Sintesi recente dei commenti di Jean Borella sull’unità trascendente delle religioni e sulla religio perennis.
Tradotto dal francese da Aldo La Fata e Letizia Fabbro.
Una “unità trascendente delle religioni” è problematica, come ha ripetutamente denunciato Jean Borella. Questo articolo presenta le sue argomentazioni a favore di un’analoga unità delle religioni e le sue opinioni su ciò che una religio perennis non può essere.
- Introduzione
- La religione che nomina le altre
- Il nome porta al confronto
- Il confronto arricchisce l’insegnamento
- I limiti dell’unificazione religiosa
- L’unità analogica delle religioni
- “Tradizione primordiale” o religio perennis?
- Religio perennis, sophia perennis
- La religio perennis non è una religione
- Note
Introduzione
Sulla base di simboli comuni tra le religioni e di generalità metafisiche, si è potuto parlare di “unità trascendente delle religioni”. Ma questo solleva una serie di difficoltà che Jean Borella ha indicato in varie occasioni negli ultimi trent’anni1.
Gli elementi che seguono, dopo Jean Borella, propongono di considerare, più appropriatamente, un’unità analogica delle religioni e di specificare cosa non può essere la nozione di “religio perennis“.
La religione che nomina le altre
La parola stessa “religione”, il latino religio, serviva originariamente solo a designare la pietà, senza riferimento all’adorazione della divinità2 e nessuna lingua prima del cristianesimo aveva un termine specifico per descrivere la religione, per cui il termine è stato utilizzato in molte lingue3.
Questo concetto non è apparso al tempo di Alessandro, nonostante i contatti con quelli che oggi chiamiamo buddismo e induismo, ma è nato con il cristianesimo, come se la “forma” religiosa cristiana rivelasse l’essenza sovra-formale di ogni religione!4.
Inoltre, questo concetto cristiano di religione, che non esisteva in Cina, in India, nel buddismo, in Egitto, in Israele, in Grecia o a Roma, è servito per identificare e dare un nome alle religioni del mondo: il taoismo, l’induismo, il buddismo, persino l’ebraismo, sono tutti post-cristiani, e alcuni (l’induismo, per esempio) sono molto recenti. Tuttavia, l’aggettivo “cristiano” è apparso ad Antiochia intorno all’anno 455 e il sostantivo “cristianesimo” (christianismos in contrapposizione a ioudaïsmos) è ampiamente attestato6 ed era di uso comune alla fine del I secolo7.
Il nome porta al confronto
Oppure il contrario. In ogni caso, il cristianesimo ha tre modi combinabili di collocarsi rispetto alle altre religioni:
- Manifestazioni diversificate della rivelazione primitiva,
- creazioni puramente umane,
- opera del diavolo.
Ognuna di queste ipotesi sembra poter essere vera e falsa allo stesso tempo:
- l’ultima ipotesi ricorda che nessuna religione è esente dagli attacchi del diavolo (cfr. la parabola del grano e della pula), ma presuppone che Dio possa lasciarsi adorare e pregare con le forme insegnate dal diavolo (“un ingannatore così potente da poter soddisfare, attraverso un’illusione invincibile e impercettibile, il bisogno religioso più profondo di tutta l’umanità fin dalle origini”);
- la seconda ipotesi ricorda che tutte le religioni sono certamente ricche di creazioni umane e risentono delle condizioni culturali del loro sviluppo, ma “conferisce alla natura umana una capacità creativa sproporzionata rispetto all’entità dei fenomeni religiosi e all’originalità specifica di ogni religione”;
- la prima ricorda che tutte le religioni “contengono elementi primordiali, come dimostra l’universalità di alcune verità e simboli”.
Tuttavia, al di là degli elementi primordiali comuni, alcune religioni sembrano, senza dubbio, essere state fondate da un rivelatore, come Buddha o il profeta Maometto. Questo non può essere considerato solo una finzione. La tesi di una rivelazione primordiale deve quindi essere integrata da quella dell’intervento divino, diretto o indiretto (angelico). Riconoscere questa “origine divina delle religioni (autentiche) non porta di per sé al relativismo o al sincretismo, poiché ciascuna rimane unica e, in un certo senso, incomparabile“.
D’altra parte, esistono contraddizioni irriducibili:
- Buddha che insegna l’impermanenza dell’atman (il “sé”), in opposizione all’induismo che ne afferma la permanenza e la realtà trascendente.
