Introduzione

Sulla base di simboli comuni tra le religioni, è stato possibile parlare di “unità trascendentale delle religioni”. Tuttavia, ciò solleva una serie di difficoltà, che Jean Borella ha sollevato in diverse occasioni1.

Gli elementi che seguono, dopo Jean Borella, propongono di considerare più propriamente un’unità analogica delle religioni.

La religione che nomina le altre

Cominciamo col tornare al concetto di religione e alla parola stessa, intesa come nome di tutte le religioni del mondo. Innanzitutto, ci sono tre fatti da notare:

  • il significato iniziale latino di religio, originariamente usato solo per designare la pietà, la fedeltà, o “un insieme di osservanze, regole e divieti, senza riferirsi né all’adorazione della divinità, né a tradizioni mitiche, né alla celebrazione di feste” (cfr. Brelich), non sembrava predestinato al successo che sta riscuotendo oggi;
  • nessuna lingua prima del cristianesimo aveva un termine specifico per designare la religione, il che ha permesso al termine di affermarsi;
  • questo concetto generico sarebbe dovuto emergere dall’esperienza di una pluralità di elementi singolari dello stesso tipo, cosa che avvenne, fin dai tempi di Alessandro, durante i contatti con quelli che oggi chiamiamo induismo e buddismo. Ma non è stato così.

Abbiamo dovuto aspettare l’era cristiana perché questo concetto emergesse, come se la “forma” religiosa cristiana rivelasse l’essenza sovra-formale di ogni religione!2 L’umanità ignorava quindi la nozione generale di religione prima della comparsa del cristianesimo. Ma l’effetto semantico della comparsa del cristianesimo nel mondo mediterraneo del I o II secolo non si limitava a dotare il pensiero umano del concetto di religione “in generale”; si estendeva anche, in modo del tutto logico, alla denominazione di ciascuna religione in particolare. Infatti, se la nozione di religione (e quindi di religioni) non è stata scoperta in Cina, in India, nel buddismo, in Egitto, in Israele, in Grecia o a Roma, bisogna aggiungere che, prima del cristianesimo, nessuna di queste religioni aveva un nome proprio. I nomi che usiamo, come taoismo, induismo, buddismo, persino ebraismo, sono tutti post-cristiani, e alcuni (l’induismo, per esempio) sono molto recenti. Al contrario, l’aggettivo “cristiano”, come apprendiamo dagli Atti degli Apostoli (XI, 26), è apparso ad Antiochia intorno al 45, e il sostantivo “cristianesimo” (christianismos in contrapposizione a ioudaïsmos), attestato per la prima volta da S. Ignazio di Antiochia (Epistola degli Apostoli), era usato ad Antiochia. Ignazio di Antiochia (Epistole ai Magnesi, X, 1, 3; ai Romani, III, 3; ai Filadelfi, VI, 1), sembra essere stato di uso comune alla fine del I secolo”3.

La denominazione porta al confronto

Che la comparazione abbia portato alla denominazione o viceversa, resta il fatto che, avendo costituito le altre forme del sacro in religione, il cristianesimo aveva bisogno di collocarsi in relazione ad esse. Ci sono tre modi possibili per caratterizzare questa situazione: le religioni esistenti sono residui diversi della rivelazione primitiva; sono opere puramente umane (il prodotto della religiosità naturale o il risultato di altri fattori); oppure sono “opera del diavolo”.

Ognuna di queste ipotesi appare sia vera, per certi aspetti, sia falsa: l’ultima ci ricorda che nessuna religione può sfuggire agli attacchi del demonio (cfr. la parabola del grano buono e della zizzania), ma presuppone che Dio possa lasciarsi adorare e pregare con le forme insegnate dal diavolo (un ingannatore così potente da poter soddisfare, attraverso un’illusione invincibile e impercettibile, il bisogno religioso più profondo di tutta l’umanità dalla notte dei tempi); la seconda ipotesi ricorda che tutte le religioni sono certamente ricche di creazioni umane e risentono delle condizioni culturali del loro sviluppo, ma “conferisce alla natura umana una capacità creativa sproporzionata rispetto all’entità dei fenomeni religiosi e all’originalità specifica di ogni religione”; la prima ricorda che tutte le religioni “portano con sé elementi primordiali, come dimostra l’universalità di certe verità e simboli”.

