Articolo recente, ispirato dalla frase provocatoria di un amico.
Tradotto dal francese da Aldo La Fata e Letizia Fabbro.
Sotto questo titolo provocatorio si nascondono una serie di proposte per affinare la definizione di metafisica, in particolare in relazione alla religione.
Questa frase coniata da un amico ha il vantaggio di ricordarci alcuni punti chiave della metafisica.
Il primo è che la metafisica è stata duplice fin dall’inizio: da un lato, il fondatore della scienza concludeva dall’osservazione del mondo fisico che esiste una causa prima metafisica (Aristotele) e, dall’altro, la formazione filosofica della scoperta che il significato non è creato, ma ricevuto – e riconosciuto – nell’intelligenza (Platone).
In altre parole, possiamo distinguere tra una “metafisica scientifica”, basata sull’osservazione del mondo esterno e fondata sulla razionalità, e quindi una metafisica piuttosto concettuale, e una metafisica più “intuitiva”, quella dell’intuizione intellettuale, fondata sull’osservazione del funzionamento interno dell’intelligenza-ricezione e del mondo delle Idee, sulla conoscenza dell’ordine semantico, trascendente l’ordine cosmico.
In entrambi i casi, l’origine della metafisica è precedente a quella che oggi chiamiamo religione, ma l’ambiente culturale è “religioso”, diciamo pio. In altre parole, la “religione” o la pietà permeavano tutto il pensiero, anche se formalmente era un costrutto razionale. Così, un Aristotele avrebbe visto l’intelletto come proveniente “dall’esterno” o “dalla porta” (in quanto addirittura eterno) e avrebbe chiamato “teologia” quella parte della metafisica che si occupa del “primo motore”.
Da allora, le religioni si sono costituite – costituite come tali dopo l’avvento del cristianesimo1 – ma non si sono subito affermate su larga scala. Così, al tempo di Origene, un secolo prima del cosiddetto “Editto di Milano”2, e prima che la civiltà bizantina e latina diventasse interamente cristiana, c’era ancora questo clima “pagano” un po’ decadente in cui si erano affermate le religioni dell’Impero romano, con tutta una serie di idee e concezioni che dovevano essere corrette prima di poter insegnare la fede cristiana. Per questo Origene propose per prima cosa, a titolo di purificazione, un lungo periodo di lavoro che comprendesse l’istruzione morale, lo studio delle arti e di tutte le opinioni trasmesse dalle scuole di filosofia, “come un buon aratore fa con la terra incolta” (cfr. Gregorio Taumaturgo, Grazie a Origene, VII, 93).
In seguito, metafisici come Cartesio o Leibniz potevano essere semplicemente cristiani cattolici per il loro background culturale.
D’altra parte, questa purificazione dell’intelletto, preliminare a qualsiasi insegnamento di natura spirituale, si è rivelata indispensabile nel XX secolo, quando le religioni sono diventate molto meno importanti nel pensiero contemporaneo, diciamo nell’episteme media occidentale dell’epoca, sotto i colpi del materialismo e dello scientismo in particolare. La funzione di Guénon era quindi quella di offrire una prospettiva metafisica, sia nelle sue critiche al mondo moderno che allo pseudo-esoterismo o al Vedanta. Ma questo è un prerequisito, e Guénon consiglierebbe di aderire a una religione.
Quindi, non sorprende che i metafisici contemporanei siano tutti di fede affermata, persino convertiti, che si tratti di René Guénon, Frithjof Schuon, Titus Burckhardt, Leo Schaya (Islam), Léon Ashkenazi (Ebraismo), Ananda Coomaraswamy (Induismo) o Jean Borella (Cristianesimo).
Questo perché la metafisica integrale richiede necessariamente radici religiose. E, in effetti, cos’è un “al di là” speculativo, cioè ignaro di qualsiasi rivelazione, se non un semplice gioco concettuale? Non riuscirà mai a riconoscere un “teofanico”, cioè a conoscerlo per poterne parlare.