- il Corano che rifiuta la Trinità cristiana in nome dell’Unità divina (IV, 171; V, 73), così come la divinità di Cristo (IV, 172; V, 17, 72-78; IX, 31-32), che è inseparabile da essa.
Questa contraddizione, in particolare tra il coranico “Dio non ha figli” e “il Verbo fatto carne è Dio”, così com’è, è insolubile. Non resta che cercarne il significato.
Piuttosto che contrapporre le religioni, sembra necessario accettare l’idea di una gerarchia di rivelazioni: la Parola rivelatrice che esprime il Mistero divino in modo più o meno esplicito. Ad esempio, il cristianesimo non rifiuta il dogma fondamentale dell’islam (nessun Dio, a parte Dio), ma al contrario lo afferma (credo in unum Deum: “Credo in un solo Dio”), mentre l’islam non “capisce” Cristo, il Figlio di Dio. Più precisamente, riconosce solo ciò che rientra nella sua prospettiva: Gesù, figlio della Vergine Maria, messaggero di Dio, ma in modo tale che “si potrebbe dire che l’Islam rappresenta ciò che l’abramismo puro può accettare del mistero di Cristo, e che il giudaismo aveva rifiutato”.
Il confronto arricchisce l’insegnamento
Questa semi-negazione – che è anche una semi-affermazione – di Cristo da parte dell’Islam (una religione esplicitamente post-cristiana) è senza dubbio una prova terribile per un cristiano, ma è ricca di insegnamenti: Ci ricorda “la forza inconfutabile dell’istanza monoteista” (di cui l’Islam è testimone); ci insegna “l’insondabile profondità del mistero di Cristo, insondabile perché tutto accade come se Dio avesse dovuto tollerare il suo misericordioso – e momentaneo – velamento agli occhi di alcuni dei ‘credenti'”.
Questo perché il mistero di Cristo “è “parousiaco”: in esso si realizza la perfetta immanenza del divino nell’umano, anticipazione e salvezza del momento finale in cui “Dio sarà tutto in tutti”” (Col III, 11). In altre parole, i cristiani realizzati appartengono già all'”ottavo giorno” del mondo, e l’Islam realizza una certa “verità di fatto” dell’atteggiamento di alcuni cristiani nei confronti di Cristo, quello dell’eresia ariana. Per questo “era in un certo senso impossibile che il cristianesimo fosse la religione definitiva, la religione della fine dei tempi”. Ciò che è definitivamente compiuto nella persona di Cristo non è altrettanto compiuto nella religione cristiana, il cui compito di cristificare il mondo è solo “in via di compimento”; altrimenti, se questo compito fosse compiuto, la religione cristiana avrebbe cessato di esistere.
Così, il cristianesimo è allo stesso tempo più e meno di una religione:
- “più di una religione, perché è incentrato sul mistero di Cristo, l’unità trascendente di tutte le rivelazioni”, nel senso che la “forma” cristiana supera tutte le forme e rivela così “la forma religiosa” in quanto tale;
- “meno di una religione, perché questo superamento comporta una sorta di incapacità relativa di costituirsi realmente come forma storicamente esistente”. La sua natura profetica – che “annuncia la morte del Signore fino alla sua venuta” (1 Cor., XI, 26) – “autorizza” l’esistenza terminale di una forma religiosa: una sintesi minima e stabile della forma religiosa in quanto tale, una religione ridotta all’essenziale.
Il cristianesimo è terminale e insuperabile, in quanto oggi riverbera la luce parousiaca ed eterna: “la luce soprannaturale dell’Apocalisse futura”; e l’Islam è terminale perché rappresenta la forma più semplice del teismo sacro originario8.
I limiti dell’unificazione religiosa
Non possiamo ignorare il carattere congetturale di queste considerazioni, né il fatto che “nella pluralità delle religioni c’è un mistero impenetrabile, il segreto di Dio”. Per questo, non possiamo evitare di provare a pensarci, anche se “pensare è sempre mettersi al posto di Dio”. Ma allora la stessa unificazione del concetto di religione diventa problematica:
- se si tratta di una “unità apofatica delle rivelazioni” (apofatica per ineffabile e sovraintelligibile), stiamo semplicemente affermando l’origine divina delle manifestazioni del sacro, oppure, per lo studente ateo, stiamo semplicemente ratificando una denominazione comune dei fatti religiosi;
- se si tratta di una “unità catafatica delle religioni” (catafatica per un’affermazione positivamente formulabile), ci impegniamo a definire il contenuto intelligibile di tale sovra-religione o inter-religione.
