Introduzione

“Si sono aperte delle porte, provvidenzialmente sembra, ma queste opportunità, come una corrente d’aria, si sono chiuse troppo in fretta. Che cos’è questa provvidenza che va e viene senza che ciò che offre possa essere colto? Il mio destino, il mio fatum, che risulta da queste soglie, varcate o non varcate, è conforme al mio destino?

Sono domande molto legittime, alle quali bisogna rispondere con cautela. Poiché le parole chiave del loro vocabolario appartengono a registri distinti (la provvidenza è religiosa, il fatum è letterario), sembrerebbe prudente verificare le definizioni precise di questi termini e individuare chiaramente i registri a cui appartengono prima di delineare le possibili risposte a queste legittime domande.

Definizione dei termini e dei registri lessicali

Opportunità

“Opportunità”1 – che fa parte della lingua francese dal XIII secolo – deriva dal latino opportunus, la cui radice portus significa letteralmente “ciò che conduce al porto” (o “a un buon porto”) e quindi caratterizza principalmente la cosa o l’azione che è appropriata (al momento, al luogo o alle circostanze) o che si verifica al momento giusto, nel contesto giusto. In questo senso, una cosa o un’azione tempestiva può essere descritta – oltre che dal suo diretto contrario, “inopportuna” – come “fuori luogo” o “intempestiva”. Si parlerà quindi di “opportunità di una decisione” o di “opportunità di fare la tal cosa”. D’altra parte, dovremmo evitare di usare “opportunité” per riferirci a un’opportunità (“approfittare di un’opportunità”), o a una semplice possibilità, un significato che si è allontanato sotto l’influenza dell’inglese.

La distinzione tra questi due significati nel nostro contesto è decisiva. Dobbiamo distinguere con decisione tra l’opportunità, intesa come possibilità di compiere liberamente un’azione giusta o corretta, e l’opportunità, intesa come possibilità da cogliere per ottenere un vantaggio, un profitto. La distinzione induista (Bhagavadgītā) tra sakāmakarman, azione con desiderio eseguita in vista dei suoi frutti (“approfittare dell’opportunità”), e niskāmakarman, azione senza desiderio (“azione giusta o corretta”), indifferente ai frutti dell’azione e attraverso la quale l’essere sfugge alla catena indefinita delle conseguenze delle azioni, può essere assimilata a questa opposizione.

“Opportunisme” (opportunismo), un termine francese recente (1869), è una buona illustrazione sia della distinzione essenziale tra i due significati di “opportunité” che abbiamo individuato, sia dell’influenza dell’inglese di cui abbiamo parlato. Il primo significato di “opportunismo” (storicamente il primo e ben datato alla fine del XIX secolo) proviene dal contesto politico, dove si può riconoscere la preferenza anglosassone per un pragmatismo quasi esclusivo. Significa “approfittare delle circostanze” (cioè sfruttare le opportunità), “scendendo a compromessi con i principi se necessario” (cioè rinunciando alla giusta linea d’azione). Per estensione diretta, il significato attuale si applica a una persona che “regola la sua condotta in base alle circostanze” e subordina i suoi principi al suo interesse momentaneo.

Destino, fato

“Destino”, come “sorte”, è un secolo più antico di “opportunità”: dal XII secolo, dal latino destinare (destinare, fissare il futuro di qualcuno, assoggettare), e fino al XVII secolo, significava “progetto”. Poiché per “destino” si intende la sorte individuale di una determinata persona, quanto detto qui a proposito del “destino” varrà anche per il “fato”.

Dobbiamo subito distinguere tre significati:

  • Quello di un potere che fissa irrevocabilmente il corso degli eventi. Nella mitologia greca questo potere era superiore agli dei e ancora oggi si parla di “destino cieco, crudele e spietato”. I termini correlati sono “necessità”, “fatalità” o “fatum”.
  • Un secondo significato, relativamente opposto, sarebbe “caso” (anziché necessità), “fortuna” (anziché fatalità) o “destino”, per riferirsi a tutti gli eventi della vita di una persona, siano essi contingenti (caso, fortuna) o meno (fato, destino), ma “considerati come derivanti da cause distinte dalla sua volontà”. Così diciamo che “non si può sfuggire al proprio destino”, che “era scritto”, “doveva accadere”.
  • Il terzo significato di “destino” nega sia il caso che la necessità, facendo del destino il corso dell’esistenza, questa volta visto come qualcosa che può essere cambiato da chi lo vive. Le espressioni corrispondenti sono “essere responsabile del proprio destino” o “decidere del proprio destino”.

