Introduzione

È comune in filosofia distinguere tra Umwelt (“ambiente diretto” o, meglio ancora, “il proprio mondo”1, in cui vivono gli animali, e Welt (mondo), che solo gli esseri umani sono in grado di comprendere come tale2. E, se lo percepisce, al di là di una Weltanschauung limitata, è in virtù di un Überwelt, un “mondo di sopra”, la realtà semantica che avvolge il mondo fisico e lo informa.

L’Umwelt dell’animale

L’Umwelt dell’animale sembra evidente: ogni specie vivente ha il suo mondo, che ha senso e lo determina. Gli animali, ad esempio, rispondono alle richieste del loro ambiente (il cane che abbaia) e lo esplorano o lo utilizzano in base alle loro esigenze (la gallina che gratta la terra per trovare vermi da mangiare). Il famoso esempio di Uexküll riguarda i due stimoli a cui risponde un particolare tipo di zecca:

  • Una volta fecondata, la femmina si arrampica su un ramo e, in risposta a uno stimolo olfattivo (l’acido butirrico odoroso delle ghiandole sudoripare dei mammiferi), si lascia cadere su un mammifero di passaggio. Si arrampicherà di nuovo su un ramo tutte le volte che sarà necessario;
  • Uno stimolo tattile le permette di trovare un punto in cui la pelle è priva di peli; allora spinge la sua “testa” (il rostro) sotto la pelle, si riempie di sangue, si lascia cadere, depone le uova e muore. 3

Rispondere alle richieste pertinenti e identificare in modo molto selettivo ciò che corrisponde al bisogno di vita: questo è il mondo dell’essere vivente, un mondo molto limitato, ristretto all’utilità della vita.

L’Umwelt degli esseri umani

L’animale umano

A prima vista, potrebbe sembrare che anche l’uomo faccia parte di un Umwelt. Pensiamo all’aborigeno australiano, all’amazzone, al soldato dell’antica Sparta, al monaco tibetano, al nomade delle steppe, all’impiegato di Wall Street o de La Défense4, al contadino della Garonna, al bambino di Calcutta il cui unico orizzonte è un immenso cumulo di rifiuti, o al sopravvissuto del Vicino Oriente tra le rovine della sua città.

Possiamo andare anche oltre. La maggior parte degli esseri umani si posizionerà in reazione alle richieste all’interno del ristretto campo offerto loro dalla società circostante: il cricket in India, il calcio in Germania, il curling in Scozia, e così via. La sua libertà, da questo punto di vista illusorio, consisterà nello scegliere se “interessarsi” all’atletica leggera o alla Formula 1. Allo stesso modo, tra milioni di artisti, sarà un fan di Elvis Presley, Tino Rossi o Maradona. Avranno anche un cane o un gatto come animale domestico. Quando si parla di politica, la maggior parte di loro sosterrà uno o l’altro dei candidati o dei partiti esistenti. Se gli mettiamo in mano uno schermo, ci passeranno più di cinque ore al giorno (solo per le attività di svago)5.

Naturalmente ci sono i “marginali”, che prenderanno un serpente come animale domestico, saranno fan della cantante cubana Celia Cruz, “sceglieranno” la pétanque, non voteranno per niente e giocheranno a carte e leggeranno i giornali. Ma questa “marginalità” è più che altro una risposta a una richiesta – anche se meno banale – che, a quanto pare, è poco diversa da quella della zecca incinta.

L’animale libero

Detto questo, a prescindere dalle determinazioni esterne o interne che possono influenzare la scelta delle risposte agli stimoli (sport, cantante, animale domestico, opzione politica e praticamente tutto il resto), è facile vedere che la libertà è di un altro ordine, esercitata all’interno di tutte le determinazioni. Questo perché la libertà si riferisce direttamente all’essenza dell’uomo, secondo il suo fondamento ontologico di “animale ragionevole”6 e di animale libero7. Quindi, a prescindere dai determinismi inconsci (psicoanalisi), culturali (sociologia) o neurologici (neuroscienze, psicobiologia), il libero arbitrio rimane semplicemente concepibile. Ma poniamoci la domanda: possiamo essere condizionati e liberi allo stesso tempo?

