Articolo del 2007, non pubblicato in precedenza.
Tradotto dal francese da Aldo La Fata e Letizia Fabbro.
In un precedente libro di Jean Borella, Problèmes de gnose, c’è un capitolo VI intitolato “gnosi e gnosticismo in René Guénon”. Questa presentazione permette non solo di approfondire la distinzione tra gnosi e gnosticismo nell’opera dello stesso Guénon, ma anche di caratterizzare la dottrina guénoniana della gnosi, a partire dalla nozione puramente metafisica di possibile.
Questa difficile questione di Possibilità e Realtà merita ancora di essere esplicitata, e questo è lo scopo di questo articolo. Poiché il nostro unico obiettivo è quello di rendere più accessibile il testo di Jean Borella, non abbiamo introdotto nulla che non fosse presente nel testo originale e abbiamo fatto del nostro meglio per non alterarlo in alcun modo. Si tratta comunque di un riassunto, il cui capitolo VI, con le due appendici, è di 75 pagine.
Possibilità universale e possibilità pura
La conoscenza è una funzione della realtà. La dottrina guénoniana intende precisare la funzione della gnosi come conoscenza. È una funzione del reale. Pertanto, ciò di cui l’uomo ha effettiva conoscenza è pienamente reale; il resto è solo possibile. La conoscenza è quindi “realizzativa”, ma non in modo idealistico (non crea il reale), bensì perché il reale è correlativo all’atto di conoscenza. Inoltre, la critica filosofica non ha mai mancato di sottolineare che porre un reale in sé significa dimenticare l’atto che lo pone.
Ecco perché affermare il Reale assoluto e infinito pecca per eccesso e per difetto: per eccesso, perché, essendo relativo, dice più di quanto gli spetti; per difetto, perché l’Assoluto si riduce a un’affermazione. Questa seconda difficoltà viene meno quando ci si rende conto che è l’Assoluto stesso ad affermarsi in ogni individuo (il Verbum illuminans). La risposta originale di Guénon alla prima difficoltà si trova in Les états multiples de l’être.
La possibilità universale come determinabilità del principio.
Guénon inizia facendo questa famosa distinzione tra Infinito e Possibilità universale. Perché lo fa? La Possibilità Universale è “il minimo di determinazione […] richiesto per […] rendere l’Infinito effettivamente concepibile”1. L’Infinito, che può essere tutto, è quindi non contraddizione (ciò che è contraddittorio è im-possibile) e va oltre l’essere (la prima di tutte le determinazioni)2. La possibilità universale non è quindi una determinazione, ma “la determinabilità universale del Principio” (le “citazioni” senza riferimento sono, alla parola, di Jean Borella).
Il possibile e il reale. La possibilità si oppone alla realtà nel senso che ciò che è possibile è ciò che può essere realizzato. Tuttavia, Guénon afferma che “la distinzione tra il possibile e il reale […] non ha alcun valore metafisico, poiché ogni possibile è reale a suo modo e secondo il modo che la sua natura implica” 3. Ciò è in linea con l’insegnamento della Scolastica: lasciamo il possibile (l’aggettivo) a favore del possibile (il sostantivo), in quanto tale, e possiamo quindi prescindere dalla sua possibile realizzazione.
Possibilità relativa e possibilità assoluta. Per continuare questa definizione del possibile, distinguiamo tra possibilità relativa e assoluta. La possibilità di volare è relativa all’uccello, la possibilità di parlare è relativa all’uomo. Invece, la possibilità di un quadrato o di un cerchio dipende dalla sua definizione, dalla sua essenza: è una possibilità assoluta (o intrinseca, o logica, o metafisica). Il possibile è quindi il non contraddittorio o il concepibile (un cerchio quadrato non è concepibile). Se siamo atei o materialisti, è sempre così: il possibile è il pensabile. Se accettiamo Dio Creatore, i possibili sono, inoltre, le essenze (o Idee, o modelli, o archetipi) secondo cui il Verbo divino pensa ogni cosa. Come dice la teologia, la Parola è il “luogo delle possibilità”.
Possibilità universale e possibilità infinita. Secondo un’espressione presa in prestito da Padre Sertillanges, dobbiamo dire che, per S. Tommaso d’Aquino, Dio è un infinito di possibilità (al singolare): l’infinita possibilità in Dio è Dio stesso4. Possiamo precisare, seguendo S. Tommaso, che poiché “Dio conosce la sua essenza come imitabile in tale e tale modo da tale e tale creatura, la conosce [quindi] come ragione e Idea propria di quella creatura”5. “I possibili in Dio sono reali dalla realtà stessa di Dio, e quindi Guénon ha ragione a sostenere che, metafisicamente, la distinzione tra reale e possibile non è valida”. L’infinito della possibilità (di San Tommaso) e la possibilità universale (di Guénon) sembrano così simili che si potrebbe pensare che Guénon abbia preso in prestito questi elementi dalla dottrina tommasiana (anche se la conosceva solo molto superficialmente).
Le possibilità privative di Schuon. Passando ora alle “possibilità di non-manifestazione”, possiamo accennare brevemente alle obiezioni di Frithjof Schuon, per il quale esse sono, molto empiricamente, solo “possibilità di assenza”: un tale cestino può contenere mele (possibilità di manifestazione) o essere vuoto (possibilità di non-manifestazione). Questa “possibilità privativa” rivela la tendenza ontologizzante (e catafatica) dello schuonismo, mentre per Guénon le possibilità di non-manifestazione vanno infinitamente oltre il livello dell’essere6.
Il possibile non è il contingente. Per Schuon, il possibile è “ciò che può essere o non essere”7. Se questa è una definizione possibile nel linguaggio quotidiano, non può essere utilizzata in filosofia. Aggiungere “o non essere” significa definire qualcos’altro: la “o” significa eventualità, contingenza, non necessità. E infatti la Scolastica (quando si tratta delle modalità di giudizio) distingue due coppie di opposti: possibile o impossibile (a seconda che un’essenza sia concepibile o meno), necessario o contingente (i “giudizi di esistenza”: ciò che non può non essere e ciò che non può essere).
Possibilità di non-manifestazione e possibilità pura. Anche l’argomentazione di Guénon è simile a quella di San Tommaso: poiché Dio è un infinito di possibilità, è impossibile che questo infinito si esaurisca nella sua manifestazione creata 8. Ci sono quindi in Dio quelle “pure possibilità” che Egli “ha deciso di non realizzare mai”9. Tommaso si basa sulla Scrittura: “[Dio] chiama il non esistente come l’esistente (ta mè ontas ôs onta)”, che, nella versione latina che Tommaso legge, significa: “Dio chiama le cose che non sono, così come quelle che sono (Deus vocat ea quæ non sunt, tamquan ea quæ sunt)”. Ciò significa che “le cose che non sono” “sono tuttavia in potere di Dio” perché Egli le “chiama”. “Dio conosce tutto […] anche se queste cose non esistono in atto”10. Prive di esistenza creata, queste cose non sono prive di essere (a differenza delle possibilità privative schuoniane).