Questi tre significati sembrano coprire l’intera gamma di possibilità quando si parla di destino: possiamo deciderlo e averne il controllo, e in caso contrario, può essere un destino necessario o un caso (felice o infelice).

Fatum

Questa parola latina, che ha trovato spazio nel francese letterario, deriva da fari (dire, parlare) e significa quindi “ciò che è stato detto” (e che quindi deve accadere). È anche l’origine del “fado” portoghese, un canto o un lamento per il destino di un amore impossibile, la gelosia, la nostalgia dei morti e del passato, la difficoltà di vivere. Le distinzioni leibniziane sono illuminanti e non si riducono affatto ai diversi significati di “destino” di cui sopra. Nella prefazione al suo Essai de théodicée…, Leibniz distingue tra :

  • “Fatum Mahometanum” o “destino turco”, che è un fatalismo assoluto basato sull’argomentazione pigra o sulla “ragione pigra” (“Il ragionamento (o l’argomentazione) pigra (logos argos) è il sofisma dei fatalisti che ne concludono che lo sforzo è inutile e che dobbiamo abbandonarci al destino”),
  • il “Fatum Stoïcum” che “dà tranquillità rispetto agli eventi grazie alla considerazione della necessità che rende inutili le nostre preoccupazioni e i nostri dolori”,
  • e il “Fatum Christianum”, che produce “contentezza grazie alla fiducia nella bontà e nella provvidenza di Dio”.

È chiaro che ciò che queste definizioni leibniziane aggiungono ai tre casi di “destino” indicati (controllato o subìto e, se subìto, dovuto al caso o alla necessità), è il modo in cui l’uomo si pone rispetto al suo destino (ciò che gli accade): può dire a se stesso che “non c’è niente da fare” di fronte al destino, e quindi che può fare qualsiasi cosa senza che questa abbia alcuna conseguenza sul proprio destino; può sposare la saggezza tipicamente stoica, secondo la quale la felicità consiste in questa pace dell’anima, nella ferma impassibilità di fronte a tutti i dolori e a tutti i mali della vita; può, infine, sperimentare la fiducia realizzando la provvidenza divina (conseguenza diretta di Dio-Amore). Torneremo, naturalmente, su questo terzo atteggiamento.

La Provvidenza

“Provvidenza” deriva dal latino providencia (da providere: “vedere avanti”, “vedere in anticipo”, “provvedere”) ed è stata tradotta in francese già nel XII secolo con il significato, all’inizio, di “previsione” e, alla fine, con quello di “sapienza divina” che aveva in latino già nel I secolo (Seneca): “Sapienza divina che prevede tutte le cose e provvede a tutte le cose” (“providere” significa, in effetti, sia “prevedere” che “provvedere”).

Teologicamente, è l’attributo con cui Dio, nella sua sapienza, concepisce il piano delle cose e con la sua potenza dirige il corso degli eventi determinando per ogni creatura e per l’intero universo il fine da raggiungere e i mezzi necessari per ottenerlo. In questo modo, la divina provvidenza si differenzia dalla prescienza per l’aggiunta della volontà divina.

Ciò nonostante, la provvidenza divina solleva due problemi: quello del male (“Come possiamo comprendere il male in un contesto in cui tutto viene da Dio?” è una domanda frequente) e quello della libertà umana (“Va notato qui che attribuire a Dio tutto ciò che accade nell’universo – cosa che la teologia non fa – equivarrebbe a negare sia la libertà data all’uomo sia il suo relativo contributo alla creazione”). La soluzione biblica (e quindi cristiana) trasforma questi due problemi in uno solo: la possibilità del male risiede nella libertà (effettiva) data all’uomo (di opporsi alla volontà del Padre).