Questa è senza dubbio la soluzione più coerente. Tuttavia, non rende conto del fatto che, al di là dei loro comuni elementi primordiali, alcune religioni appaiono, senza alcuna possibile contestazione, fondate da un rivelatore, come Buddha o il profeta Maometto. Questo può essere visto solo come l’effetto di una messinscena. La tesi di una rivelazione primordiale deve quindi essere integrata da quella dell’intervento divino, diretto o indiretto (angelico). Riconoscere questa “origine divina delle religioni (autentiche) non porta di per sé al relativismo o al sincretismo, poiché ciascuna rimane unica e, in un certo senso, incomparabile”.

Cosa dobbiamo fare, dunque, di religioni che si confrontano e si contraddicono? Per esempio, il Buddha insegna l’impermanenza dell’atman (il “sé”), in contrasto con l’induismo, che ne afferma la permanenza e la realtà trascendente. Allo stesso modo, il Corano rifiuta la Trinità cristiana in nome dell’Unità divina (IV, 171; V, 73), così come la divinità di Cristo (IV, 172; V, 17, 72-78; IX, 31-32), che è inseparabile da essa. Questa contraddizione, in particolare tra il coranico “Dio non ha figli” e “il Verbo fatto carne è Dio”, così com’è, è insolubile. Non resta che cercarne il significato.

Piuttosto che contrapporre le religioni, sembra necessario accettare l’idea di una gerarchia di rivelazioni: la Parola rivelatrice che esprime il Mistero divino in modo più o meno esplicito. Ad esempio, il cristianesimo non rifiuta il dogma fondamentale dell’islam (nessun Dio, a parte Dio), ma al contrario lo afferma (credo in unum Deum: “Credo in un solo Dio”), mentre l’islam non “capisce” Cristo, il Figlio di Dio. Più precisamente, riconosce solo ciò che rientra nella sua prospettiva: Gesù, figlio della Vergine Maria, messaggero di Dio, ma in modo tale che “si potrebbe dire che l’Islam rappresenta ciò che l’abramismo puro può accettare del mistero di Cristo, e che il giudaismo aveva rifiutato”.

Questa semi-negazione – che è anche una semi-affermazione – di Cristo da parte dell’Islam (una religione esplicitamente post-cristiana) è senza dubbio una prova terribile per un cristiano, ma è ricca di insegnamenti: Ci ricorda “la forza inconfutabile dell’istanza monoteista” (di cui l’Islam è testimone); ci insegna “l’insondabile profondità del mistero di Cristo, insondabile perché tutto accade come se Dio avesse dovuto tollerare il suo misericordioso – e momentaneo – velamento agli occhi di alcuni dei ‘credenti'”.

Questo perché il mistero di Cristo “è ‘parosiaco’: in esso si realizza la perfetta immanenza del divino nell’umano, anticipazione e salvezza del momento finale in cui ‘Dio sarà tutto in tutti'”. In altre parole, i cristiani realizzati appartengono già all'”ottavo giorno” del mondo, e l’Islam realizza una certa “verità di fatto” dell’atteggiamento di alcuni cristiani verso Cristo, quello dell’eresia ariana. Per questo “era in un certo senso impossibile che il cristianesimo fosse la religione definitiva, la religione della fine dei tempi”. Ciò che è definitivamente compiuto nella persona di Cristo non è altrettanto compiuto nella religione cristiana, il cui compito di cristificare il mondo è solo “in via di compimento”; altrimenti, se questo compito fosse compiuto, la religione cristiana avrebbe cessato di esistere.