Le possibilità pure non sono increabili. Tuttavia, queste somiglianze tra le possibilità di non-manifestazione e le possibilità pure dovrebbero essere studiate più da vicino11. Letteralmente, mere possibilia significa “il puramente possibile” (mere è un avverbio). I possibilia sono le Idee di tutto ciò che esiste, è esistito o esisterà nella creazione; i meri possibilia sono quindi le Idee che eternamente non hanno altra realtà che quella di essere possibilità divine. Corrispondono quindi ai non entia di San Tommaso, non i non enti che non hanno esistenza attuale (ma sono esistiti o esisteranno), ma quei non enti che non sono mai stati, sono o saranno12. In altre parole, ciò che la teologia cristiana (una questione molto dibattuta nel Medioevo) indica come puri possibili, le possibilità di creazioni che non saranno create. Ciò significa che non possono più essere totalmente identificati con le possibilità guénoniane della non-manifestazione.
I possibili puri sono conoscibili, che “esistano” o meno. I possibili puri sono quindi creabili, altrimenti cosa potrebbe significare l’idea stessa di possibilità? Soprattutto, se non lo fossero, ciò significherebbe porre un limite a priori al potere divino, perché non è in virtù della loro natura che sono increabili, ma in virtù del decreto della volontà divina.
Così, come l’artigiano conosce ciò che non ha ancora creato, “la conoscenza [che Dio ha della cosa] è indifferente all’esistenza o alla non esistenza della cosa”13. Detto altrimenti, “la forma intelligibile in questione [il puramente possibile] è lo stesso intelletto divino, e quindi conosce se stesso da sé”14.
La “materia prima” non è quindi un increabile. Noële Maurice-Denis15, pensava che alcune delle pure possibilità di Tommaso potrebbero essere intrinsecamente irrealizzabili: “Alcune possibilità rispondono a principi metafisici che non possono essere creati […] (come nel caso della materia prima), mentre altre, che sarebbero intrinsecamente creabili, non lo sono di fatto”16. Queste sono le possibilità reali della non-manifestazione guénoniana, e Noële Maurice-Denis cerca, sotto l’influenza di Guénon, di tirare S. Tommaso in questa direzione, nonostante abbia scritto testi espliciti sull’argomento, e persino un’intera sezione della Summa Theologica, dimostrando che la materia prima (materia prima) è creata17. “Ciò che è vero è che la materia prima non è creata come realtà indipendente e separata, poiché non può esistere da sola, ma solo come ciò che è informato dalla forma, come condizione di esistenza della forma (per tutti gli esseri composti da forma e materia)”: “se la materia è in qualche modo qualcosa dell’essere, è causata da Dio, è creata, o meglio co-creata con la forma 18. Essa possiede quindi in Dio un’Idea o modello, cioè è un certo modo di somiglianza dell’essenza divina19.
‘Creabile’ eternamente increate! Un creabile eternamente increato è una nozione intelligibile? Per quanto riguarda gli esseri naturali, non sembra, perché è impossibile che ciò che può accadere non accada mai (dato un tempo sufficiente)20. Nell’ordine divino, invece, la considerazione dell’infinità divina ci costringe ad ammettere che nessuna creazione può esaurire le possibilità di similitudine secondo le quali Dio è partecipabile (questa è la ragione principale dell’esistenza dei puri possibili). Inoltre, poiché i puri possibili sono creabili (eternamente increati), è dunque la libera decisione di Dio (la sua volontà) a decidere tra i creabili increati e i creabili creati (e non la natura di ciascun possibile, poiché, a priori e in termini di creabilità, nulla distingue gli uni dagli altri). Solo la libertà divina, alla radice dell’essere del creato, rende conto della contingenza della creatura, che non ha la sua ragion d’essere in sé (nella natura del possibile che manifesta). Questa è l’unica soluzione, anche contro Guénon21.
Che l’increabile non possa essere creato è una tautologia. Se questo è vero, le possibilità di non-manifestazione sono di per sé (e non per decisione divina) impossibili da manifestare. È quindi inutile spiegare la loro realtà principiale contrapponendo l’infinità della Possibilità universale alla finitudine della manifestazione. Eppure è quello che fa Guénon, inutilmente, poiché la natura stessa di queste possibilità spiega la loro assenza nella manifestazione. Altrimenti, dire che l’increato non può appartenere alla creazione sarebbe pura tautologia. Perché la finitudine del creato escluda da sé un insieme di possibilità, queste possibilità devono essere creabili!
Libero arbitrio divino o necessità guénoniana? “Appellarsi” alla libertà divina può sembrare una scappatoia unita all’antropomorfismo. Ma il discorso umano è in grado di dire di più? Riconoscere i limiti delle nostre speculazioni […] resterà sempre preferibile alle pseudo-soluzioni di una metafisica troppo formale [e permette di introdurre] nel discorso dottrinale il riserbo e la riverenza che risparmiano esplicitamente l’inesprimibile”. Guénon non lo dimentica, ma il suo discorso, “che pretende di essere supremo e insuperabile, dà piuttosto l’impressione di poter dire tutto”. “La dipendenza della creabile creata dal decreto divino di esistenza […] esprime la contingenza radicale di tutta l’esistenza creata”. Perché si crea un creabile e non un altro sarebbe come chiedersi: perché questa cosa o quell’essere è quello che è? Non c’è risposta a questa domanda: alla radice della creazione c’è qualcosa di incomprensibile, un segreto che appartiene solo a Dio”22.
In Guénon, invece, tutto è regolato da una logica ferrea, una sorta di necessitarismo molto simile a quello di Spinoza, almeno per alcuni aspetti. Da un lato, tutte le possibilità sono dotate di una natura determinante che controlla il destino di ciascuna di esse, dall’altro, Dio non ha, in un certo senso, più nulla da fare: il manifestabile si manifesta in virtù della sua natura, e viceversa per il non manifestabile23.
La metafisica guénoniana è troppo insiemistica. Questa logica guénoniana è impeccabile? Se la metafisica di Guénon non è puramente formale, è per lo meno “insiemistica”. Egli definisce gli insiemi secondo una gerarchia di inviluppi e una coerenza difficili da cogliere. Potremmo anche chiederci se questi insiemi corrispondano a realtà (hanno un significato ontologico?), o se siano solo nominali e speculari, cioè una questione di “punto di vista”.
Una logica insiemistica contraddittoria. Guénon prevede due insiemi: l’immanifestato e il manifestato 24. Così sia! Ma questo si oscura non appena egli parla dell’Essere. L’Essere è il “principio della manifestazione” e, “allo stesso tempo”, include “in sé tutte le possibilità di manifestazione […], ma solo nella misura in cui si manifestano”. Al di fuori dell’Essere, dunque, c’è tutto il resto, cioè tutte le possibilità di non-manifestazione, insieme alle possibilità di manifestazione stesse nella misura in cui sono allo stato non-manifestato; e l’Essere stesso è incluso in questo”, poiché, in quanto principio, non può manifestarsi 25. Quindi l’Essere è, per così dire, fuori di sé, escluso dalla sua stessa possibilità!