È qui che sorgono difficoltà insormontabili per il cristianesimo. Infatti, è sempre possibile ignorare le contingenze particolarizzanti delle varie religioni (il modo in cui si distinguono fenomenologicamente), ma ciò che non è possibile è ignorare ciò che ciascuna di esse dice di essere essenziale. Ad esempio, tralasciando i fatti storici che costituiscono Shakyamuni per il buddismo e Maometto per l’Islam, possiamo ammettere che queste religioni si uniscono: “il nirvana non è altro che l’estinzione (al-fanā’) di tutto ciò che si afferma illusoriamente come reale al di fuori dell’unico Reale: non c’è altro Dio che Dio”. Eppure il cristianesimo non può essere sottoposto allo stesso trattamento: il suo messaggio è il messaggero stesso; “la contingenza storica particolare in quanto tale si dà come assoluto della rivelazione. Tutte le religioni hanno detto, in una forma o nell’altra, che Dio è Padre o che è Spirito, ma nessuna ha mai detto: Dio è Figlio.
Questo “Dio è Figlio” significa che, attraverso la Trinità rivelata dal Figlio, Dio “diventa” Padre, non solo degli uomini e del mondo, ma soprattutto in quanto Dio genera eternamente Dio; inoltre, poiché Cristo non è affatto un messaggero tra gli altri, ma il Verbo stesso, “diventa” l’esegesi del Padre (Joa., I, 18).
Mentre le altre religioni, per quanto ne sappiamo, non “determinano” l’Essenza divina nella sua essenzialità, ma si accontentano del “Volto” necessario per la nostra relazione con Dio (l’Uno, l’Essere, la Realtà pura, il Creatore e il Ricompensatore…), il mistero trinitario è una “cristianizzazione” dell’Assoluto, che “estende la ‘forma’ cristiana al di là della relazione uomo-Dio”, che “dogmatizza” il cristianesimo a livello dell’Assoluto stesso.
È questo che rende il cristianesimo non integrabile nel concetto positivo di unità delle religioni, se non, ovviamente, riducendolo all’arianesimo.
Poiché una tale reinterpretazione è incompatibile con i dati della Tradizione e della Scrittura, dobbiamo rifiutare la concezione catafatica dell’unità delle religioni e attenerci a una concezione apofatica. Tuttavia, c’è ancora una strada da percorrere che ci permetterebbe di parlare di unità.
L’unità analogica delle religioni
Dal punto di vista filosofico, esistono diversi tipi di unità.
- L’unità generica è quella in cui troviamo un unico genere comune a più specie, come il genere animale, comune al bue e all’uomo (l’uomo non è meno animale del bue, ma aggiunge a questo genere comune una ragionevole differenza specifica); “secondo questo tipo di unità, il termine religione designerebbe un genere comune di cui ogni religione sarebbe una specificazione, nessuna religione essendo più o meno religione di un’altra, più di quanto un animale sia più animale di un altro: Qui il termine religione ha un significato univoco”.
- L’unità puramente nominale si verifica quando non c’è un genere comune tra l’animale “cane” e la costellazione del Cane; qui il termine cane ha un significato equivoco, è un semplice omonimo.
- Esiste un terzo tipo di unità, che non è né univoca come nell’unità generica, né equivoca come nell’unità nominale: è il caso in cui lo stesso nome può essere applicato “a realtà diverse, non perché queste realtà abbiano un genere comune, ma perché hanno una relazione specifica con una realtà primaria in cui l’essenza significata dal nome si manifesta in modo più appropriato e perfetto”. L’esempio classico di questo caso è quello di “sano”, che si dice propriamente e per antonomasia dell’animale, ma anche, e indirettamente, del rimedio o del medico che procura la salute, o dell’urina che ne è il segno. Questa unità può essere chiamata unità analogica – i medievisti la chiamavano così – nel senso di un’analogia di attribuzione: lo stesso termine viene attribuito a realtà diverse in un modo che non è né univoco (nessuna identità o equivalenza generica tra queste realtà) né equivoco, perché, in questo caso, “la comunità dei nomi ha la sua ragion d’essere nel fatto che c’è una certa natura che si manifesta in tutti (i) significati” di questo termine9. Ma questa comunità di natura si manifesta in modo più o meno perfetto, e quindi questa natura prenderà il nome solo dalla realtà in cui si manifesta più visibilmente e a cui appartiene più propriamente. Sarà quindi attribuita ad altre realtà “in riferimento a una prima realtà”, dice Aristotele.