Schema di una dottrina della provvidenza e del destino

Poiché ora rispondiamo non a una domanda filosofica generale, ma alle domande di una persona in particolare, cominceremo col rifiutare qualsiasi “autorità” che ci possa essere attribuita. Ciò che segue non può quindi essere altro che la condivisione di ricerche e scoperte, nate da un’esperienza personale e necessariamente unica2. Tuttavia, non intende fare della condivisione una parola vuota.

Ciò che le definizioni dei termini “opportunità”, “destino”, “fatum” e “provvidenza” ci hanno essenzialmente mostrato è la scelta degli atteggiamenti che l’uomo può assumere nei confronti del suo destino come combinazione tra l’espressione della sua libertà e i vincoli che gli appaiono esterni. Dopo aver passato in rassegna quelli che, direttamente, ci sembrano i più corretti o da escludere immediatamente, potremo delineare quella che ci sembrerebbe una dottrina adeguata sulla provvidenza e sul destino collettivo e individuale, in particolare affrontando l’apparente paradosso della predestinazione e della libertà umana.

L’abbandono dei falsi destini

Il significato generale di “destino”, come quello di “fato” specifico di un individuo, permette di accantonare le tre concezioni radicali di un destino derivante da pura necessità fatale, da puro caso casuale, o da una maestria che definiremo inconsciamente pretenziosa, o addirittura demiurgica (che rimane un’illusione).

La prima concezione, incompatibile con la libertà umana, presuppone un determinismo assoluto dell’universo, che anche la scienza moderna ha definitivamente abbandonato. Questa tentazione di proiettare le leggi del mondo della fisica su ciò che trascende l’universo e ne costituisce la Causa non ha più nemmeno ragione di esistere, nella misura in cui un sistema deterministico ammette la libertà in Dio ma la nega nella creatura (il cosiddetto determinismo teologico) o, pur “ammettendo” Dio, nega che egli sia libero (il cosiddetto determinismo metafisico), è l’assenza di intervento nel mondo sia da parte di Dio che dell’uomo che deve essere condannata. In un caso, si nega l’immanenza a favore di una trascendenza tronca; nell’altro, è la libertà dell’uomo a essere messa in discussione.

La seconda concezione sembra essere l’opposto della prima, poiché sostituisce la necessità più assoluta della prima con la casualità più totale. Il determinismo radicale della prima concezione e l’indeterminazione non meno radicale della seconda creano un mondo da cui Dio è assente, soggetto a un identico sovradeterminismo.

La terza concezione dell’uomo come padrone del proprio destino, è chiaramente fuori discussione, sia che corrisponda ai sogni pseudo-scientifici (scientistici) di immortalità individuale (ridotta alla perpetua longevità terrestre), sia che corrisponda alle ideologie economiche postmoderne di presunto successo materiale collettivo (comprese le false nozioni di crescita indefinita o di produttività macroeconomica). Se, piuttosto che di “padronanza del mondo (e degli altri)”, parliamo di padronanza del proprio “sviluppo spirituale” – se questa nozione ha un significato – allora ci troviamo di fronte a una serie di fantasticherie pseudo-esoteriche, in cui l’adepto è accecato dalla sua autoproclamata elezione e non percepisce più la sua demiurgica e illusoria vanità.

A noi sembra che sarebbe meglio, senza alcun freno, abbracciare la formula della “stazione ferroviaria”3: “Il destino non è ciò che potrebbe accadere, ma ciò che accade”; o ciò che accadrà. Per dirla in altro modo: non conosceremo il nostro destino fino alla fine, quindi non ha senso preoccuparsene in quanto tale. Per questo, per quanto paradossale possa sembrare, non dobbiamo trascurare di cercare un’azione opportuna o giusta.

Azione opportuna o giusta

Il significato primario di “opportunità” ci guida verso la nozione di azione giusta, in contrapposizione a “un’opportunità che potrebbe essere sfruttata anche a costo di compromettere i principi”. Oltre alla corrispondente nozione indù di niskāmakarman (“azione senza desideri” o azione giusta o corretta), possiamo farla corrispondere a sattva, uno dei tre guṇa o “qualità dell’essere” del Sāṃkhya. Questi tre guṇa sono tamas (inerzia e i suoi corrispondenti: oscurità, viltà, colore nero, caduta, ecc.), rajas (dinamismo, energia, attività, colore rosso, espansione, dispersione centrifuga, ecc. ) e sattva (equilibrio, serenità, stato luminoso, colore bianco, ascensione…), quest’ultimo letteralmente significa: “conformità all’essere”4.