Così, il cristianesimo è allo stesso tempo più e meno di una religione: “più di una religione, perché è incentrato sul mistero di Cristo, l’unità trascendente di tutte le rivelazioni”, nel senso che la “forma” cristiana supera tutte le forme e rivela così “la forma religiosa” in quanto tale; “meno di una religione, perché questo superamento comporta una sorta di incapacità relativa di costituirsi realmente come forma storicamente esistente”. La sua natura profetica – che “annuncia la morte del Signore fino alla sua venuta” (1 Cor., XI, 26) – “autorizza” l’esistenza terminale di una forma religiosa: una sintesi minima e stabile della forma religiosa in quanto tale, una religione ridotta all’essenziale.

Il cristianesimo è terminale e insuperabile, in quanto oggi riverbera la luce parousiaca ed eterna: “la luce soprannaturale dell’Apocalisse futura”; e l’Islam è terminale perché rappresenta la forma più semplice del teismo sacro originario4.

I limiti dell’unificazione religiosa

Non possiamo ignorare il carattere congetturale di queste considerazioni, né il fatto che “nella pluralità delle religioni c’è un mistero impenetrabile, il segreto di Dio”. Tuttavia, non possiamo evitare di provare a pensarci, anche se “pensare è sempre mettersi al posto di Dio”. Quindi, perché il mio pensiero sulla pluralità delle religioni sia accettabile, deve basarsi sulla mia esperienza delle religioni esistenti, e in particolare della mia religione, che diventa così “la condizione insuperabile costituita per me dalla rivelazione di Cristo”. Ma allora la stessa unificazione del concetto di religione diventa problematica: se si tratta di una “unità apofatica delle rivelazioni” (apofatica per ineffabile e sovraintelligibile), ci si limita ad affermare l’origine divina delle manifestazioni del sacro, o, per lo studente ateo, ci si limita a ratificare una denominazione comune dei fatti religiosi; se si tratta di una “unità catafatica delle religioni” (catafatica per affermazione positivamente formulabile), ci si impegna a definire il contenuto intelligibile di tale sovra-religione o inter-religione.

È qui che sorgono difficoltà insormontabili per il cristianesimo. Infatti, è sempre possibile ignorare le contingenze particolarizzanti delle varie religioni (il modo in cui si distinguono fenomenologicamente), ma ciò che non è possibile è ignorare ciò che ciascuna di esse dice di essere essenziale. Ad esempio, tralasciando i fatti storici che costituiscono Shakyamuni per il buddismo e Maometto per l’Islam, possiamo ammettere che queste religioni si uniscono: “il nirvana non è altro che l’estinzione di tutto ciò che si afferma illusoriamente come reale al di fuori dell’unico Reale: non c’è altro Dio che Dio”. Ma il cristianesimo non può essere sottoposto allo stesso trattamento: il suo messaggio è il messaggero stesso; “la contingenza storica particolare in quanto tale è data come l’assoluto della rivelazione. Tutte le religioni hanno detto, in una forma o nell’altra, che Dio è Padre o che è Spirito, ma nessuna ha mai detto che Dio è Figlio.

Questo “Dio è Figlio” significa che, attraverso la Trinità rivelata dal Figlio, Dio “diventa” Padre, non solo degli uomini e del mondo, ma soprattutto in quanto Dio genera eternamente Dio; inoltre, poiché Cristo non è affatto un messaggero tra gli altri, ma la Parola stessa, “diventa” l’esegesi del Padre (Joa., I, 18).