La libertà in questione qualifica l’esercizio della volontà, a condizione che non sia indotto da una passione determinante – in tal caso il libero arbitrio sarebbe un’illusione dovuta all’ignoranza delle cause che ci fanno agire (Spinoza) -, ma che sia il frutto di una scelta ponderata (Aristotele) in vista di un bene (Platone), illuminata dalla ragione (Cartesio, Leibniz), che fa uscire l’uomo dallo stato di natura (Rousseau), seguendo una legge morale di cui si dota (Kant). Da quel momento in poi siamo “condannati a essere liberi”8 e responsabili delle nostre azioni (Sartre)9. Filosoficamente, questa libertà può essere definita negativamente, come assenza di costrizione o di determinazione, o anche come libertà di indifferenza, o positivamente, come autonomia o spontaneità della volontà10.

Se la libertà consistesse, per l’uomo, nell’essere libero da ogni determinazione, il più libero sarebbe il più indeterminato, e totalmente libero significherebbe allora completamente indeterminato, il che è assurdo11. Se ci fermassimo qui, solo Dio sarebbe libero e l’uomo, necessariamente determinato, non potrebbe essere libero in alcun modo. Anzi, un uomo interamente sottoposto, e quindi ridotto, alle sue determinazioni sarebbe un puro automa12. Ciò è illustrato dal paradosso di Buridano: non potendo scegliere da dove cominciare, un asino morirà di fame e di sete tra il suo becco d’avena e il suo secchio d’acqua13. Denunciato dall’assurdo nell’esperimento di pensiero dell'”asino di Buridan”, ciò significa che le determinazioni, che sono inevitabili, non si oppongono alla libertà, ma costituiscono lo sfondo necessario su cui la libertà può essere esercitata. E se ora la libertà caratterizza il potere o la volontà di fare qualcosa, è anche attraverso azioni determinate, secondo fini e mezzi determinati, che essa si eserciterà. Tutto è quindi determinato: l’uomo e il suo ambiente, il fine e i mezzi della sua azione. La libertà non è un’opzione, ma risiede nell’accettazione, da un lato, delle determinazioni intrinseche all’ordine delle cose e, dall’altro, di quelle che corrispondono ai fini e ai mezzi dell’azione scelta.

Essere liberi è obbedire

Se vogliamo approfondire metafisicamente che cos’è la libertà, andremo oltre questo paradosso: essere liberi è obbedire 14.

La libertà, come accettazione di determinazioni, non è quindi né sottomissione né rassegnazione, ma l’accettazione volontaria, libera quindi, anche se obbediente, di una missione.

Cartesio ha mirabilmente chiamato questa capacità in noi di fare liberamente ciò che dobbiamo fare “generosità”, Corneille “cuore” e Platone “coraggio”, che in greco si chiama andreia, la qualità propria di andros (uomo).

Jean Borella15

Più precisamente, la volontà si pone come fine solo ciò che l’intelletto può farle conoscere, e solo se vuole considerarlo buono. Se, per definizione, ciò che la volontà sceglie è buono, non è un bene in sé, anche se si riferisce a un bene assoluto, ma è solo un bene per sé. Questa relatività è quella della conoscenza imperfetta di cui dispone la libertà. Se la libertà beneficiasse di una conoscenza perfetta dei beni e del Bene, essendo la volontà desiderio del bene, l’uomo, interamente determinato da questa conoscenza perfetta, non sarebbe più libero. “Ciò significa che l’ignoranza che si manifesta nella nostra libertà è ontologica; inoltre, si identifica con il nostro stesso essere” (Borella).

La convinzione di questa libertà fondamentale che appartiene alla nostra persona è “la consapevolezza che la nostra esistenza è un’esistenza personale e responsabile e non il semplice sviluppo di causalità meccaniche”. Metafisicamente, questa convinzione si riferisce alla trascendenza del Sommo Bene implicita nell’atto stesso del volere, ed è l’unico “mezzo per rendere conto della libertà umana”16. Questo costituisce il paradosso (metafisico) della libertà: la volontà è libera solo perché non conosce il bene a cui tende, ma obbedisce a questo fine, che tuttavia la supera17.

Weltanschauung (visione del mondo)

Weltanschauung (visione del mondo), è un concetto introdotto da Kant, nel senso di Weltbild (immagine olistica del mondo) in opposizione a una ripresentazione che coinvolge il ragionamento (Critica della Ragion Pura), poi, in opposizione a tutte le conoscenze teoriche razionali (Critica della Facoltà di Giudizio). È diventato un concetto importante nella filosofia tedesca18 per tutto il XIX secolo e all’inizio del XX, ma nel senso gradualmente modificato di astrazione, è stato criticato, tra gli altri, da Freud e Jung, i quali hanno entrambi sottolineato che qualsiasi Weltanchauung non può mai essere più di un’ipotesi19, mentre Husserl, come Heidegger, la opporrà alla filosofia, affermando che la Weltanchauung manca della “validità assoluta” richiesta dalla “scienza filosofica”20, il secondo, mostrandola come una chiusura, una “conclusione”, essendo la filosofia per sua natura, al contrario, aperta21 e, diciamo, aporetica.