In relazione a una croce, tamas è la linea semiretta che scende dal centro e si allontana dal Principio verso (ciò che sarebbe) il nulla; rajas è l’espansione orizzontale, il dominio dell’avere, del quantitativo (in cui possiamo classificare l’accumulo di ricchezza così come l’erudizione, il virtuosismo così come le prestazioni sportive); e sattva è l’elevazione verticale dal centro, il “più-essere”, l’adesione a stati “superiori” dell’essere.

È interessante notare che rajas è il passaggio da tamas a sattva. Per esempio, in termini di semplice progresso morale, un atto rajasico potrebbe essere l’antidoto a una tendenza tamasica (come l’azione eroica di un codardo abituale) e, più in generale, raccomanderemmo un comportamento rajasico per le persone tamasiche, quindi un comportamento sattvico per le persone rajasiche. A livello spirituale, la negazione della Trascendenza è tamasica, e posizionare la Causa o la Fine nell’asse dello svolgimento del mondo, cioè confondere il Sopra con il Sotto, è rajasico.

Nel sufismo, queste tre tendenze sono al-‘umq: profondità, al-‘urd: ampiezza e at-tûl: altezza. Così, nella Sura al-fâtihah (“colui che apre”), che è l’introduzione al Corano, leggiamo:

“[…] guidaci sulla retta via, la via di coloro che hanno la Tua grazia, non di quelli che subiscono la Tua ira, né di quelli che vagano”.

Parlando di queste tre tendenze, il Profeta ha tracciato una croce: l’Eç-çirâtul-mustaqîm, la retta via, è la verticale ascendente; l’ira divina agisce in direzione opposta; la dispersione di coloro che vagano, l’Ed-dâllîn, è in orizzontale5.

Questa “opportunità”, questa azione “opportuna” o “giusta” da ricercare sarà quindi quella dell'”ampiezza” (sufismo), che ci porta alla conformità con l’essere (Sāṃkhya). Nel cristianesimo, parleremo di “fare la volontà del Padre”, cioè, secondo l’insegnamento di Cristo, di “cercare prima il Regno di Dio” (Mt VI, 33; Lc XII, 31), che è “dentro di noi” (cfr. Lc XVII, 21). Questa centratura interiore è in particolare il cammino indicato dalla Vergine Maria. Consiste essenzialmente nel rinnegamento di sé (Abneget semetipsum)6, per procedere all’anattā: l’annientamento del sé (buddismo) o la “neantizzazione del sé”7, cioè scoprire di essere un non-io; o raggiungere l’al-fanā‘ (estinzione, nel sufismo) o il nirvāna (estinzione, nell’induismo) o “centrarsi nel mozzo della ruota cosmica” (taoismo).

La conclusione che si deve trarre ci sembra ben riassunta dall’insegnamento di Cristo in S. Matteo, di cui abbiamo solo accennato. Matteo, di cui abbiamo citato solo la prima parte (“cercate prima il Regno e la sua giustizia”) ma che continua con “e il resto vi sarà dato in aggiunta”. Può essere “interpretato metafisicamente come ‘cercate prima l’Assoluto – e il relativo vi sarà dato in aggiunta’”8.

Si tratta quindi, radicalmente, di distinguere tra l’Amore di Dio e l’amore del mondo, tra il Regno e la terra. L’unico destino rilevante è in Dio; ciò che rimane è l’appropriatezza dell’azione giusta in relazione alla terra.

Predestinazione o provvidenza?

Abbiamo visto che la provvidenza è quell’attributo con cui Dio dirige il corso degli eventi (cfr. il significato di “provvedere”), avendo determinato per ogni creatura il fine da raggiungere e i mezzi necessari (cfr. quello di prevedere); e la predestinazione?