Ma non è tutto. Leggiamo più avanti che “la manifestazione comprende ovviamente solo la totalità delle possibilità di manifestazione nella misura in cui si manifestano”; cosa che è stata detta prima dell’Essere. La logica insiemista di Guénon sembra nascondere delle contraddizioni.
Alcune semplici tautologie. Da quel momento in poi, siamo portati “a supporre che le categorie [di Guénon] siano piuttosto dei punti di vista, […] dei modi di considerare le cose senza portata ontologica, delle istanze classificatorie, insomma che appartengano al modo speculare“26. Questo spiegherebbe perché lo stesso insieme di possibilità può appartenere a due classi diverse a seconda che lo si consideri da due punti di vista diversi. Così, il manifestabile, nella misura in cui non si manifesta, appartiene all’immanifestato e, nella misura in cui si manifesta, appartiene alla manifestazione. Questo è esattamente ciò che dice Guénon, come abbiamo appena visto.
Due domande. Innanzitutto, “che cosa diciamo quando affermiamo che il manifestabile, in quanto immanifesto, appartiene all’immanifesto? Niente, è pura tautologia” (l’immanifesto appartiene all’immanifesto). Allora, se questa interpretazione, in termini di punto di vista, è corretta, non ne consegue che le stesse entità (le possibilità di manifestazione) sono previste sia come manifestate sia come immanifestate, senza che il punto di vista cambi nulla della loro natura? Ora, se questi due stati del manifestabile (uno stato di manifestazione e uno stato di non-manifestazione) sono diversi solo a seconda del punto di vista da cui vengono considerati, allora ciò non è compatibile con l’appartenenza di un possibile al manifestato o al non-manifestato solo in base alla sua natura. Con la natura, infatti, si abbandona l’interpretazione speculare o “prospettivista” e si ritorna all’interpretazione ontologica.
Molte difficoltà sarebbero state evitate se Guénon avesse usato un linguaggio più filosofico che matematico (insiemistico), se avesse tenuto meglio conto del significato del concetto di possibilità e se avesse avuto una solida dottrina della creazione. Semplicemente, le possibilità di manifestazione, nella misura in cui sono possibilità, sono sempre immanifestate!
Un circolo vizioso. E lo stesso vale per l’Essere (“almeno come lo vede Guénon: una riduzione onto-cosmologica dell’esse tommasiano”). Una soluzione sarebbe stata semplicemente quella di porre l’Essere come intermediario o “istmo” tra l’increato e il creato: “immanifestato come principio, conferisce la sua impronta ontologica a ogni esistente che, in un certo modo, rimane compreso in esso”. Infatti, “l’Essere guénoniano è piuttosto l’Essere della manifestazione” (il manifestabile è diventato manifesto). La trascendenza dell’Essere, certamente affermata da Guénon, sembra però qui scomparire a favore dell'”idealità speculare di un punto di vista”.
Così, Guénon indica che le distinzioni che facciamo tra Non-Essere ed Essere (non-manifesto e manifesto), “lungi dall’essere irriducibili, esistono solo dal punto di vista relativo da cui sono stabilite, e […] acquistano questa esistenza contingente, la sola di cui sono suscettibili, solo nella misura in cui noi stessi gliela diamo con la nostra concezione”27. Ma per assumere questo punto di vista, dobbiamo già aver fatto la distinzione tra lo stato immanifestato e lo stato manifestato dell’essere umano, “e quindi essere già soggetti all’illusione di cui ci viene detto che il punto di vista umano è responsabile. In breve, si tratta di un circolo vizioso o di un regresso ad indefinitum.
Non esiste un super punto di vista. La vera domanda è: dov’è Guénon quando descrive la distinzione dei gradi della realtà e la loro suprema non-distinzione? Sta vedendo sia dal punto di vista umano sia dal punto di vista del Non-Essere? Ne è sicuramente convinto il lettore, che ora vede anche le distinzioni abolite (dal Non-Essere) e le distinzioni fatte (dal relativo umano). Qui il lettore ha semplicemente dimenticato che lui stesso è solo un punto di vista. E pensa di beneficiare di questo punto di vista panottico, anche se, come essere umano, Guénon glielo vieta!
La “realizzazione discendente” guénoniana è la soluzione? Possiamo basare questa visione panottica sulla “realizzazione discendente” guénoniana?28. Secondo A. K. Coomaraswamy, citato da Guénon, “la fine del cammino non è raggiunta finché l’Atma non è conosciuto sia come manifesto che come immanifesto”. In particolare, e questa è la “realizzazione discendente”, è necessario realizzare “l’Atma incorporato nei mondi”. “Questo insegnamento è tanto più accettabile in linea di principio perché non ci sembra estraneo a quanto Cristo insegna in S. Matteo (VI, 33). Matteo (VI, 33): ‘Cercate prima il Regno e la sua giustizia, e il resto vi sarà aggiunto’ (o, interpretato metafisicamente: ‘cercate prima l’Assoluto – e il relativo vi sarà aggiunto’)”.
Ma come si può conciliare una tale realizzazione con la nullità del manifesto? Perché, dice Guénon, “non dobbiamo mai perdere di vista il fatto che, agli occhi dell’Infinito, tutta la manifestazione è rigorosamente nulla”29. Eppure, per andare fino in fondo, dovremmo ora conoscerlo nella sua stessa verità! Guénon, infatti, scopre questa incongruenza e finisce per dichiarare “che non si può dire, in ultima analisi, che il manifestato sia rigorosamente trascurabile”30.
Metafisica guénoniana: gnosi o gnosticismo?
Il non-manifesto è concepibile solo a partire dal manifesto. Nonostante le difficoltà poste dalle possibilità del non-manifesto, la dottrina di Guénon afferma che possiamo concepirle: possiamo “concepire la possibilità del vuoto, o di qualsiasi altro dello stesso ordine”, come il silenzio, l’oscurità o lo zero metafisico (i quattro non-manifestabili citati da Guénon); ma non possiamo concepirli “in modo distintivo”31. Anzi, essi sono, come insegnano Guénon e i Vedânta, nirvishésha: “privi di distinzione”32. Nonostante ciò, il modo in cui Guénon ne parla implica la loro distinzione: sono, dice, tanti “aspetti” del Non-Essere, “ciascuno dei quali è una delle possibilità che contiene”33.
Se leggiamo attentamente il testo, “ci rendiamo conto che il non-manifestabile è concepibile solo a partire dal manifestabile”. Nel caso del silenzio, Guénon spiega in modo notevole il rapporto tra parola e silenzio, e conclude che questo permette di “concepire delle possibilità di non-manifestazione che corrispondono, per trasposizione analogica, a certe possibilità di manifestazione”34. Nonostante questa sintassi inusuale (dove “per trasposizione analogica” sembra voler dire che il silenzio immanifestato corrisponde al discorso manifestato), sembra che Guénon intenda piuttosto che il discorso manifestato, per trasposizione analogica, corrisponde al silenzio immanifestato (dal basso verso l’alto). Questo sembra essere confermato dai testi: “il discorso è solo silenzio affermato” e il silenzio “è anche qualcosa di più (e persino infinitamente di più)”. Non è solo “la parola inespressa”, ma anche “l’inesprimibile”35.