Oggi una Weltanchauung, come il termine tedesco è stato incorporato in francese, inglese, italiano e, in misura minore, spagnolo, significa ovunque “visione del mondo” o “concezione del mondo”, in sensi che riteniamo vicini: una sintesi cosmologica o filosofica con pregiudizi legati o ai limiti della ragione o all’impossibilità di conoscere lo stato della scienza, anche solo in fisica o in biologia. Potremmo paragonare queste Weltanschauungen, quelle che sono nell’aria in questo momento, all’episteme foucaultiana 22, anche se Foucauldi giustamente lo nega, essendo l’episteme proprio “quei fenomeni di relazione tra le scienze o tra i diversi discorsi nei vari settori scientifici” di un’epoca23.

In ogni caso, per quanto ci riguarda, è evidente che gli esseri umani sono capaci di guardare ben oltre il loro Umwelt ristretto, anche se la loro visione è giusta o sbagliata.

Welt (mondo)

Pensare al mondo

Se gli esseri umani hanno sempre una visione del mondo, per quanto elementare possa essere, è naturalmente perché sono consapevoli del mondo, anche se sono assorbiti per la maggior parte del tempo dagli schermi24 per alcuni, o dalla ricerca incessante di cibo per altri.

In altre parole, questo pensiero del mondo, che l’uomo abbia o meno tempo libero, è generalmente sporadico e rudimentale, spesso in risposta a una richiesta in occasione di un funerale, ma c’è, innegabilmente.

La sua ragione e la sua scienza (come conoscenza delle cause)25 lo portano a questo in modo del tutto naturale; ci sono sempre momenti in cui, per quanto brevemente, ci penserà senza volersi fermare. Naturalmente, alcuni smetteranno di pensarci, o perché non hanno la formazione intellettuale per perseguirlo, o perché una posizione dogmatica come la rinuncia alla conoscenza di ciò che sarebbe metafisico e dichiarato inconoscibile (kantianismo), o anche perché la fede religiosa porta a una tale fiducia che ogni pensiero sul mondo diventa inutile. Tuttavia, questo pensiero, anche se si tratta di una rinuncia, avrà avuto luogo e avrà preso il suo posto nella mente.

Pensare il mondo

È fin troppo chiaro che, sebbene rappresentino una percentuale molto piccola degli abitanti del mondo, milioni di filosofi e scienziati lavorano comunque per comprendere meglio il mondo, sia sulla base della loro Weltanschauung sia per forgiarne una propria. E il solo fatto che ci stiano lavorando vale per ogni essere umano, qualunque sia la sua capacità di farlo, perché non sarà mai zero. Salvo patologie, esiste un solo tipo di uomo, ed è stato detto che ogni uomo è per natura un filosofo e persino un metafisico (Schopenhauer26.

Pensare il mondo in modo scientifico

È molto più nell’episteme dell’epoca moderna che nelle menti degli scienziati stessi27 che lo scientismo28, una convinzione nata parallelamente allo sviluppo della scienza sperimentale, cioè grazie alle tecniche che ne sono scaturite, costituendo un surrogato pragmatico di una prova scientifica formalmente impossibile.29.

Una prova basata su due credenze. Per combinare i mondi disgiunti delle parole (l’affermazione da dimostrare) e delle cose (il dispositivo oggettivo per mettere alla prova l’affermazione), devono entrare formalmente in gioco due credenze:

  • la credenza soggettiva del destinatario della prova sulla sua efficacia,
  • il riconoscimento intersoggettivo della validità delle procedure di prova, che costituisce un’altra credenza (cfr. Fernando Gil).

Teorie ipotetiche per natura. Da un lato, la teoria non è mai più di un’ipotesi, necessariamente falsificabile (Karl Popper, 1902-1994), nel senso che l’ideatore della teoria individua prima i possibili fatti che la confuterebbero e poi va alla ricerca di questi fatti, in secondo luogo, gli esperimenti richiedono convinzioni, tanto più che le osservazioni e le loro interpretazioni sono spesso troppo complesse e gli esperimenti stessi sono spesso già troppo astratti e mutuati dal contesto concettuale che li ha generati; lo stesso strumento di misura è teorico quando è il frutto di una teoria (cfr. Alexandre Koyré, 1902). Alexandre Koyré, 1902-1964). Per non parlare degli esperimenti che non vengono duplicati a causa del costo esorbitante che ciò rappresenterebbe, quando secondo la regola elementare della prova sperimentale: testis unus, testis nullus (un singolo esperimento è un esperimento nullo).