Mentre le altre religioni, per quanto ne sappiamo, non “determinano” l’Essenza divina nella sua interezza, ma si accontentano del “Volto” necessario per la nostra relazione con Dio (l’Uno, l’Essere, la Realtà pura, il Creatore e il Ricompensatore…), il mistero trinitario è una “cristianizzazione” dell’Assoluto, che “estende la ‘forma’ cristiana al di là della relazione uomo-Dio”, che “dogmatizza” il cristianesimo a livello dell’Assoluto stesso. Questo è ciò che rende il cristianesimo non integrabile nel concetto positivo di unità delle religioni, a meno che, naturalmente, non si rifiutino i due dogmi fondamentali (l’unione della natura divina e della natura umana nell’unica ipostasi o persona del Figlio, da un lato, e l’unico Dio in tre persone distinte, dall’altro), ma allora il cristianesimo non sarebbe più integrato, sarebbe arianesimo.

Poiché una tale reinterpretazione è incompatibile con i dati della Tradizione e della Scrittura, dobbiamo rifiutare la concezione catafatica di un’unità delle religioni e attenerci a una concezione apofatica.

Un’unità analogica delle religioni

Se la pluralità delle religioni è necessaria, è nell’ordine stesso di questa pluralità che deve manifestarsi anche l’unicità, un’unicità che è quindi relativa. Filosoficamente si possono distinguere diversi tipi di unità. L’unità generica è quella in cui esiste un unico genere comune a più specie, come il genere animale, comune al bue e all’uomo (l’uomo non è meno animale del bue, ma aggiunge a questo genere comune la ragionevole differenza specifica); “secondo questo tipo di unità, il termine religione designerebbe un genere comune di cui ogni religione sarebbe una specificazione, nessuna religione essendo più o meno religione di un’altra, più di quanto un animale sia più animale di un altro: qui il termine religione ha un significato univoco”. L’unità puramente nominale si verifica quando non c’è un genere comune tra l’animale “cane” e la costellazione del Cane; qui il termine cane ha un significato equivoco, è un semplice omonimo. Esiste un terzo tipo di unità, che non è né univoca come nell’unità generica, né equivoca come nell’unità nominale: è il caso in cui lo stesso nome può essere applicato “a realtà diverse, non perché queste realtà abbiano un genere comune, ma perché hanno una relazione specifica con una realtà primaria in cui l’essenza significata dal nome si manifesta in modo più appropriato e perfetto”. L’esempio classico di questo caso è quello di “sano”, che si dice propriamente e per eccellenza dell’animale, ma anche, e indirettamente, del rimedio o del medico che procura la salute, o dell’urina che ne è il segno. Questa unità può essere chiamata unità analogica – i medievisti la chiamavano così – nel senso di un’analogia di attribuzione: lo stesso termine viene attribuito a realtà diverse in un modo che non è né univoco (nessuna identità o equivalenza generica tra queste realtà) né equivoco, perché, in questo caso, “la comunità dei nomi ha la sua ragion d’essere nel fatto che c’è una certa natura che si manifesta in tutti (i) significati” di questo termine5. Ma questa comunità di natura si manifesta in modo più o meno perfetto, e quindi questa natura prenderà il nome solo dalla realtà in cui si manifesta più visibilmente e a cui appartiene più propriamente. Sarà quindi attribuita ad altre realtà “in riferimento a una prima realtà”, dice Aristotele.

Questi principi possono essere applicati al caso delle religioni, da un lato perché non può esistere un’unità di religioni e, dall’altro, perché l’umanità non conosceva la nozione generale di religione fino alla comparsa del cristianesimo, che le ha nominate tutte.