Una “possibilità inesprimibile” non è espressa da un manifesto. Cosa intende allora Guénon? È necessario per capire cosa sia una possibilità di non-manifestazione? Che una possibilità inesprimibile non sia espressa da un discorso sarebbe di nuovo tautologico. Può essere che la possibilità-parola sia espressa dalla parola manifestata? Certamente no! “Ogni parola manifestata è solo un’immagine lontana e carente della parola increata (la “parola-essenza”). “La prova è che questa Parola essenziale è la Parola divina: la Parola nel Principio che, in quanto tale, non può essere manifestata (“Nessuno ha mai visto Dio”, Gv I, 18)”, ma che, nell’ordine della natura, è “fonte di innumerevoli manifestazioni di se stessa, mentre, nell’ordine della grazia, si è “pronunciata”, indirettamente “molte volte e in molti modi” (Eb I, 1), e, direttamente, nella forma cristica”.
Dio è un’infinità di creabilità. Quindi, è la parola-possibilità – e questo vale per tutte le possibilità – che, in quanto tale, è inesprimibile. “Le possibilità di manifestazione, in quanto possibilità, sono non-manifestabili come il non-manifestabile guénoniano36. Ciò che si manifesta, ciò che vediamo nel nostro mondo, non sono queste possibilità, ma le creature di cui sono l’esemplare divino. Siamo autorizzati a concludere che tutte le possibilità, siano esse possibilità pure o relative, sono creabili, o per sempre increate o esemplari di creature. Poiché Dio è un infinito di possibilità, è, allo stesso modo, un infinito di creabilità.
Dio non è un creabile, ma un partecipabile. Ma se Dio è un infinito di creabilità, non è affatto un infinito di creabili – e questo senza bisogno di tornare agli increabili radicali di Guénon. Questo perché l’essenza divina è infinitamente partecipabile; è questo che le permette di rimanere infinitamente trascendente rispetto a ogni partecipazione che, per definizione, è sempre finita. “La trascendenza assoluta implica rigorosamente l’immanenza infinita”. In altre parole, il Bene infinito è auto-diffusivo (o “Dio è amore”, come dice San Giovanni), cioè trabocca all’infinito di tutte le sue effusioni d’amore.
Non c’è dunque contraddizione nella dottrina teologica cattolica, purché la si segua fino in fondo: l’essenza divina non è il “luogo” metafisico in cui scompare tutta la creazione, ma il luogo in cui la creazione raggiunge la sua vera realtà37.
Ma di cosa sta parlando Guénon? Al contrario, la concezione guénoniana, non nelle sue intenzioni ma per il modo in cui viene presentata, non porta forse “a una sorta di annullamento del Principio divino”? Certo, i riferimenti alle dottrine indiane potrebbero far pensare che si parli di Dio, ma questo non è forse dovuto alle nostre “abitudini mentali religiose”, visto che il suo libro (Les états multiples…) non cita quasi mai il nome di Dio? E, se lo fa, se ne scusa38. Per entrare nella prospettiva guénoniana, quindi, dobbiamo smettere di interpretare le parole Infinito, Possibilità universale, Non-Essere, Essere in termini teologici. Guénon non ci parla di Qualcuno che trascende tutti i modi di espressione e rimane al di là di ogni linguaggio, l’Altro per eccellenza; ci parla di stati d’essere senza mai chiedersi di quale essere stia parlando. Il suo discorso non ha un referente, o meglio, è autoreferenziale. Parla dell’uomo, di Dio, di un altro essere? Indifferentemente di tutti; “l’uomo” è solo uno stato dell’essere in un numero indefinito di altri, e anche “Dio”. Anche l’Infinito, la Possibilità Universale, il Non-Essere non sono altro che stati d’essere, categorie gerarchiche di una realtà anonima. Sono solo punti di vista.
Questo è l’approccio di Guénon, concepito in modo radicale. Esso esige “uno sradicamento totale dell’essere” del suo lettore; egli deve abbandonare ogni situs esistenziale e immergersi “nell’immensità indefinita di una realtà senza nome e senza gravità”.
Guénon: metafisica religiosa o non-teismo radicale? C’è un’ambiguità, di cui sembra necessario essere consapevoli. I termini infinito, possibilità, non-essere, essere ed esistenza sono semplici concetti filosofici e, se scritti con l’iniziale minuscola, rivelerebbero più apertamente il carattere speculativo del discorso di Guénon. Adornarli con l’iniziale maiuscola, come fa Guénon, equivale a farne delle quasi-divinità metafisiche che portano il loro nome o, almeno, delle denominazioni quasi teologiche39. Inoltre, malgrado il suo invito a liberarsi dal discorso “religioso”, Guénon parla di metafisica con un linguaggio “religioso”! Da quel momento in poi, ciò che era puramente speculativo assume un aspetto “teistico” e le nozioni vengono dotate di uno sfondo misterioso e trascendente.
Questa sacralizzazione “teistica” dei concetti metafisici è facile da individuare quando Guénon sottolinea che l’Infinito e la Possibilità “sono Brahma e la sua Shakti”40, o quando sottolinea le capacità “sussuntive” delle categorie di Non-Essere, Essere o Possibilità universale. In effetti, queste categorie svolgono un ruolo molto attivo: “comprendono”, “escludono”, “determinano”, ecc. come vere e proprie divinità metafisiche – proprio come ogni vincolo sintattico che attribuisce il valore di agente al soggetto di un verbo d’azione (actiones sunt suppositorum, “le azioni sono proprietà dei supposti”, cioè degli “esseri personali”). Tanto più che, sebbene Guénon si preoccupi talvolta di parlare non dell’Essere, ma del “grado dell’Essere puro” 41, non solo scrive “Essere” con la maiuscola, ma lo identifica direttamente con “Ishwara”, il Signore Creatore della tradizione indù42, che può essere tradotto “meno inesattamente” con “Dio”43. “Così, a meno che non ci si sbagli, l’esposizione guénoniana oscilla tra una presentazione eventualmente “teistica” e una presentazione puramente metafisica, in cui i vari gradi hanno solo un significato speculare” (si tratta solo di punti di vista). In ultima analisi, tenendo conto degli avvertimenti di Guénon che l’interpretazione teistica sarebbe una “falsa interpretazione, con conseguente sostituzione di ‘un essere’ all’Essere puro” 44, diremo che “è la specularità metafisica a prevalere”, e quindi un non-teismo radicale, confermando viceversa la solidarietà che unisce l’ontologico al teologico.
Guénon: una metafisica della conoscenza. Cosa giustifica una simile prospettiva? Anche se si dice che è autofondata, possiamo almeno interrogarci sul suo significato. Ci sembra che l’impresa guénoniana non sia una metafisica dell’essere, ma una metafisica della conoscenza, una gnosi. Quando i gradi dell’essere diventano punti di vista, l’ontologia scalare diventa ontologia speculare (se di ontologia si può ancora parlare).