Potremmo dire con il fisico Richard Feynman che “la scienza non consiste nell’affermare ciò che è certo, ma nell’osare affermare, in campi ancora sconosciuti o inesplorati, ciò di cui non siamo veramente sicuri” 30. Inoltre, con l’estrema moltiplicazione delle scienze e delle tecniche particolari, per le quali è diventata impossibile una conoscenza unitaria, un fisico può dire: “Per me, l’efficienza relativa ma sorprendente di grandi sistemi – una centrale elettrica, un aereo di linea – è estremamente misteriosa31. La prova si basava su due convinzioni e la tecnologia, come sostituto della prova, per quanto indiscutibile possa essere il risultato tecnico, è ora inaccessibile all’individuo isolato, per quanto polimatico possa essere.

Osservazioni ipotetiche. Alle teorie ipotetiche corrispondono osservazioni che possono essere anch’esse ipotetiche, perché l’osservazione di un’apparenza è sempre una mera ipotesi. In astrofisica, per lo meno, una delle domande critiche è: “Cosa succederebbe se la topologia dell’universo fosse multiconnessa?”, cioè uno spazio che assomiglia all’interno di una stanza foderata di complicati specchi32. In questo caso, ogni galassia sarebbe accompagnata da un gran numero di immagini fantasma, senza che sia possibile distinguere le immagini “reali” da quelle fantasma. Stiamo parlando di un universo “accartocciato”, le cui simulazioni digitali assomigliano all’aspetto del cielo reale. Questa illusione ottica cosmica è del tutto possibile: un’impressione di immensità, mentre lo spazio reale sarebbe piccolo e “accartocciato” ((Secondo i risultati provvisori ottenuti da vari test osservativi basati sull’effetto miraggio topologico (in particolare la cristallografia cosmica), “l’Universo non può essere più piccolo di circa 5 miliardi di anni luce”, Luminet, “Les polyèdres et la forme de l’espace”, De la science à la philosophie, op. cit., p. 80).

L’abbandono, legittimo ma perverso, della necessità di una causa prima. Il fondatore della scienza, perlomeno del rigore scientifico del discorso e della logica, è stato in grado, in fisica e in metafisica, di scoprire la necessità di una Causa prima: “se nulla è primo, assolutamente nulla è causa”, dirà Aristotele33, cioè senza una causa prima, le cause seconde non hanno senso.

Sebbene la scienza sia conoscenza attraverso le cause (Scientia est cognitio per causas), è obbligata a ripudiare questa prima causa, che da sola giustifica tutte le altre. Così, il modello cosmologico standard (il cosiddetto Big Bang) non inizia se non dopo l’inizio dell’universo, inizio che è di natura metafisica. Questo è confermato da tutti i fisici, ad esempio: “la fisica non può concepire ciò che potrebbe essere accaduto prima, sia che questo prima sia cronologico […] o fondativo, esplicativo […]” (cfr. Marc Lachièze-Rey, “Les origines”, Recherches de science religieuse, 81, 4 (1993), pp. 539-557). Citato in Pierre Gisel, “Sens et savoir du monde. Quel discours théologique sur la création”, Laval théologique et philosophique 52(2), p. 359). Questa esclusione dell’inizio extra-fisico è legittima e costitutiva, persino istituente, della scienza fisica. D’altra parte, non dobbiamo sognare che un giorno la fisica sarà in grado di spiegare tutto. Il perché è stato ridotto al come, ma il come è efficace, come dimostra la tecnologia. Per questo, la scienza non è più esplicativa, ma solo descrittiva.

L’abbandono della causa finale. Delle quattro cause individuate da Aristotele, la causa finale34 sarà anch’essa abbandonata, a causa del suo possibile, ma non sistematico, legame con la causa prima. Questa causa finale del perché si trova oggi solo in opzioni scientifiche eterodosse “finaliste”, come il disegno intelligente o gli argomenti della complessità irriducibile (Behe, 1952) e dell’informazione complessa specificata (Dembski, 1960), il controverso principio antropico (Carter, 1942), la teoria del campo morfogenetico (Sheldrake, 1942) o la causalità verticale (Wolfgang Smith, 1930).