“Ogni denominazione distingue e separa, ma così facendo realizza anche la verità del molteplice, rivelando l’identità singolare di ogni essere. […] Per raggiungere l’autocoscienza, e quindi la consapevolezza della religione in quanto tale, i pensatori cristiani hanno dovuto sperimentare, attraverso il messaggio cristiano, qualcosa che andava al di là di tutto ciò che potevano conoscere in termini di sacro, cioè non solo il sacro greco, romano o ebraico, ma anche quello indiano, egizio o celtico. Perché le altre forme religiose si costituissero nella loro stessa formalità, cessando di essere modi di vita spontanei, ciechi a se stessi, come il signor Jourdain che scriveva in prosa senza saperlo, dovevano essere definite da ciò che le limitava nel loro stesso ordine, in altre parole, che le trascendeva. [Il cristianesimo è quindi, per il suo stesso aspetto, la rivelazione di tutte le religioni nella misura in cui sono religioni. Alla luce del cristianesimo, o meglio alla luce di Cristo, è stata effettivamente rivelata la natura religiosa delle altre forme, che esse lo sappiano o meno. Questo non significa affatto che egli sia la religione in quanto tale, per la semplice ragione che questa quintessenza della religione non esiste. Inoltre, poche religioni sono così intimamente consapevoli della loro imperfezione formale come la religione cristiana: ciò che vi è di più trascendente – Cristo – non le appartiene e non le apparterrà mai.

Da allora, questa religione precaria e mal definita, che può persino contemplare con una certa “invidia” lo splendore formale, la vigorosa semplicità o il profumo di serenità delle manifestazioni del sacro sulla faccia della terra, “sa anche di essere depositaria di un messaggio unico che consiste semplicemente nella venuta di Dio nella nostra carne, non del divino, ma di Dio in persona, non la “discesa” sulla terra di un aspetto divino (avatara), ma l’assunzione della natura umana da parte dell’ipostasi del Verbo. [Questa è la ragione della segreta debolezza della forma cristiana”6. Possiamo persino vedere “l’importanza della Chiesa – fenomeno unico nella storia delle religioni – come sostituto di questa forma che, sotto certi aspetti, manca (da qui anche una certa mancanza di senso delle forme sacre, che sembra congenita al cristianesimo)”7.

“Questo è stato il grande problema del cristianesimo dall’inizio fino ad oggi: forme ebraiche, forme pagane, forme moderne, forme postmoderne, e così via. Riformare costantemente significa cercare nuove forme e non accontentarsi di una sola. Stabile nello spazio, il cristianesimo è in perpetua peregrinazione temporale. Ma è anche così che conserva il potere di rivelare la natura formale delle manifestazioni del sacro. Come si vede, non è facile essere cristiani, e nemmeno pensare al cristianesimo in sé. E non sto parlando della sublimità dei comandamenti di Cristo, che si possono riassumere così: sto parlando di esistere come cristiano al livello più elementare. Un ebreo o un musulmano si sente ebreo o musulmano quando compie i riti della sua religione, anche se non è un santo. Un cristiano vive sempre nell’estrema incertezza sulla verità cristiana della sua condotta.

Il cristianesimo non è certo l’unità delle religioni, non è la Religio perennis (che è solo la proiezione mitologica e illusoria di un concetto (cfr. le rispettive teorie di Guénon e Schuon)), ma è storicamente la forma primaria in riferimento alla quale solo le altre forme potrebbero essere nominate secondo la verità della loro natura. Per questo possiamo dire che l’unità delle religioni è un’unità analogica il cui analogo primario è la religione di Cristo”8.

Sull’essenza del cristianesimo

Nel corso di questo articolo, abbiamo visto una serie di elementi che mostrano ciò che è unico del cristianesimo (in relazione alle altre religioni) o ciò che è essenziale in esso (in sé). Ricordiamoli:

La sua dogmatica, l’espressione o formulazione più trasparente dei misteri cristiani, che si inserisce tra la rivelazione e la teologia, costituisce un caso unico tra le tradizioni religiose del mondo – che hanno, “classicamente”, una rivelazione (scritta o meno) che formula e teologie che interpretano. È questa comprensione senza pari del mistero cristiano, ci sembra, che ha portato alcune delle più grandi menti a dedicarvi la vita e, soprattutto, che ha reso necessaria questa dogmatica, per fissare – di fronte a qualsiasi deriva interpretativa “aneddotica” – e trasmettere, da duemila anni, il mistero cristiano9.