Da quel momento in poi, la religione non è una metafisica pratica, nel senso che capiremmo che potrebbe esistere una metafisica pratica che non sia religiosa. Ogni religione, invece, è sia metafisica che pratica. La sua prassi (riti, sacramenti) rimanda direttamente – o anche simbolicamente – a una metafisica, che può essere implicita o esplicita a seconda della capacità espressiva e intellettiva di ciascuno; diciamo pure che il contenuto metafisico della religione è esplicito (opposizione tra cielo e terra, caduta, redenzione e salvezza, ecc.), anche se non è formulato in termini astratti e filosofici. In ogni caso, le due dimensioni convergono: la pratica risveglia l’intelligenza metafisica e il risveglio metafisico rafforza la partecipazione alla pratica. Ciò che è certo è che non è necessario essere intelligenti (nel senso di intellettuali, ovviamente) per essere salvati ((“Faut-il être intelligent pour être sauvé?“/”Bisogna essere intelligenti per essere salvati?”, rivista web Contrelittérature del 10 maggio e del 15 ottobre 2009). La tradizione cristiana orientale ne è una buona illustrazione, con Padri come Clemente, Origene, Gregorio di Nissa, Dionigi l’Areopagita e Massimo il Confessore intorno alla scuola alessandrina, che sostengono un’esegesi allegorica della struttura della realtà3 seguendo una tradizione che si può definire “metafisica” e, dall’altra parte, la cosiddetta scuola “antiochiana”, che si limitava a una lettura più letterale delle Scritture e rifiutava di impegnarsi troppo in speculazioni di natura metafisica. Tuttavia, tra le sue fila si annoverano la maggior parte dei più grandi spiritualisti della Chiesa orientale, a partire da Isacco il Siro e senza dimenticare San Giovanni di Dalyatha.
Se si ha la fortuna – o la sfortuna – di essere intelligenti, ci sembra che sorga una domanda cruciale: esiste un prerequisito per “entrare” nella metafisica?
È l’intelligenza scientifica e razionale che ci porta a Dio (alla Aristotele, certo in modo riduttivo) o è l’intelligenza intuitiva che riconosce un essere trascendente, una sorta di teofania (alla Platone)? Nel primo caso, si rischia di rimanere con una metafisica speculativa puramente intellettuale, scollegata a priori dalla metafisica particolare delle religioni, quando, aderendo alla raccomandazione guénoniana, ci si unisce a una di esse, con la motivazione di beneficiare di una “influenza spirituale”. C’è una sorta di arroganza in questa “presa di possesso” volontaristica del proprio destino spirituale che significa “manipolare le forze spirituali”, rispetto alle rinunce e agli abbandoni che sono indispensabili per qualsiasi stazione spirituale. Tanto più che lo “Spirito soffia dove vuole” (Gv III, 8).
In entrambi i casi, fortunatamente, possiamo pensare che all’origine ci fosse un’effettiva capacità di “sentire”, attraverso un’intuizione sovra-razionale, la realtà dello spirituale.
- Così, il termine “timore” (yara) in ebraico, che secondo i Proverbi è “l’inizio della saggezza” (Pr. I, 7), è talvolta associato al verbo “vedere” (ra’a) ed è sempre stato inteso nella tradizione antica come una certa sensibilità alle realtà spirituali, contrapposta all’espressione biblica “indurimento del cuore”.
- Possiamo anche, con Isacco il Siro (Opere spirituali, II, 1, 2), chiamare “speranza” questa visione, che non è il contenuto della fede confessionale e concettuale, ma questa speranza senza oggetto diretto, senza contenuto mentale, a parte questa certezza nel solo fatto che c’è la salvezza.
- La stessa idea è presente nel caso della vocazione monastica, dove l’emergere di un desiderio profondo di dedicarsi totalmente allo spirituale è sempre correlato da una certa esperienza di Dio, poiché possiamo desiderare solo ciò che abbiamo già gustato (un assioma ben illustrato da alcune comunità copte, che pongono come condizione per i candidati che desiderano unirsi a loro “aver sentito almeno una volta la grazia di Dio nel cuore”, unico criterio per discernere l’autenticità di una vocazione monastica).
- E leggiamo in Pascal, citando Bernardo di Chiaravalle: “Non mi cerchereste se non mi aveste già trovato”.
Non resta allora che abbandonare ogni metafisica – anche la più sublime – e diventare quasi nulla, “una scorza d’essere profumata di speranza”4
Note
- vedi l’articolo “Jean Borella, sull’unità analogica delle religioni”[↩]
- nome tradizionalmente dato a un rescritto del 313, emanato dai co-imperatori romani Licinio e Costantino, che stabiliva la libertà di culto e la restituzione dei beni e segnava il passaggio tra l’antichità pagana e l’era cristiana[↩]
- Ad esempio, Massimo, nella sua Mistagogia, commentando il simbolismo della Chiesa (edificio) e della liturgia, sovrappone, per analogia con l’uomo e il cosmo, i tre livelli della realtà.[↩]
- Conclusione di Métaphysique pour tous (L’Harmattan, 2022), p. 145)/ Sui sentieri della metafisica, intervista a Bruno Bérard (2024).[↩]