Privata delle cause prime e finali, la scienza ha ben poco da dire in termini di spiegazioni; ciò che rimane, naturalmente, sono le descrizioni inconfutabili e, senza dubbio, i successi delle applicazioni tecniche.

Dall’abbandono delle cause alla scomparsa della realtà. In biologia, di fronte alla complessità, il caso ha preso per un certo periodo il posto della causa 35, prima di tornare alla semplice ammissione di ignoranza che è sempre stata, e che un biochimico ha poi potuto confermare: “Secondo me, il caso intrinseco non può essere una nozione scientifica [… perché] non appena si usa questa parola, si torna a dire che non sappiamo nulla di ciò che accade” o “bisogna sbarazzarsi del caso per rimanere deterministi”36.

Va detto che, nel frattempo, è avvenuto un vero e proprio cambio d’epoca, da quello della causalità a quello del determinismo, che è molto più di un triplice cambio di vocabolario:

  • da Cosa a Fatto (da ontologico a fenomenologico; Bacone, XVII sec.); “Il mondo è l’insieme dei fatti, non delle cose. Il mondo si dissolve in fatti”, diceva Ludwig Wittgenstein37;
  • dalla Causa alla Legge (da esplicativa a successiva; Hume, XVIII sec.)38 ;
  • dalla forza alla funzione (Mill, XIX sec.).

Wilhelm Wundt (1832-1920) ha giustamente ironizzato su questo sviluppo lungo tre secoli:

Nel XVII secolo fu Dio a stabilire le leggi della natura; nel XVIII fu la natura stessa; nel XIX furono gli scienziati a farlo”39.

e le leggi portano i nomi dei loro scopritori: legge di Mariotte, legge di Gay-Lussac, legge di Ohm, legge di Weber e così via. In realtà, al di là del cambiamento di vocabolario, siamo passati dall’entità concreta alla relazione funzionale, all’astrazione e alla matematizzazione sistematica.

Poco importa, in generale, se nelle equazioni della fisica vediamo l’espressione di sostanze, leggi o forze; esse esprimono sempre dipendenze funzionali

Ernst Mach40.

La realtà è diventata formalmente inaccessibile alla scienza, come disse il fisico Max Planck (1858-1947):

Dal punto di vista delle scienze esatte, rimane sempre un abisso incolmabile tra il mondo fenomenologico e il mondo reale metafisico… In questo obiettivo di un reale assoluto, e nella sua incapacità di raggiungerlo, risiede l’elemento irrazionale inerente all’attività scientifica… Il mondo reale metafisico non è quindi il punto di partenza della ricerca scientifica, ma il suo obiettivo inaccessibile.41

E per concludere:

Non c’è materia in sé (…) Così finisce il nostro lavoro, e dobbiamo lasciare la continuazione della nostra ricerca nelle mani della filosofia.”(Das Wesen der Materie [La natura della materia], conferenza, Firenze, 1944; Archiv zur Geschichte der Max-Planck-Gesellschaft, Abt. Va, Rep. 11 Planck, Nr. 1797)).

Così, secondo il fisico Marc Lachièze-Rey, la scienza è necessariamente riduttiva e può fare a meno dell’esistenza o dell’inesistenza della realtà:

La descrizione fisica è deliberatamente riduttiva, cioè non è interessata a molte cose. Si rifiuta di prendere in considerazione molte cose perché non ne ha bisogno. Nella concezione quantistica, un cane è una funzione d’onda. Inoltre, non credo che si possa separare la funzione d’onda del cane da quella del resto dell’Universo, perché la concezione quantistica implica una globalità, secondo la quale esiste una sola funzione d’onda, quella dell’Universo.

[…] La realtà è lì, e nessuno può esaurirla, né dando un nome al cane, né amandolo, né sezionandolo. Ma ripeto che la fisica non ha bisogno di supporre che questa realtà esista o non esista42.

Überwelt

I limiti della conoscenza scientifica

Una volta eliminate le cause prime e finali, la vita deve certamente emergere dalla materia e l’uomo dalla vita, ma come possiamo crederlo se per ipotesi – anche se metodologica – la causa prima è una necessità scientifica scartata? Per quanto riguarda la fisica, “nella fisica classica si diceva “la realtà sono le particelle”; nella fisica quantistica, una posizione realistica dichiara “la realtà è la funzione d’onda”43, ma non si tratta solo di “realtà” strettamente scientifiche? Riduzioni scientifiche?