Questi principi possono essere applicati al caso delle religioni, da un lato perché non può esistere un’unità di religioni e, dall’altro, perché l’umanità non conosceva la nozione generale di religione fino alla comparsa del cristianesimo, che le ha nominate tutte.
Ogni denominazione distingue e separa, ma così facendo realizza anche la verità del molteplice, rivelando l’identità singolare di ogni essere. […] Per raggiungere l’autocoscienza, e quindi la consapevolezza della religione in quanto tale, i pensatori cristiani hanno dovuto sperimentare, attraverso il messaggio cristiano, qualcosa che andava al di là di tutto ciò che potevano conoscere nel regno del sacro, cioè non solo il sacro greco, romano o ebraico, ma anche quello indiano, egizio o celtico. Perché le altre forme religiose si costituissero nella loro stessa formalità, cessando di essere modi di vita spontanei, ciechi a se stessi, come il signor Jourdain che scriveva in prosa senza saperlo, dovevano essere definite da ciò che le limitava nel loro stesso ordine, in altre parole, che le trascendeva. [Il cristianesimo è quindi, per il suo stesso aspetto, la rivelazione di tutte le religioni nella misura in cui sono religioni. Alla luce del cristianesimo, o meglio alla luce di Cristo, è stata effettivamente rivelata la natura religiosa delle altre forme, che esse lo sappiano o meno. Questo non significa affatto che egli sia la religione in quanto tale, per la semplice ragione che questa quintessenza della religione non esiste. Inoltre, poche religioni sono così intimamente consapevoli della loro imperfezione formale come la religione cristiana: ciò che vi è di più trascendente – Cristo – non le appartiene e non le apparterrà mai.
Da allora, questa religione precaria, mal definita, che può persino contemplare con una certa “invidia” lo splendore formale, la vigorosa semplicità o il profumo di serenità delle manifestazioni del sacro sulla faccia della terra,
sa anche che è depositaria di un messaggio unico che consiste semplicemente nella venuta di Dio nella nostra carne, non del divino, ma di Dio in persona, non la “discesa” sulla terra di un aspetto divino (avatāra), ma l’assunzione della natura umana da parte dell’ipostasi del Verbo. […] E questa è la ragione della segreta debolezza della forma cristiana10.
Possiamo persino vedere “l’importanza della Chiesa – fenomeno unico nella storia delle religioni – come sostituto di questa forma che, sotto certi aspetti, manca (da qui anche una certa mancanza di senso delle forme sacre, che sembra congenita al cristianesimo)”11.
Certamente questo messaggio di Cristo, entrando nella storia dell’umanità, non poteva non assumere forme, come ogni altra religione, e questo è stato il grande problema del cristianesimo dalle origini fino ai giorni nostri: forme ebraiche, forme pagane, forme moderne, forme postmoderne, ecc. Riformare costantemente significa cercare nuove forme e non accontentarsi di una sola. Stabile nello spazio, il cristianesimo è in perenne erranza temporale. Ma è anche così che conserva il potere di rivelare la natura formale delle manifestazioni del sacro. Come si vede, non è facile essere cristiani, e nemmeno pensare al cristianesimo in sé. E non sto parlando della sublimità dei comandamenti di Cristo, che si possono riassumere così: sto parlando di esistere come cristiano al livello più elementare. Un ebreo o un musulmano si sente ebreo o musulmano quando compie i riti della sua religione, anche se non è un santo. Un cristiano vive sempre nell’estrema incertezza sulla verità cristiana della sua condotta.
Il cristianesimo non è certo l’unità delle religioni, non è la religio perennis12 ma è storicamente la forma primaria in riferimento alla quale solo le altre forme hanno potuto essere nominate secondo la verità della loro natura. Per questo si può dire che l’unità delle religioni è un’unità analogica il cui analogo primario è la religione di Cristo”13.
“Tradizione primordiale” o religio perennis?