Staccata da ogni legame ontologico, senza situs esistenziale – come abbiamo detto – la natura del discorso guénoniano riflette il miracolo dell’intelligenza: “nella misura in cui la conoscenza è l’atto comune del conoscente e del conosciuto, in questo atto il soggetto non è più in sé, poiché, in un certo modo, diventa l’oggetto, e l’oggetto non è più in sé poiché, in un certo modo, è nel soggetto. E questo miracolo della conoscenza, di ogni conoscenza, si realizza con il miracolo dell’intelligenza. L’intelligenza in quanto tale è “fuori dal mondo”, e per questo è universale. “L’intelligenza è il non-soggetto, è l’apertura, il vuoto, il varco che il Creatore apre nel soggetto soffiandogli in faccia lo spiraglio della vita, il “soupirail” attraverso il quale il mondo, uscendo dal suo situs esistenziale, può entrare nell’ordine della conoscenza e nascere all’intelligibile”. Da quel momento in poi, è il sapere stesso a diventare l’unico referente; “non è più l’essere oggettivo che determina il sapere, ma il sapere che trasforma l’essere possibile in essere determinato, e così lo comprende e lo trascende”. Questo è esattamente ciò che Guénon intende quando parla di ‘realizzazione attraverso la conoscenza’” e, ancor più, che ciò che la conoscenza realizza è la realtà stessa. In altre parole, il termine “realtà” ha un significato reale solo in termini di conoscenza. “Conoscere” ed “essere” sono due facce della stessa realtà”45.
L'”essere oggettivo” guénoniano è, a rigore, solo una possibilità. Significativamente, è alla fine de “I molteplici stati dell’essere” che Guénon scrive che “è questo il luogo per precisare un po’, d’altra parte, il modo in cui va intesa l’identità metafisica del possibile e del reale: poiché ogni possibilità è realizzata dalla conoscenza, questa identità, presa universalmente, costituisce propriamente la verità in sé, poiché la verità può essere concepita precisamente come la perfetta adeguazione della conoscenza alla Possibilità totale”46. “Se abbracciamo davvero questa dottrina, allora, dobbiamo smettere di considerare l’essere oggettivo, l’oggetto della conoscenza, come un reale che precede l’atto che ne prende conoscenza. L’essere oggettivo accede all’ordine del reale solo attraverso il ministero realizzativo della conoscenza. Prima di questa consapevolezza, l’essere oggettivo è, a rigore, solo una possibilità” – tanto più che questo “essere oggettivo” appartiene anche al Non-Essere.
Ma la conoscenza è mediata e indiretta. Dobbiamo riconoscere che ogni discorso metafisico con finalità ontologiche può essere una menzogna o un’illusione, poiché non ne facciamo esperienza. Ma questo non significa che siamo condannati all’agnosticismo, poiché “la sola idea di Dio, eterno, infinito, onnipotente, comunica alla nostra mente qualcosa della sua realtà”. Questo perché la conoscenza ordinaria è mediata e indiretta (“enigmatica e speculare”47, come dice San Paolo), che di per sé “richiama una conoscenza superiore, una conoscenza sacra, attraverso la quale ciò che era solo intravisto diventa effettivamente e pienamente reale, e che conferisce così il suo vero significato alla parola “realtà””.
Il significato accettabile di “possibilità di non-manifestazione”. Questa dipendenza della realtà dalla conoscenza non è roba da idealismo classico: la conoscenza non ha potere creativo. Il punto di partenza non è un soggetto conoscente, posto in solitudine, alla maniera del cartesianesimo (ma Cartesio era un cartesiano?) e della sua estensione kantiana. Non è il soggetto che è primario (come nell’idealismo soggettivo), né l’oggetto (come nell’oggettivismo realista), è la conoscenza “in sé”: il luogo stesso in cui si svolge la realtà48. D’altra parte, c’è questo orientamento ontologico di ogni finalità conoscitiva, questa intelligenza che è il senso dell’essere (l’essere ha senso solo per l’intelligenza), questo ontotropismo fondamentale di ogni atto intellettivo, e dobbiamo renderne conto. Questo è ciò che, secondo Guénon, si realizza nell’avvento della “realtà” come realizzazione dell’essere attraverso la conoscenza (se, almeno, abbiamo compreso la sua dottrina).
“Questa, crediamo, è la giustificazione di questa dottrina. Da ciò deriva il diritto di parlare della possibilità della non-manifestazione, dandole un significato accettabile. Il motivo per cui Guénon non le chiama realtà, pur appartenendo al Reale principiale, è perché sono solo possibilità, in termini di realizzazione attraverso la conoscenza. “In altre parole, in una prospettiva in cui la conoscenza è tutto, tutto è solo possibile, realizzabile attraverso la conoscenza. È quindi necessario indicarle come tali al lettore, allontanando il “cosismo oggettivista” di ogni discorso e introducendo l’esigenza della realizzazione. È questa, ci sembra, la ragione profonda che legittima la modalità espressiva adottata da Guénon. Questo spiega anche perché Guénon inizia Les états multiples… distinguendo la “Possibilità universale” dall’Infinito. Perché il Tutto è previsto dal punto di vista della conoscenza (della sua conoscibilità) e come realizzabile attraverso la conoscenza. Così facendo, Guénon stabilisce la conoscenza (o gnosi o metafisica) “come il modo senza modo in cui si verifica la Realtà integrale”. In questo modo, l’universalizzazione dell’intelletto conoscitivo diventa un tutt’uno con l’infinità del suo “contenuto”49.
La conoscenza di Guénon è quella che conosce Dio! Se proviamo a confrontare la teologia cristiana e la dottrina guénoniana, scopriamo che ciò che Guénon dice della conoscenza è esattamente ciò che San Tommaso dice della conoscenza divina, tranne ovviamente per il fatto che i puri possibili sono creabili. Infatti, questi puri possibili sono reali nella conoscenza che Dio ha di essi (la sua “scienza dell’intelligenza semplice”) e, soprattutto, non preesistono alla conoscenza che Dio ha di essi, ma sono rigorosamente contemporanei all’atto eterno in cui Dio li conosce. “Infine, e ci fermiamo qui, l’intelletto divino, come l’intelletto universale di Guénon, è perfettamente identico al suo contenuto intelligibile e non può essere distinto da esso”.
Né Dio, né uomo; e buddhi e oltre buddhi. La via guénoniana della gnosi, dunque, “astrae da ogni distinzione a priori tra la conoscenza di un Dio e quella di un uomo”. Questa conoscenza, ripetiamo, “si pone in sé e prima in relazione alla molteplicità degli stati dell’essere anonimo, che sono altrettante partecipazioni realizzative alla sua permanente attualità”, e attraverso tutti i suoi “gradi che non cambiano nulla della sua natura essenziale”.
Resta il fatto che questo discorso è rivolto agli esseri umani, per cui è necessario fare appello all’esperienza umana della conoscenza: un atto dell’intelligenza. Guénon, quindi, si riferirà tanto alla buddhi, l’intelletto, quanto alla propria trasposizione al di là della buddhi, quando si tratta di una conoscenza universale e incondizionata, cioè non più soggetta ad alcuna condizione, sia essa “divina” 50!