Per tutto questo, e come tutti gli scienziati44, la scienza stessa riconosce prontamente i suoi limiti, compresa l’incapacità di definire il regno dell’ignoto:

Sarebbe quindi eccessivamente semplicistico, e anche un po’ presuntuoso, per noi scienziati, pur ammettendo che ci sono certamente cose che non conosciamo, affermare allo stesso tempo che siamo in grado di localizzare e individuare il dominio della nostra ignoranza.

Jean-Marc Lévy Leblond45.

Altri limiti, invece, sono ben stabiliti46; si tratta, in matematica come in fisica, dei limiti costruttivi, predittivi, ontologici e cognitivi47. Per quanto riguarda i limiti cognitivi, va detto che la meccanica quantistica ci costringe ad abbandonare qualsiasi descrizione della realtà che non sia quella della sua apparizione attraverso i fenomeni empirici; di conseguenza, “la pretesa della fisica di descrivere la realtà in sé deve essere abbandonata48.

L’evidenza dell’Überwelt

Non è solo la causa prima a indicare l’Überwelt49. Questa causa è l’evidenza esterna a cui arriviamo dopo aver osservato e considerato il regno fisico. Ma c’è un’altra evidenza, questa volta interiore, che la indica. Lo possiamo capire dalla distinzione tra ragione e intelligenza e dalle nozioni di apertura e chiusura epistemica del concetto nella scienza e nella filosofia, in senso comparativo.

Ragione e intelligenza. Basti pensare che, da sempre (con l’eccezione del kantianesimo), la tradizione filosofica ha distinto tra ragione e intelligenza. C’è una conoscenza che gestisce i concetti e il ragionamento ipotetico-deduttivo attraverso il ragionamento discorsivo sotto la guida della logica – Platone la chiamava dianoia. Ma c’è, complementare e necessaria, la conoscenza intuitiva attraverso l’ascesa dialettica dell’intelletto – Platone la chiama noèsis. Ciò significa che l’intelligibile, il semantico, che riceviamo nell’intelletto senza mai poterlo generare da soli, è un mondo al di là del mondo concreto, da cui quest’ultimo dipende. Così, all’occhio “esterno” che cerca la causa del fisico che incontra (Aristotele), risponde l’occhio “interno” che scopre ciò che il suo intelletto riceve, il quale, per la sua capacità di riceverlo, sembra funzionare per reminiscenza (Platone).50.

L’apertura e la chiusura epistemica del concetto. Questa è la differenza fondamentale tra scienza e filosofia51. Nella scienza, la chiusura epistemica del concetto consiste infatti nella legittima – e costitutiva – riduzione del concetto al calcolabile di una ragione logica. In filosofia, invece, l’apertura epistemica del concetto è la sua caratteristica essenziale. Infatti, “la chiusura epistemica del concetto nella scienza presuppone la sua apertura filosofica”. Infatti, per chiudere legittimamente il concetto dell’oggetto di studio – che è l’unico modo per ottenere una definizione chiusa (come ridurre il corpo a un punto materiale, o ridurre il linguaggio a un sistema di unità differenziali) – dobbiamo “strapparci dal fascino della cosa così come ci è data, e sostituirla con un oggetto costruito”, Dobbiamo “rinunciare all’atto più fondamentale dell’intelligenza, che è la sua apertura al reale”, la sua attesa e “speranza indefettibile del reale”, “a cui si sottomette innanzitutto” (Borella).

Se i concetti filosofici sono […] trafitti dalla realtà, ciò significa […] che essi nascondono l’inconcepito, l’impensato, il ‘non intelligente’ [… da cui] consegue che il campo speculativo dell’intelligenza filosofica è un campo essenzialmente aperto, e questo per definizione. Il filosofo sa bene che ogni conoscenza concettuale opera una certa chiusura speculativa”, mentre il pensiero volgare è ovviamente inconsapevole dei propri limiti, e la scienza li ignora consapevolmente, perché deve pensare solo entro i limiti epistemici che definiscono “l’unico spazio del pensiero rigoroso (per quanto riguarda la scienza).

Jean Borella

Il filosofo sa anche che possiamo limitare solo a partire dall’illimitato, che “possiamo essere consapevoli dei limiti del concettuale solo essendo consapevoli di un al di là del concetto. Questa consapevolezza è anche una condizione permanente della nostra conoscenza”, di cui la filosofia intende tenere conto. Essa interverrà, “non con la pretesa di superare indebitamente la scienza, ma ogni volta che il pensiero umano, avendo preso coscienza della sua finitudine, deciderà comunque di ignorarla e di continuare a perseguire il suo sforzo di rigore, nonostante questa finitudine, a causa di essa e con essa”.