La sua “gnosticità” significa che il cristianesimo è una religione gnostica per essenza, poiché il Figlio incarnato (o Parola o Logos) è, propriamente parlando, la Parola stessa, la gnosi del Padre. Tutta la vera gnosi, che lo sappia o meno, passa attraverso Cristo-Logos10.

Da ciò deriva la sua unicità trascendente, per cui il cristianesimo può dirsi “più di una religione”. Infatti, incentrato sul mistero di Cristo, “unità trascendente di tutte le rivelazioni”, il cristianesimo – la “forma” cristiana – trascende tutte le forme e quindi rivela “la forma religiosa” in quanto tale.

La sua filialità deriva dal fatto che, nel cristianesimo, il messaggio è il messaggero stesso: l’unigenito Figlio di Dio. Mentre tutte le religioni hanno detto, in una forma o nell’altra, che Dio è Padre o che è Spirito, solo il cristianesimo ha detto: Dio è Figlio. Quindi questo “Dio è Figlio” significa che, attraverso la Trinità, Dio è anche Padre, ma non solo degli uomini e del mondo, ma soprattutto come Dio eternamente generato da Dio.

La sua assunzione della natura umana attraverso l’ipostasi del Verbo incarnato – che è venuto in Persona – non ha paragoni con una “semplice” venuta del divino, anche nella nostra carne, o la “semplice” “discesa” sulla terra di un aspetto divino (Cristo non è in alcun modo un avatara).

La sua ingiunzione alla perfezione: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt., V, 48) va al di là di una capacità umana che sarebbe priva della grazia dello Spirito Santo, annunciato e inviato, e va al di là, senza dubbio, di qualsiasi altro comandamento o ingiunzione a conformarsi a pratiche particolari.

Se dovessimo riassumere il cristianesimo nei termini della sua essenza originale e unica, diremmo11 che 1) Dio si è incarnato in un’altra persona, in un’unica persona; che 1) Dio si è incarnato in Gesù Cristo 2) per insegnarci (dottrina) il Mistero trinitario e 3) per comandarci (vita spirituale) di amare Dio e il prossimo: la carità, 4) aiutandoci a comprendere l’uno e a realizzare l’altro con la grazia dell’incarnazione continua che è l’Eucaristia. “Crediamo che nessuna religione sia fondata sull’incarnazione di Dio stesso come il cristianesimo; nessuna religione possiede, propriamente parlando, una teologia trinitaria; nessuna religione ha ridotto la legge e i profeti al comandamento dell’amore; nessuna religione presenta un rito simile a quello dell’Eucaristia, dove Dio si dona, non solo con la sua grazia, non solo con la sua potenza, non solo come premio a chi fa la sua volontà, ma dove Dio si dona in Persona in una presenza sostanziale”.12

Da ciò si evince la corrispondenza tra la Trinità e la carità, da un lato, e l’incarnazione e l’Eucaristia, dall’altro.

Le questioni di fede saranno legate all’Incarnazione e la forma generale del cristianesimo in tutte le sue manifestazioni storiche, cioè nella sua esistenza, sarà definita da essa((“Così, per esempio, la teologia cristiana, la cui forma storica – non il suo contenuto – è costituita a immagine dell’Incarnazione: come nel Verbo fatto carne l’essenza divina assume una forma che non le è propria, così la verità cristiana, diventando teologia, assume una forma dottrinale che non le è propria, ma che è quella della cultura greco-latina”; La charité profanée, p. 28. Cfr. anche supra, nota 48, p.14.) e all’Eucaristia, che ad essa si riferisce, saranno legate tutte le questioni relative alla speranza (“l’annuncio della morte di Cristo fino alla sua venuta”), ma quindi anche alla fede (“la fede è la sostanza delle cose che speriamo”), nonché l’istituzione sacerdotale, che consacra le specie eucaristiche, e l’istituzione ecclesiale, che assicura la validità del sacramento attraverso la trasmissione apostolica. E la Chiesa è appunto questa realtà in atto di speranza, vero messianismo, sacramentum futuri.

