, e del Figlio e il nostro!” (S. Agostino, De Trinitate, V, 14).

Note

  1. “Sono l’Immacolata Concezione”, Lourdes, 1858 (18 apparizioni[]
  2. Titus Burckhardt, Introduction aux doctrines ésotériques de l’Islam, Derain, Lyon, 1955.[]
  3. Léo Schaya, L’homme et l’absolu selon la Kabbale, Dervy, Paris, 1977, ried. del 1998.[]
  4. Jean Borella, La Charité profanée, Éditions du Cèdre, 1979, cap. XVIII, §III.1.[]
  5. François Chenique, Le yoga spirituel de saint François d’Assise, DervyLivres, Paris, 1978, cap. VI. § 3.[]
  6. Cfr. Jean Borella, Lumières de la théologie mystique, L’Âge d’Homme, Lausanne, 2002, Cap. XII, “La Theologia Teutsch et le sophisme de la liberté”, p. 158 e seg.[]
  7. Saint Jean de la Croix, Montée au Carmel, II, cap. 5,7, Oeuvres, p.647.[]
  8. “La théologie mystique ne connaît pas ‘l’égoïsme du salut’” – Stefan Vianu, “Dieu et le Tout dans le néoplatonisme chrétien: Érigene, Eckhart, Silesius”.[]
  9. François Chenique ha fatto notare che se il Buddha è stato fatto santo dalla Chiesa con il nome di Barlaam e Iosafat (o Joasaph deformazione di bodhisattva via l’arabo Yuwasaf) [cfr. Dictionnaire de théologie catholique, articolo “Barlaam”, II, col.410], S. Teresa di Lisieux potrebbe un giorno essere onorata dai buddhisti come una Bodhisattva, lei che ha detto: “Sì, voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra. […] Non potrò godere del riposo finché ci saranno anime da salvare” (Novissima verba, 17 luglio 1897) [cfr. Sagesse chrétienne et mystique orientale, pp. 171-172].[]
  10. Imitation de notre Seigneur Jésus-Christ, Libro III, ch. XLIX.[]
  11. Cfr. Petite Philocalie de la prière du coeur, 59.[]
  12. Oeuvres complete, p. 903.[]
  13. Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, et tollat crucem suam, et sequatur me” (“se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce, e mi segua”), Mt. XVI, 24[]
  14. Secondo la formulazione del filosofo giapponese Kitaro Nishida (1870-1945[]
  15. Ramana Maharshi, La connaissance de l’être, 21.[]
  16. Dichiarazione del sufi Ibrahim b. Adham (m.776) a uno dei suoi fratelli, citato da al-Muḥāsibī,  Kitāb al-Mahabba.[]
  17. S. Dionigi Areopagita, De Theologia Mystica, cap. I, §1.[]