Questa Überweilt è il mondo semantico (Borella), il mondo delle Idee (Platone). Così Platone poteva dire che qualsiasi cosmologia non poteva essere altro che “un mito plausibile” (ton eikota mython)52. O, come ha detto più recentemente l’astrofisico James Jeans (1877-1946): “L’universo comincia ad assomigliare più a un grande pensiero che a una grande macchina”53

Se la realtà non è più una questione di scienza (Max Planck, Lachièze-Rey, ecc.), è perché è una questione di metafisica, basata sull’intelligenza, distinta dalla ragione, come senso dell’essere.

Tuttavia, la fisica “soffre” di questa mancanza metafisica. Da qui il suggerimento del fisico Bernard d’Espagnat (1921-2015) di effettuare ricerche prima della relatività del tempo, come “eternità” e “creazione continua” (nozioni da adattare alla fisica, ovviamente). Inoltre, i suoi suggerimenti per avvicinare la causa finale aristotelica alla sua “causalità allargata” (“essendo il reale primario rispetto al tempo, la causalità che esercita non può essere soggetta a una stretta condizione di anteriorità”), collegare la potenza e l’atto dello Stagirita alla sua “realtà velata” e, seguendo Heisenberg (1901-1976), con il supporto della recente teoria della decoerenza, coniugare la materia prima54 della “funzione d’onda dell’Universo”55. Suggerisce anche, giustamente ci sembra, che la sua “realtà velata” debba essere paragonata al mito della caverna di Platone56, con un parallelo tra il Bene platonico e il “reale”; si tratta, lungi da ogni idealismo, del “realismo delle essenze” di Platone57. Lo ha suggerito anche il fisico Bryce DeWitt (1923-2004): “Prendere alla lettera la meccanica quantistica significa considerare questa teoria come la vera realtà, cioè come appartenente al regno platonico delle essenze ideali”58.