Se la nozione schuoniana di religio perennis è associata a quella di Tradizione primordiale di Guénon, è perché entrambe svolgono “più o meno la stessa funzione”. Tuttavia, a causa di alcune importanti differenze, dobbiamo convenire che non si tratta dello stesso concetto14.
- La “Tradizione primordiale” di Guénon si riferisce alla “prima Rivelazione che il Cielo ha inviato sulla terra all’alba della storia umana”. Essa ha preceduto tutte le altre manifestazioni divine ed è posta sotto la tutela di un Re del Mondo che abita nell’Agarttha, e “tutte le forme tradizionali autentiche devono rimanere in comunicazione effettiva con questo Agarttha, che garantisce la loro piena regolarità, nonché la presenza in esse di un vero esoterismo”.
- Schuon confuta dapprima il “Re” del mondo e l’Agarrtha15 e poi rompe con la nozione guénoniana di “tradizione” per tornare al termine “religione”, che è anche associato all’uso di perennis, mutuato dal sintagma occidentale moderno di philosophia perennis.
La religione (o saggezza) perenne di Schuon non è un evento agli albori della storia umana; è una “realtà” metafisica senza tempo che designa l’essenza trascendente della religione in quanto tale, e quindi di ogni religione autentica. Il suo deposito non è affidato a una funzione “amministrativa” che garantisca la regolarità delle forme sacre. Può essere conosciuto da qualsiasi intelletto “gnostico” nello stesso momento in cui abbraccia le religioni storiche e le domina, essendo al di là dei loro inevitabili limiti formali.
Questa concezione della religio perennis “evita”, per così dire, la necessità della rivelazione divina, identificando la gnosi con la rivelazione16, una concezione che “si avvicina a ciò che la filosofia della religione dice sul concetto di religione in generale”. Ma pensare alla nozione di religione in quanto tale è davvero diverso dal pensare al concetto di religione?
Possiamo accettare l’idea che esista un fondamento divino e rivelato nelle forme religiose non cristiane17. A ciò contribuiscono tre considerazioni congiunte:
- È inconcepibile che la bontà divina abbia potuto lasciare milioni di uomini non solo nell’ignoranza della vera religione, ma anche nell’illusione assolutamente impercettibile di una falsa religione. “Questo argomento non è sentimentale, è semantico: il comportamento religioso degli uomini nel corso dei millenni non può in realtà essere privo del significato che gli uomini gli attribuiscono in buona fede.
- La testimonianza dei santi e dei saggi, modelli trasparenti del divino nell’uomo, che in ogni luogo e in ogni tempo “parlano espressamente della consapevolezza della presenza di Dio in loro”, è inconfutabile.
- Ogni religione, considerata nelle sue forme principali (artistiche, rituali, teologiche, spirituali), si presenta con uno stile tutto suo, omogeneo e stabile, umanamente ininventabile. Così, “né la Rivoluzione francese, né la cosiddetta civiltà industriale, né il totalitarismo hitleriano, stalinista o maoista” sono riusciti a sradicare queste “fioriture dello Spirito Santo”.
Religio perennis, sophia perennis
Questo non significa forse che sia possibile porre, al di là e al di sopra delle grandi religioni, una religio perennis “il cui contenuto si identificherebbe con quello della metafisica universale, a sua volta definita come ‘esoterismo assoluto’, e rispetto alla quale le altre religioni non sarebbero altro che ‘miraggi salvifici’, o, al massimo, ‘quadri liturgici'18 di una necessità meramente pratica? Non credo”.
Per quanto riguarda la religio perennis e la sophia perennis, sarebbe forse meglio parlare di religio e sophia “primordialis“, nella misura in cui (tesi di Guénon) si riferiscono rispettivamente alla religione praticata da Adamo nel Paradiso e alla conoscenza che gli apparteneva.
Questa religio adamica è definita da un doppio comandamento positivo (coltivare e custodire il “Giardino”) e da un divieto (mangiare il frutto proibito). Ciò significa che lo stato di conoscenza di Adamo, in cui essere e sapere sono inseparabili e costituiscono un unico “saper esistere”, è in funzione di un atto, l’osservanza della Lex primordialis. Proprio nella misura in cui Adamo ignora attivamente la scienza del bene e del male, il suo sapere è unito al suo essere e agli esseri, ed è, in breve, vera sapienza. Questa unione sapienziale, questa “fusione sofianica” tra l’essere conoscente e l’essere conosciuto non implica tuttavia alcuna confusione19.