L’intelligenza è portata dentro l’essere umano. Se l’intelligenza rimane informale nella sua essenza, è sempre, nelle sue manifestazioni effettive, “rivestita di una forma determinata” e, soprattutto, “portata in essere dalla persona umana” (soggettivizzata in una persona). Riducendo tutto a modalità di intellezione, Guénon ignora praticamente l’essere umano in quanto tale. E mentre parla regolarmente di stato “umano”, lo stato d’essere umano (una natura) non può essere equiparato all’essere dell’uomo (un esse). Di fatto, questo “essere” è evocato solo come condizione ontologica minima necessaria per costituire un’istanza speculare. E in effetti, in questi molteplici stati dell’essere, “c’è molto più ‘stato’ che ‘essere'”. “Essere uomo non significa, per l’essere, assumere una forma transitoria e contingente, esistendo contemporaneamente in una molteplicità di altri stati. È essere ‘fatto a immagine di Dio’, ed è in quanto tale che l’uomo può accedere agli stati gerarchici della creazione, tutte le cui modalità sono virtualmente incluse in lui: il microcosmo riassume il macrocosmo. L’uomo non è solo una forma individuale, transitoria e contingente, poiché con il suo teo-morfismo trascende e riunisce in sé l’intero universo. L’uomo”, dice Pascal, “trascende infinitamente l’uomo”.
L’essere umano non può essere ridotto all’intelletto. In una parola, la considerazione dell’ontologia speculare si basa su una riduzione dell’essere umano all’intelletto. Solo in questo caso “uno stato d’essere può essere identificato con un modo di conoscenza, e questo modo di conoscenza può, se necessario, essere considerato come realizzante l’identità dell’essere conoscente e dell’oggetto conosciuto”. Altrimenti – e questo è il senso della dottrina di Aristotele, sempre imprecisamente citata da Guénon 51 – la conoscenza è l’atto comune di chi conosce e di chi è conosciuto solo se questo atto comune è quello dell’intelletto e dell’intelligibile, e non quello dell’essere che intellige52 “È perché l’intelletto non è l’essere che intellige (ma solo una facoltà di questo essere) che può, nel suo atto, identificarsi con ciò che intellige”. Ricordiamo questo banale paragone: non è l’occhio che vede, ma l’essere umano dotato di vista; è nell’essere umano che avviene l’atto della visione, cioè della conoscenza visiva, e quindi quella visione viene all’esistenza. Lo stesso vale per l’intelletto, che non ha alcun essere se non come facoltà di un essere reale ed esistente53.
La conoscenza è divina per essenza, umana per modalità. Per questo l’essere (esse) non può essere ridotto a un grado di conoscenza, anche se dobbiamo interpretare l’ontologia scalare in termini speculari per comprendere la gerarchia degli esseri (il situs onto-cosmologico di un essere ha la sua ragione sufficiente e corrisponde a un certo stato di conoscenza). Ma, per tutte le creature, l’essere (esse) è qualcosa di più radicalmente decisivo, poiché, appunto, è per il loro essere (esse) che le creature sono creature, mentre per il loro modo di conoscere, al contrario, si potrebbe quasi dire che appartengono all’increato: ogni conoscenza essendo rivelazione dell’essenza come di un partecipabile divino54.
Così, la nostra conoscenza è sia principiale e divina nella sua sostanza, sia relativa e indiretta nel suo modo; “non è dunque il modo di conoscenza che, da solo, può rendere conto della determinazione dei gradi di realtà, è l’esse di ogni creatura che stabilisce la sua appartenenza a tale o tale grado di realtà e, di conseguenza, determina il suo modo di conoscenza”.
Dio può essere conosciuto solo da se stesso. Principale e divina, la conoscenza è possibile proprio nella misura in cui, come dice Guénon, è un “aspetto dell’Infinito” 55, cioè l’aspetto sotto il quale l’Infinito conosce se stesso. Da questo punto di vista, non esiste altra conoscenza se non quella di cui Dio si conosce come possibilità infinita e, di conseguenza, ogni conoscenza, sia essa umana o angelica, è nella sua essenza eterna o, se si preferisce, atemporale.
Inoltre, in che senso ciò che è puro atto, e quindi immutabile, potrebbe subire l’evento che costituisce per Lui il fatto di essere conosciuto? Questo evento non può colpirlo, ma non può esserne estraneo (l’atto di conoscenza non avrebbe luogo). Per questo dobbiamo ammettere che “Dio può essere conosciuto solo da se stesso”, e quindi che l’evento della teognosia non è qualcosa che “accade a Dio”, ma un evento eterno. “La realtà dell’evento noetico non può che essere la folgorazione, in uno specchio intellettivo, dell’attualità permanente della conoscenza che Dio fa di sé nella sua Parola, quella Parola che è il luogo delle possibilità e in cui ogni evento noetico ha luogo. Ed è perché in Lui la conoscenza, la gnosi, è eternamente compiuta che può realizzarsi in ogni momento in ogni intelligenza aperta alla sua luce”.
La conoscenza è il Padre che genera il suo Verbo. Come la grazia assiste la natura, l’intelletto umano “diventa” ciò che era: luce nella Luce. Ogni volta che si verifica un “evento di gnosi”, “che non è altro che una possibilità dell’Infinito stesso, ogni volta che la suprema Tearchia realizza il mistero della sua nuova ed eterna nascita a se stessa, ogni volta che il Padre genera il suo Verbo, il suo unico e amato Figlio, nell’unità del suo Spirito”.
Per l’uomo, l’essere precede la conoscenza. Solo la considerazione della natura creata dell’essere umano può rendere conto della conoscenza umana nella sua modalità. “Ora, considerare l’essere umano nel suo stato creaturale […] è anche lasciarsi alle spalle la speculazione ed entrare finalmente nella realtà” (la nostra condizione esistenziale), rompendo “con una certa illusione del discorso metafisico”. Perché “è proprio qui che ha origine questa illusione”: “tutta la conoscenza essendo nella spontaneità e nell’immediatezza del suo atto”, il tempo della lettura e della meditazione, essa “ci fa uscire dal mondo condizionato, facendoci vivere con oggetti puri”. Da qui, più che in ogni altro campo, la necessità di “appesantire il volo della speculazione metafisica con il peso dell’essere”. La conoscenza deve essere legata “all’essere del conoscente, che è qui, sulla terra, e in nessun altro luogo, dove Dio lo ha fatto nascere, dandogli il potere di spuntare dal nulla”.