In senso lato, la predestinazione è ciò che rende possibile ricevere una particolare grazia. In senso stretto, si riferisce al “disegno eterno e infallibile secondo il quale Dio decide di condurre effettivamente alla salvezza chi vuole”. Questa rivelazione viene da San Paolo: “Quelli che Dio ha conosciuto li ha predestinati e quelli che ha predestinato li ha chiamati” (Romani VIII, 30)9, una dottrina che si può ovviamente leggere anche in S. Giovanni, pure se non viene usata la parola “profeta”: “Nessuno può venire a me se il Padre mio non lo attira” (6, 44).

Questa predestinazione, che permette all’uomo di ricevere la grazia della salvezza10, è esclusivamente “positiva”: da un lato Dio ha ovviamente “conosciuto in anticipo” tutti gli uomini (e quindi li ha predestinati e chiamati tutti) e, dall’altro, è per essenza diffusivo del Bene11.

Le due insidie da evitare sono, in primo luogo, quella di confondere questa predestinazione (etimologicamente: “vocazione”) con qualsiasi tipo di determinismo, che negherebbe la libertà data all’uomo, e in secondo luogo, e soprattutto, quella di pensare che si affermi, o anche solo si sottintenda, la sua inversione: una predestinazione “negativa” dei dannati12. Infatti, la prescienza di Dio lo rende consapevole di chiunque lo rifiuti (questa è la sua libertà), pur conservando la sua vocazione (predestinazione) alla salvezza13.

Intesa in questo modo, la predestinazione è la destinazione finale dell’uomo: la sua salvezza e la provvidenza è ciò che Dio ha pianificato e provvede per l’uomo nel suo cammino. La prima grazia è essenziale e corrisponde al Paradiso eterno; la seconda è provvidenziale e accompagna il passaggio terreno.

Torniamo a questa predestinazione, alla luce dell’amore di Dio – troppo astrattamente citato (“diffusivo del Bene”) – e seguendo le indicazioni di Jean Borella (Lettera privata, febbraio 2007):

[…] l’amore di Dio è necessariamente un amore di scelta, un amore di elezione. Mi sembra che tutto l’Antico Testamento lo insegni. Quando Dio ama qualcuno – e Dio ama tutti – lo ama con un amore unico ed esclusivo che distingue l’amato da tutti gli altri. La chiamata è rivolta ai molti, ma l’amore è rivolto all’unico, perché l’amore è personale. Tra la chiamata e l’elezione c’è la distinzione tra creazione e deificazione. Dio crea le cose e gli esseri chiamandoli all’esistenza, e questo riguarda la moltitudine degli esseri e delle cose, mentre questa creazione è una chiamata a conoscere Dio. Ma l’elezione è sempre e comunque l’elezione di una singola persona, perché ogni volta è una singola persona che risponde alla chiamata a Dio che è ogni creatura. […] L’elezione è di un ordine diverso dalla chiamata. La chiamata è di ordine cosmico e può, nel caso della creazione terrena, essere soggetta alla quantità; l’elezione è di ordine della grazia e non è più soggetta alla quantità. […] L’elezione è al di fuori dell’ambito dei numeri. […] Questa è l’implicazione della risposta di Cristo in Lc XIII, 23: “Maestro, saranno pochi (oligoi, pochi) quelli che si salveranno?”, (oligoi come in Mt XXII, 14). E Gesù non risponde né sì né no, ma “sforzatevi di entrare per la porta stretta” […]. La porta qui è thura, la porta di una casa o di una stanza, non una porta monumentale. Che cos’è una porta stretta? È una porta che si attraversa solo una alla volta.

Conclusione

Ci sembra che l’unica conclusione possibile risieda nel mistero di questo paradosso di ogni azione umana, che è al tempo stesso inutile e necessaria. “Inutile”, perché solo la grazia di Dio sostiene ogni destino; “necessaria”, perché la libertà dell’uomo si esprime in ultima analisi nel suo centramento volontario (dove è il Regno), nel suo conformarsi all’essere (sattva), insomma nell’abbandonare la propria volontà per sposare quella del Padre.

La conclusione si trova certamente anche in questa radicale distinzione tra speranza e auspicio, perché la speranza non è speranza: sperare in qualcosa di indicibile non è sperare in un bene concepibile; “Che mi uccida pure e io spererò ancora in Lui”, diceva Giobbe (13, 15).