Conoscenza paradisiaco (celeste) o adamitica
Come tutte le conoscenze umane, anche quella adamitica contiene un elemento “speculare”, “rappresentativo”, ma questo elemento non appare come tale.
La conoscenza adamitica è come uno specchio che riflette gli esseri e le cose, ignorando attivamente se stesso come condizione di possibilità di questo riflesso: lo specchio intellettivo “dimentica” se stesso nella sua stessa intellezione, assorbendosi interamente nell’atto della sua visione; questo è uno dei significati dell’ignoranza (voluta da Dio) del “frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male”, con cui si intende la conseguenza di un’attualizzazione della dualità in quanto tale, cioè della sua potenzialità separativa.
Se la conoscenza non può unire l’essere conoscente con l’essere conosciuto, è solo perché, “nel suo stesso atto, non è né l’uno né l’altro”. Non diventiamo rosa perché lo sappiamo. Non dobbiamo dimenticare, nella famosa frase di Aristotele: “l’anima è (…) tutto ciò che conosce”, la parola più importante “in un certo modo” (πωϛ). Questo perché questa modalità di identità, detta “intenzionale” (Scolastica), è un’identità cognitiva e non un’identificazione ontologica delle realtà individuate. C’è un “sequestro di un’essenza, astratta dalla cosa conosciuta dall’intelligenza nell’atto dell’intellezione”.
La conoscenza è, appunto, la possibilità miracolosa di tale modalità di identità, una possibilità specificamente legata alla presenza dell’uomo nel mondo. Così, nella conoscenza, l’essere conosciuto e l’essere conoscente escono ciascuno dal proprio situs esistenziale (poiché esistere, per un essere, significa essere situato in un mondo, cioè essere soggetto alle condizioni determinanti di un ambiente, o di uno stato, qualunque esso sia); si aprono l’uno all’altro in un “luogo” che non è esistenzialmente da nessuna parte, la cui natura è di essere un “non dove”, un “non ubi“: la conoscenza, nell’atto di conoscere, è ciò che determina – nella fitta trama di questo mondo dove tutto è sempre “da qualche parte”, cioè esistenzialmente situato (o condizionato) – un’apertura, un “giorno”, alla luce del quale gli esseri e i mondi possono miracolosamente liberarsi dalla loro solitudine ontologica ed esistere gli uni per gli altri.
Se la conoscenza, in quanto tale, è non-situata, essa però si verifica, ed è situata nell’essere in cui si attualizza. A seconda che questa “situazione” sia assunta attivamente o subita passivamente, la conoscenza così situata è operativa e pratica, oppure solo speculativa e teorica, cioè efficace nei confronti dell’essere conoscente e dell’essere conosciuto, oppure no.
“Per un essere realizzare attivamente la propria situazione esistenziale significa esistere secondo la legge del suo essere. La Lex primordialis, nel Paradiso terrestre, è la legge del mantenimento nello stato che gli si conforma: “Realizzare il situs adamitico è rifiutare la conoscenza degli stati inferiori, è mantenere lo stato umano in un atto di contemplazione, rivolto verso il Cielo e gli esseri del suo mondo.
… alla conoscenza dopo la Caduta
Ogni desiderio di “situarsi in relazione ai gradi inferiori, di vedersi come un grado tra una molteplicità di altri, il che implicherebbe uscire da questo stato umano per considerarlo oggettivamente e dall’esterno. Questo sguardo verso il basso, che misura il situs esistenziale, appartiene solo a Dio, perché solo l’Assoluto può conoscere veramente il relativo”.
Questo è il peccato originale, cioè il desiderio di conoscere gli stati infra-umani (infra-paradisiaci), per poter misurare e apprezzare il situs umano e la sua relativa superiorità. Adamo non perde la sua natura umana, ma cessa di assumerla attivamente, cessa di essere all’altezza della sua nobiltà teomorfa. Diventa obbligato a sottomettersi alla propria natura come determinazione e destino estraneo a se stesso. In questa caduta verticale, perde la chiave sofianica della conoscenza, che cessa di essere operativa.