Metafisicamente, la Creazione va oltre il punto di vista della manifestazione. Prendere in considerazione l’essere della creatura significa allo stesso tempo prendere in considerazione l’Essere divino creatore che porta l’essere dal nulla. La dottrina della manifestazione non dice nulla al riguardo! Peggio ancora, secondo Guénon, la differenza tra “manifestazione” e “creazione” è la stessa che esiste tra esoterismo ed exoterismo, o tra “il punto di vista metafisico e il punto di vista religioso”56. Il creazionismo volgare potrebbe per certi versi suggerire che la dottrina della creazione sia una riduzione, ad uso della maggioranza, della dottrina della manifestazione. Ma se prendiamo la dottrina della creazione al suo livello più serio, ci rendiamo conto che essa “supera in fecondità speculativa”, metafisicamente e su almeno un punto, la dottrina della manifestazione:
Parlare di una “manifestazione”, di ciò che si manifesta, significa infatti considerarlo dal punto di vista dell’essere umano. Questo antropocentrismo è forse più metafisico del teocentrismo creazionista? Soprattutto, “la dottrina della manifestazione vede il rapporto tra il Principio e i suoi effetti cosmici come un rapporto di continuità: ciò che si rivela nel manifesto è l’essenza (il possibile o archetipo) contenuta nell’immanifesto”. Ora, questo è sia un insegnamento scritturale (“Dalla creazione del mondo”, dice San Paolo, “ciò che di Dio era invisibile è stato reso visibile dalle sue opere a chi ha intelligenza”, cioè “la sua eterna potenza e divinità”: Rm I, 20) sia un insegnamento teologico formale (Dio è una “possibilità infinita”, le creature hanno un “essere increato”)57. “Il punto di vista della creazione include quindi ciò che di più metafisico c’è in quello della manifestazione”. Ma vi aggiunge esplicitamente qualcosa: la considerazione dell’essere (esse) in quanto tale, dell’essere come differenziale dal nulla, come esse ex nihilo (non c’è altro modo di raggiungere la prima intuizione dell’essere che “coglierlo” come non-esistenza, come “ciò che fa salienza dal nulla”58. Così, la considerazione dei gradi dell’essere è relativa e secondaria rispetto all’intuizione dell’esse, perché, anche se la manifestazione nella sua totalità è solo un’illusione, questa illusione deve ancora essere.
Dio non è solo colui che rende manifesto il tale e tal altro essere, “è colui che “dà tutto l’essere” alla creatura: l’essere è il dono permanente di una salienza dal nulla; l’esse è, fondamentalmente, ex nihilo – cosa che si può dire anche dell’Essere divino, ma allora il Nihil assume un significato completamente diverso 59. Come si vede, la dottrina della creazione dà accesso a un’intuizione dell’essere che è veramente metafisica”60.
È l’alterità che rende concepibile l’atto di conoscenza. Parlare dell’essere come dono significa parlare di un donatore che è l’Essere stesso “e ‘Più dell’Essere’, poiché proprio Lui può donarlo”. Questo dono dell’essere dal nulla introduce una discontinuità tra il creato e l’increato, una discontinuità ontologica che è raddoppiata da una continuità eidetica (dell’eidos, essenza o Idea, manifestata quaggiù, immanifestata “lassù”). È questa discontinuità che costituisce la base del situs esistenziale della creatura, e dalla quale soltanto la creatura può rivolgersi al Principio. “Questa alterità spiega il suo orientamento verso l’Identità che la trascende, spiega la sua tensione noetica e spirituale verso l’Oggetto trascendente – un’alterità senza la quale l’atto stesso della conoscenza sarebbe inconcepibile”.
La dottrina della creazione esprime la dipendenza del creato dall’increato, che nessuna metafisica può negare, ma soprattutto parla di un dono che Dio non fa per riprenderselo. Un vero dono è ciò che fonda la libertà della creatura!
La dottrina della creazione rende conto della possibilità della gnosi. “La dottrina della creazione, lungi dall’opporsi all’esercizio della gnosi, cioè della conoscenza sacra, ci sembra l’unica che possa rendere conto della sua possibilità, perché introduce, all’interno del processo conoscitivo che spontaneamente identifica e assimila, l’elemento dell’alterità senza il quale la conoscenza, atto naturale dell’intelligenza, non può nascere dalla consapevolezza di un bisogno di andare oltre se stessa. Insegna alla creatura che il suo situs esistenziale, quello da cui guarda verso il Principio, è al di là del processo cognitivo (l’essere del conoscente non è conoscenza), e le insegna anche che il suo Oggetto ultimo è al di là della sua portata. Ci insegna a lasciar andare noi stessi, ad aprire i concetti – etimologicamente, le “prese” – con cui operiamo. Gli insegna a rinunciare alle proprie costruzioni, agli enunciati del suo discorso, e a risvegliarsi a un’altra modalità di conoscenza, una conoscenza a parte, separata, sacra, umanamente incoativa, incompleta, espropriata di se stessa, una conoscenza che non appartiene più a se stessa perché il suo contenuto trabocca da ogni modalità concettuale e che attende il suo completamento in una speranza e in una fede inestinguibili; ma un sapere comunque, un’intelligenza che sperimenta se stessa nelle sue profondità più intime, nel suo cuore, come inesprimibilmente connaturata con ciò che contempla, nell’oscurità, dentro di sé” (corsivo aggiunto).
Note
- Les états multiples de l’être, Éd. Véga, Paris, 1947, pp. 19-20.[↩]
- Ciò che Guénon chiama “Non-Essere” e Schuon “Super-Essere”[↩]
- Les états multiples…, op. cit., p. 118[↩]
- Jacques Chevalier, Histoire de la pensée, Flammarion, t. II, p. 777[↩]
- Summa di Teologia I, q. 15, a. 2.[↩]
- Les états multiples..., pp. 31-38.[↩]
- Du divin à l’humain (Dal divino all’umano), p. 50.[↩]
- Cfr. Contra Gentiles I, 66, § 4; anche, Penser l’analogie, pp. 89-117.[↩]
- Sulla verità, D. 2, a. 8. Testo principale di San Tommaso su questo argomento[↩]
- S. th. I, Q. 14, a. 9.[↩]
- Somiglianze che non siamo i primi a scoprire; per esempio, si veda lo studio di François Chenique, “Possibilités de non-manifestations et purs possibles” in Sagesse chrétienne et mystique orientale, Dervy, 1996, cap. XVII[↩]
- Sulla verità, Q 2, a. 8; Bonino, p. 303.[↩]
- Sulla verità, Q 2, a. 8; Bonino, p. 304.[↩]
- S. Th. I, Q. 14, a. 2.[↩]
- Incontrò Guénon alla Sorbona nel novembre 1915 e, nella sua tesi di dottorato in filosofia scolastica (L’Être en puissance d’après Aristote et saint Thomas d’Aquin, pubblicata nel 1922, Éd. Marcel Rivière) utilizzava già il vocabolario di Guénon, come le “possibilità di non-manifestazione”, diversi anni prima che Guénon le esponesse esplicitamente in L’homme et son devenir selon le Védânta. (Cfr. Xavier Accart, Guénon ou le renversement des clartés, Edidit, Paris, Archè, Milano, 2005, p. 62[↩]