Quanto alla corrispondenza tra Trinità e carità, essa è quella tra la conoscenza cristiana per eccellenza: il contenuto essenziale teologico o dottrinale, e l’azione cristiana per eccellenza: il contenuto pratico o il percorso spirituale essenziale. “Come Dio è di natura trinitaria, così il cristiano è di natura caritativa. Ciò significa che Dio agisce sempre in modo trinitario e che ciò che “ispira” la sua azione è sempre trinitario. Significa anche che il (vero) cristiano agisce sempre nella carità e che ciò che ispira la sua azione è sempre caritatevole. Ma […] questa natura caritatevole della vita cristiana è inseparabile dalla natura trinitaria della vita divina, e l’esercizio di questa carità è inseparabile dalla conoscenza di questa verità” 13. Per questo la carità, riflesso creato della Trinità increata, deve rimanere determinata dall’Assoluto, altrimenti correrebbe il rischio di porsi come un assoluto, una norma universale, e allora tutta la comprensione umana del cristianesimo sarebbe pervertita, come i nostri tempi sembrano dimostrare, con o senza categorie.

Note

  1. “Problématiques de l’unité des religions”, postfazione a Bruno Bérard, Introduction à une métaphysique des mystères chrétiens, L’Harmattan, 2005; “La religio perennis n’est pas une religion” in, libro collettivo, René Guénon, Frithjof Schuon. Héritages et controverses, L’Harmattan, 2023[]
  2. Da questo punto di vista, una dottrina dell’unità delle religioni è propriamente cristiana: le altre religioni sono “forme più o meno perfette dell’unica religione, che, come dice Sant’Agostino, esiste fin dall’inizio del mondo ed è stata infine rivelata in Gesù Cristo”; cfr. Jean Borella, “Intelligence spirituelle et surnaturel”, in Éric Vatré, La Droite du Père, Enquête sur la Tradition catholique aujourd’hui, Trédaniel, 1994, p.48.[]
  3. Jean Borella, “Problématique de l’unité des religions”, postfazione a Bruno Bérard, Introduction à une métaphysique des mystères chrétiens, Imprimatur du diocèse de Paris, L’Harmattan, 2005[]
  4. “Intelligenza spirituale e soprannaturale”, pp. 48-51.[]
  5. L. Robin, La théorie platonicienne des Idées et des Nombres d’après Aristote, p. 151. “Problématique de l’unité des religions”, op. cit., p. 267[]
  6. “Problématique de l’unité des religions”, pp. 266-270[]
  7. “Intelligence spirituelle et supernaturel”, op. cit., p.54.[]
  8. “Problématique de l’unité des religions”, op. cit., pp. 270-271.[]
  9. cfr. Jean Borella, Problèmes de gnose, op. cit. Presentato sotto forma di “paradoxes maxima”, il nostro libro, Introduction à une métaphysique des mystères chrétien, en regard des traditions bouddhique, hindoue, islamique, judaïque et taoïste (L’Harmattan, 2005, 302 pagine, imprimatur della diocesi di Parigi), ha cercato di presentare questo dogma unico, soprattutto in relazione ai misteri della Trinità e di Cristo; Parte 1: “La Trinità cristiana”, capitolo 1. Risoluzione dei paradossi – approcci concettuali e dottrinali e Parte 3: “Il Cristo cristiano”, capitolo 11. Una sintesi paradossale universale – approcci concettuali e dottrinali. Si veda anche il nostro articolo: “Bisogna essere intelligenti per essere salvati?[]
  10. cfr. Giovanni I, 18: Il Figlio unigenito, nel seno del Padre, è l’Esegesi[]
  11. con Jean Borella, La charité profanée, op. cit., pp.27-30[]
  12. Ibid, p. 27.[]
  13. La charité profanée, p.30.[]