Ciò che rimane di questa conoscenza è la sua dimensione speculare, la capacità rappresentativa dell’intelligenza. Già presente nello stato adamitico, ma poi “assunta” e liberata da se stessa attraverso l’assorbimento del suo contenuto trascendente, questa dimensione speculare della conoscenza si presenta ora come tale e si riduce a se stessa. La Sophia primordialis sussiste dunque, ma solo in modo speculare e riflessivo, come memoria intellettiva, diretta e intuitiva di principi ed elementi metafisici, ed è ciò che chiamiamo philosophia perennis:
- philosophia perché questa conoscenza anela alla sapienza perduta, o ancora perché questa conoscenza metafisica, connaturata all’intelligenza, è accompagnata dalla consapevolezza che questa conoscenza, questa memoria sui dell’intelligenza è, in quanto tale, solo speculare: per speculum in aenigmate, dice San Paolo (1 Cor., XIII, 12);
- perennis, invece, perché questa memoria sui, questa conoscenza metafisica che l’intelletto, sollecitato da un oggetto (naturale o culturale) scopre riflettendo dentro di sé, persiste attraverso (per) gli anni (annos) e i millenni.
La conoscenza si riduce allora al suo modo speculare, poiché “il peccato originale consiste proprio nella volontà dell’essere condizionato di conoscersi come tale, e quindi di ridursi a ciò che lo condiziona”. La conoscenza non scompare per questo, essendo esistenzialmente “delocalizzata”, non situata, senza ubi ontologici, ma, ontologicamente slegata, galleggia, oggettiva e quasi inutile, comunque inefficace, “come una luce che l’essere conoscente porterebbe con sé ma che illuminerebbe sempre e solo luoghi inaccessibili”. Tale conoscenza metafisica non potrà quindi mai più costituire una religio.
La religio perennis non è una religione
“Per restituire alla conoscenza la sua virtù operativa e la sua efficacia salvifica, abbiamo bisogno di un nuovo radicamento ontologico. Abbiamo bisogno di un nuovo situs.
L’uomo caduto è ancora al centro, ma è un centro eccentrico: ha mantenuto la sua centralità, ma ha perso la sua centralità; il mondo non è più concentrico con lui. L’uomo non ha più il suo posto e solo Dio può realizzare questa determinazione sovraintelligente, superare la contingenza indefinita dell’esistenza universale e, “piantando la sua tenda in mezzo a noi” (San Giovanni, l, 14), dirci:
Qui e ora è il luogo della verità della vostra vita; qui e ora ho tracciato la croce che fissa il nuovo giardino della vostra esistenza, quello dove ho costruito il Paradiso ecclesiale che voi coltiverete e custodirete. Se rimarrete in questo nuovo stato, lo stato di grazia misericordiosa, se berrete di quest’acqua, se mangerete del frutto dell’Albero della Vita Immortale, allora la vostra conoscenza riacquisterà il suo potere di trasformazione, allora avverrà la pneumatizzazione del vostro intelletto, allora conoscerete, entrando nelle Tenebre più che luminose del Venerdì Santo, accettando di chiudere gli occhi dell’intelligenza speculativa, la Luce che è al di là di tutte le tenebre e di cui Adamo stesso non vide mai l’Alba.
Non si può quindi parlare, in senso proprio e operativo, di religio perennis, a meno di non dotare la sophia perennis (di fatto ridotta a philosophia, come insegna espressamente Pitagora) di un’efficacia salvifica e deificante che appartiene solo alla religione istituita.
Questo perché la philosophia perennis o metafisica universale, la cui esposizione, peraltro, non si trova da nessuna parte in quanto tale, ma è sempre invischiata in particolari configurazioni concettuali, sussiste nella memoria intellettuale dell’umanità (l’intelligenza e i suoi linguaggi) in una modalità speculativa, astratta, simbolica, “deontologizzata”, e può quindi recuperare la sua operatività ontologica solo per grazia di una nuova “situazione” nell’ordine dell’esistenza. Bisogna partire da qualche parte, da un terreno esistenziale consacrato che è qui e non altrove, mentre il peccato, decentrando cosmicamente l’uomo, ha stabilito l’equivalenza universale di tutti i “qui”, che sono quindi anche “altrove”, essendo ridotti alla pura contingenza della loro puntualità.