- L’essere in potenza secondo Aristotele e San Tommaso d’Aquino, pp. 185-186.[↩]
- Nella sezione 2 della Domanda 44 (Parte 1), chiede: “La materia prima è creata da Dio? Ecco la sua risposta: Dio è causa non solo della forma dell’essere, di cui la materia è priva, ma anche dell’essere stesso; e la materia è l’essere, per quanto piccolo; “è dunque necessario affermare che anche la materia prima è creata dalla causa universale degli esseri”. E allo stesso modo, nella Questione 46, articolo 1, a coloro che sostengono che né la materia né il cielo potrebbero essere stati creati, risponde che “la materia e il cielo sono stati creati dalla creazione”[↩]
- Serge Bonino, De la Vérité, Q. 2, le Cerf, p. 234[↩]
- Quæstio de Potentia, Q. 3, a. 1, ad 3m. “Sebbene, a causa della sua potenzialità, la materia sia ben lontana dall’assomigliare a Dio, tuttavia, nella misura in cui ha l’essere per questa stessa potenzialità, conserva una certa somiglianza con l’essere divino”; S. th. I, Q. 14, a. 11, ad 3m.[↩]
- S. Th. I, Q. 48, a. 2. Stessa tesi in Aristotele: Sul cielo I, 12, 283a24;GF, p.91.). In un senso leggermente diverso, cfr. Leibniz, Discours de métaphysique et autres textes, GF, 2001, pp. 327-333[↩]
- “Ogni possibilità di manifestazione deve necessariamente manifestarsi; […] al contrario, ogni possibilità che non deve manifestarsi è una possibilità di non-manifestazione”; Les états multiples…, p. 26[↩]
- per entrare in questo segreto, dobbiamo rinunciare al perché). Un cristiano platonico, preoccupato della ragione dell’esistenza di una creatura, la trova nelle Idee o possibilità divine. Questo è un buon modo per tornare indietro. Ma allora cosa? Possiamo ancora chiederci: perché la rosa dei principi? Una domanda irrisolvibile che ci mette di fronte a una contingenza essenziale. Rinunciare al perché significa rinunciare al pensiero, che dice sempre “cosa” o “perché”. Pensare qualcosa è pensare la sua possibilità. Giunto all’essenza, il pensiero chiude gli occhi e tace. Stupefatto dalla suprema ainsità di tutte le cose, si libera da se stesso[↩]
- Guénon afferma la contingenza della manifestazione nel cap. XVII del suo libro, ma è una contingenza di principio che non riguarda l’esse del creato[↩]
- “L’immanifestato comprende ciò che possiamo chiamare l’immanifestabile, cioè le possibilità di non manifestazione, e il manifestabile, cioè le possibilità di manifestazione nella misura in cui non sono manifestate”; Les états multiples…, p. 33. Il manifestabile, nel suo stato immanifestato, è ciò che Guénon chiama “possibilità pura”, accuratamente distinta dalle possibilità della non-manifestazione (ibid., p. 124).[↩]
- Ibid., p. 31.[↩]
- Sottolineatura aggiunta.[↩]
- Ibid. p. 90-91.[↩]
- “Realizzazione discendente e ascendente”, cap. XXXII di Initiation et réalisation spirituelle (Iniziazione e realizzazione spirituale), Éditions Traditionnelles, 1952, pp.215-229[↩]
- Les états multiples…, p. 101.[↩]
- Initiation et réalisation spirituelle, p.217.[↩]
- Les états multiples…, p.34.[↩]
- L’homme et son devenir selon le Védânta, 1974, p.26. Shankara, rolégomène au Vedânta (Prolegomeni al Vedânta), I, 5a sezione, § 12, e 6a sezione, § 11; trad. it. Louis Renou, Adrien Maisonneuve, 1951, p.55 e p.69[↩]
- Les états multiples…, p.36.[↩]
- Ibid., p.37.[↩]
- Ibid., pp.36-37.[↩]
- in questo senso, l’assimilazione delle possibilità di non-manifestazione di Guénon ai possibili puri della Scolastica – tesi di Chenique – è in fondo legittima. Ma Guénon l’avrebbe senza dubbio rifiutata[↩]
- Questo importante punto metafisico è stato affrontato in diversi nostri libri, in particolare Le sens du surnaturel, pp. 235-248, e Penser l’analogie, pp. 96-109.[↩]
- Parla “in termini teologici solo per facilitare il confronto che si può fare con i punti di vista abituali del pensiero occidentale”![↩]
- Non si tratta, ovviamente, di un inganno, essendo Guénon una mente retta[↩]
- Les états multiples…, p. 21, n. 1. La difficoltà sta nel sapere chi interpreta chi. E non è reversibile: Brahma dice qualcosa che l’Infinito non dice, e che ci mette più immediatamente al cospetto del mistero divino[↩]
- Les états multiples…, p. 11.[↩]
- L’homme et son devenir selon le Védânta, 1952, p. 76 e passim.[↩]
- Ibid., p. 25.[↩]
- Ibid., p. 30, n. 2.[↩]
- Ibid., p. 116[↩]
- Ibidem. Questa spiegazione è stata annunciata a p. 28, n. 1.[↩]
- 1 Cor. XIII, 12[↩]
- abbiamo cercato di sviluppare questo punto in un articolo, “Connaissance et réalisation”, pubblicato in Connaissance des Religions, vol. III, n. 2-3, settembre-dicembre 1987, pp.13-26. Alcune delle analisi contenute in quell’articolo non corrispondono più allo stato attuale del nostro pensiero[↩]
- Les états multiples…, p.118.[↩]
- Ibid., p.117 con nota 1.[↩]
- Les états multiples…, pp.110-111.[↩]
- Aristotele dice esattamente questo: “l’anima (intellettiva) è, in un certo modo (pôs), tutti gli esseri”. E aggiunge: “non è la pietra (conosciuta) che è nell’anima (conoscente), ma la sua forma”; Sull’anima, III, 8, 431b e 432a. Guénon cita questo testo in modo impreciso (dimenticando il pôs), ad esempio in Introduction à l’étude des doctrines hindoues, 1952, pp. 144-145. Si veda anche : Ésotérisme guénonien et mystère chrétien, pp. 42-43.[↩]
- “Sarebbe meglio, infatti, non dire che è l’anima (intellettiva) che compatisce, impara o riflette, ma che è l’uomo a farlo, attraverso la sua anima”, Sull’anima, I, 408b, 15.[↩]
- è in questo senso che S. Tommaso può dichiarare che l’intelletto agente è come una luce derivata da Dio (quasi lumen derivatum a Deo), che viene riassunta da Étienne Gilson: “Questa luce intellettuale che è in noi non è altro che una somiglianza partecipata della luce increata, e, poiché la luce increata contiene le essenze eterne di tutte le cose, si può dire, in un certo senso, che noi conosciamo tutto negli esemplari divini”; Le Thomisme, 1942, p.297. ; cfr. S. Tommaso, S. Th., 1, Q.84, a.5. O che il Maestro Eckhart possa affermare che c’è “nell’anima una potenza (l’intelletto) – e se l’anima fosse tutta così sarebbe increata e increabile. Ma ora non è così”; Sermone 13; Traités et sermons, trans. A. de Libera, GF, pp. 304-305[↩]
- Les états multiples…, p. 91.[↩]
- “Création et manifestation”, ristampato in Aperçus sur l’ésotérisme islamique, Gallimard, 1973, p. 93[↩]
- S.Th, I, Q.18, a.4; cfr. La charité profanée, pp.341-343[↩]
- Penser l’analogie, pp. 76-80.[↩]
- Ibid., pp. 92 sq.[↩]
- E forse Aristotele avrebbe incontrato meno difficoltà nella ricerca di una “scienza dell’essere in quanto essere” se avesse avuto l’idea della creazione ex nihilo.[↩]