Se vogliamo completare queste due indicazioni ultime e radicali (ma che rimangono necessariamente paradossali in apparenza), diciamo che le scelte pratiche da fare nella vita quotidiana devono semplicemente essere ordinate ad esse. Potremmo dire: “Non perdere di vista l’essenziale a vantaggio del secondario”. Qui parla la “saggezza” indiana che, distinguendo tra i quattro obiettivi dell’uomo (mokṣa, dharma, kāma, artha)14, precisa soprattutto che essi devono essere perseguiti in modo simultaneo, gerarchico e armonico.

Per non rimanere troppo cautamente sibillini e dare consigli pratici, diciamo ancora una volta che le risposte devono venire dall’interno. Qualcuno direbbe: “bisogna ‘svuotare l’aria’, affinché la risposta, necessariamente unica per ogni persona, possa apparire”. Questo “svuotamento” comporta due aspetti strettamente correlati: l’abbandono della propria volontà (come nell’allenamento del tiro con l’arco zen praticato a occhi chiusi) e la fiducia nella provvidenza, alla quale è stato così dato spazio per esprimersi, tanto più che è “lo Spirito stesso [a] pregare per noi con gemiti ineffabili” (Romani VIII, 26).

Note

  1. gli elementi qui raccolti provengono da Larousse (3 vol.), (nuovo) Petit Le Robert, Vocabulaire de la philosophie et des sciences humaines (Morfaux, A. Colin), Dictionnaire étymologique et historique du français (Larousse) e Dictionnaire théologique (L. Bouyer), s.v.[]
  2. Metafisicamente, due cose identiche sotto ogni aspetto sarebbero quindi una sola cosa. Questa molteplicità di cose, necessariamente diverse ma che formano un tutto, trova il suo analogo nella molteplicità degli esseri (umani) e nel mistero della loro unità in Cristo: il Corpo Mistico di cui Egli è il capo e l’umanità le membra (San Paolo) o la Vite e l’umanità i tralci (San Giovanni).[]
  3. Frédéric Dard (San Antonio); l’espressione “letteratura della stazione ferroviaria” è sua[]
  4. queste “tendenze” si applicano ugualmente al macrocosmo e al microcosmo, all’universo e all’uomo[]
  5. cfr. Titus Burckhardt, Introduction aux doctrines ésotériques de l’Islam. Questo paragone può sembrare un po’ forzato[]
  6. Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, et tollat crucem suam, et sequatur me” (“Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinunci a sé stesso, prenda la sua croce e mi segua”), Mt XVI, 24.[]
  7. Nelle parole del filosofo giapponese Kitaro Nishida (1870-1945).[]
  8. Jean Borella, Problèmes de gnose, di prossima pubblicazione, L’Harmattan, 2007 (cap. 6, sezione 3, § 6).[]
  9. cfr. anche Romani VIII, 28-30, I Corinzi II, 7, Efesini I, 5 e 11 e Matteo XX, 23). Questi testi possono essere paragonati a ciò che Dio disse a Geremia nell’Antico Testamento: “Prima di formarti nel grembo di tua madre, ti conoscevo; e prima che tu uscissi dal suo grembo, ti avevo consacrato, ti avevo fatto profeta delle nazioni” (Ger I, 5-6).[]
  10. cfr. Denzinger-Bannwart, 321-322 e S. Tommaso, S. Th. 1a, q.23 e 24.[]
  11. Deus caritas est” e il Bene è una diffusione di se stesso (Bonum diffusivum sui esse[]
  12. Il Secondo Concilio di Orange, del 529, definì come dottrina ortodossa della Chiesa la piena e intera facoltà per tutti i battezzati di salvarsi se lo desiderano.[]
  13. André Dumas concludeva come segue: “La predestinazione è dunque il termine teologico che attesta l’anteriorità dell’amore di Dio rispetto alla nostra libera adesione. Contro il destino, è una chiamata di Dio e, contro il determinismo, una risposta scelta dall’uomo”, Encyclopædia Universalis, s.v.[]
  14. Liberazione, dovere, ricchezza e piacere.[]