In altre parole, ciò che è perenne è ciò che Guénon chiama metafisica teorica. Di per sé, questa metafisica teorica non può essere operativa: lo diventa solo a condizione che la sua universalità (astratta) si innesti nella singolarità di un nuovo albero della vita piantato da Dio sul suolo della nostra esistenza. Da questo punto di vista, l’espressione religio perennis appare un ingannevole miraggio. Si pensa di designare una realtà misteriosa, soggiacente e suprema, la quintessenza operativa di ogni religione, il “segreto del Re”, il sacramentum Regis, di cui parla il Libro di Tobia (XII, 7), e in realtà ci troviamo solo in presenza del concetto di religione in generale. Ora, come il concetto di fuoco non brucia, il concetto di religione non salva. E la bellezza o il prestigio delle formule di cui il concetto si riveste non cambieranno nulla. La religio perennis di cui parla il perennialismo non può essere considerata una vera religione.
Note
- “Intelligence spirituelle et surnaturel”, in Éric Vatré, La Droite du Père, Enquête sur la Tradition catholique aujourd’hui, Trédaniel, 1994; “Problématiques de l’unité des religions”, prefazione a Bruno Bérard, Introduction à une métaphysique des mystères chrétiens, L’Harmattan, 2005; “La religio perennis n’est pas une religion” in René Guénon, Frithjof Schuon. Héritages et controverses, L’Harmattan, 2023.[↩]
- “un insieme di osservanze, regole e divieti, senza riferimento né all’adorazione della divinità, né a tradizioni mitiche, né a celebrazioni di feste”, cfr. Brelich.[↩]
- Tedesco, inglese, italiano, danese, spagnolo, estone, indonesiano (religiusitas), lettone, lituano, olandese, norvegese, polacco, portoghese, rumeno, sloveno, svedese…[↩]
- Da questo punto di vista, una dottrina dell’unità delle religioni è propriamente cristiana: le altre religioni sono “forme più o meno perfette dell’unica religione, che, come dice Sant’Agostino, esiste fin dall’inizio del mondo ed è stata infine rivelata in Gesù Cristo”; cfr. Jean Borella, “Intelligence spirituelle et surnaturel”, in Éric Vatré, La Droite du Père, Enquête sur la Tradition catholique aujourd’hui, Trédaniel, 1994, p.48.[↩]
- Atti degli Apostoli, XI, 26[↩]
- S. Ignazio di Antiochia, Epistole ai Magnesi, X, 1, 3; ai Romani, III, 3; ai Filadelfi, VI, 1[↩]
- Jean Borella, “Problématique de l’unité des religions”, postfazione a Bruno Bérard, Introduction à une métaphysique des mystères chrétiens, imprimatur du diocèse de Paris, L’Harmattan, 2005.[↩]
- “Intelligence spirituelle et surnaturel”, op. cit., pp.48-51.[↩]
- L. Robin, La théorie platonicienne des Idées et des Nombres d’après Aristote, p. 151; “Problématique de l’unité des religions”, op. cit., p. 267.[↩]
- “Problématique de l’unité des religions”, pp. 266-270, corsivo mio.[↩]
- “Intelligence spirituelle et surnaturel”, op.cit., p.54.[↩]
- che è solo la proiezione mitologica e illusoria di un concetto (cfr. le rispettive teorie di Guénon e Schuon).[↩]
- “Problématique de l’unité des religions”, op. cit., pp. 270-271.[↩]
- cfr. “La religio perennis n’est pas une religion” in René Guénon, Frithjof Schuon. Héritages et controverses, L’Harmattan, 2023. Testo riassunto nei paragrafi seguenti[↩]
- termine sconosciuto sia in sanscrito che nella tradizione tibetana; cfr. l’articolo decisivo del tibetologo Marco Pallis, nella raccolta René Guénon curata da Pierre-Marie Sigaud: “Le Roi du Monde et le problème des sources d’Ossendowski”, l’Âge d’Homme, 1984, pp. 145-154.[↩]
- anche se la “tradizione primordiale” di Guénon può essere paragonata alla tradizione adamitica del giudeo-cristianesimo[↩]
- “pur rimanendo convinti che in nessun luogo c’è qualcosa di equivalente alla dottrina trinitaria o all’incarnazione del Verbo in Gesù Cristo, così come non c’è nulla di equivalente ai sacramenti che prolungano l’incarnazione sacrificale del Verbo “fino alla consumazione dei tempi” (Mt., XXVIII, 20).[↩]
- espressioni di Schuon[↩]
- Adamo, conoscendo l’essenza degli esseri paradisiaci, riconosce anche che nessuno è simile a sé (Gen., II, 20), e quindi si distingue da loro[↩]