Note

  1. Cfr. Jakob Johann von Uexküll (1864-1944).[]
  2. Cfr. Josef Pieper (1904-1997), “Welt und Ümwelt”, la sua conferenza del 1950, Schriften zur Philosophischen Anthropologie und Ethik: Grundstrukturen menschlicher Existenz, Herausgegeben von Berthold Wald, Josef Pieper Werke 05. 2007, VI.[]
  3. Questo esempio, caratteristico dell’Umwelt dell’animale, è molto citato: Max Scheler, Heidegger (cfr. I concetti fondamentali della metafisica), Georges Canguilhem (cfr. La conoscenza della vita), Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, e molti altri filosofi attuali: Peter Sloterdijk, Baptiste Morizot, Augustin Berque, Florence Burgat, Vinciane Despret, ecc.[]
  4. un grande complesso di torri per uffici a ovest di Parigi[]
  5. NordVPN, sondaggio condotto in quattro Paesi su 5.000 adulti tra il 22 e il 30 giugno 2021.[]
  6. Aristotele, Politica, L. I, 1, 4 [1252a][]
  7. Come libero arbitrio, la libertà è a fondamento dell’antropologia di S. Tommaso d’Aquino; come libertà civile o politica, ha addirittura la precedenza sulla ragione nel Contratto sociale di Rousseau (1762): “Non è dunque tanto la comprensione a distinguere l’uomo dagli altri animali quanto la sua capacità di agente libero”, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (“Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini”), Amsterdam: M. M. Rey, 1755, p. 31.[]
  8. L’être et le néant (“L’essere e il nulla”) (1943), Paris: Gallimard, 1976, p. 612.[]
  9. “L’uomo è condannato a essere libero; condannato perché non ha creato se stesso, e tuttavia libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa”; L’existentialisme est un humanisme (“L’esistenzialismo è un umanesimo”), Paris: Nagel, 1946, p. 37). La formula di Sant’Agostino: “Ama e fai ciò che vuoi” può essere vista altrettanto facilmente come una libertà e una responsabilità[]
  10. La definizione teologica non è diversa: “la libertà umana consiste negativamente nell’assenza di costrizione esterna e di ogni necessità interiore, positivamente nella determinazione e nella decisione autonoma, sulla base dei motivi che si presentano”, Mons. B. Bartmann, Précis de thèologie dogmatique (“Sunto di teologia dogmatica”), trans. M. Gautier, Mulhouse/Paris: Salvator/Casterman, 6a ed., 1947, t. I, p. 172.[]
  11. questo è ciò che rende poco rilevante, a nostro avviso, la nozione di “incompatibilismo” nella filosofia analitica, per la quale libero arbitrio e determinismo, ridotti allo stesso livello, costituirebbero categorie logicamente incompatibili). Così, credere nel determinismo renderebbe il libero arbitrio un’illusione (determinismo duro: Barone d’Holbach, Daniel Wegner) o, in alternativa, che il determinismo sarebbe falso (libertarismo: Roderick Chisholm), o ancora, secondo teorie “impossibiliste” di terzi, il libero arbitrio è semplicemente decretato come un’impossibilità metafisica (Richard Double, Galen Strawson, Saul Smilansky o, tramite il fatalismo logico: Richard Taylor). Cfr. Kadri Vihvelin, “Arguments for Incompatibilism”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Fall 2015 Ed., E. N. Zalta ed. Ma libero arbitrio e determinismo non sono semplicemente sullo stesso piano.[]
  12. Un automaton spirituale, secondo Spinoza, Traité de la réforme de l’entendement (“Trattato sulla riforma della comprensione”), trans. Ch. Appuhn, §85.[]
  13. Buridano (1292-1363), seguendo Aristotele, usa l’assurdità di questa “alternativa insensata” per la sua dimostrazione (cfr. Benoît Patar, Dictionnaire des philosophes médiévaux, Montréal: Fides – Presses philosophiques, 2006.[]
  14. Qui seguiamo Jean Borella, Marxisme et sens chrétien de l’histoire (“Marxismo e senso cristiano della storia”), Paris: L’Harmattan, 2016.[]
  15. op. cit., p. 179.[]
  16. Borella, ibid., pp. 181-184.[]
  17. “Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”, scriveva Pascal, dopo Bernardo di Chiaravalle (Pascal, Fragment hors Copies n° 8H-19T recto; Brunschvicg 553) illustrando, teologicamente o spiritualmente, questo paradosso.[]
  18. Wilhelm Dilthey (1833-1911), in particolare.[]
  19. Jung, Seelenprobleme der Gegenwart, Rascher, Zurigo, 1931, in Psychologie analytique et conception du monde, Problèmes de l’Âme moderne, Buchet Chastel, 1976, pp. 95-129 e Freud, “XXXVa Lezione. D’une vision du monde (Über eine Weltanschauung, 1933)”, in Nouvelle suite des leçons d’introduction à la psychanalyse, vol. XIX, PUF, 1995), p. 242-268.[]
  20. cfr. Guillaume Fagniez, “VI. Philosophie et Weltanschauung”, Lire les Beiträge zur Philosophie de Martin Heidegger (“Leggere i Beiträge zur Philosophie di Martin Heidegger”), Paris: Hermann, 2017, p. 88.[]
  21. ibid., pp. 89-90.[]
  22. cfr. Les mots et les choses (“Le parole e le cose”), Paris: Gallimard, 1966.[]
  23. L’archéologie du savoir (“L’archeologia della conoscenza”) (1969), pp. 249-250. L’episteme è comprensibile se si passa dalla storia all’archeologia! cfr. Les mots et les choses, op. cit. p. 13, anche se si veda la critica di Sartre, L’Arc 30, 1966.[]
  24. cinquantasei ore a settimana, si legge, cfr. NordVPN, op. cit.[]
  25. “Perché c’è qualcosa piuttosto che niente”, Leibniz, Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714), § 7.[]
  26. Arthur Schopenhauer (1788-1860), Il mondo come volontà e rappresentazione, p. 1520 (in francese) (online).[]
  27. si veda, ad esempio, (Auto)critique de la science (Textes réunis par Alain Jaubert et Jean-Marc Lévy-Leblond), Paris : Seuil, 1973; “Se questi fratelli nemici, lo scientismo e l’irrazionalismo, prosperano oggi, è perché la scienza incolta diventa culto o occulto con la stessa facilità”, Jean-Marc Lévy-Leblond, L’Esprit de sel, Paris: Seuil, 1984, p. 97. Si legga “De l’ignorance savante” (“Sull’ignoranza appresa”), Entretien de Jean-Marc Lévy Leblond, avec Mathias Girel, Michèle Leduc, Raison présente 2017/4 (N° 204), pagg. 9 a 21.[]
  28. Dogma che afferma che tutta la conoscenza può essere raggiunta solo attraverso le scienze e che solo queste forniscono le soluzioni ai problemi umani.[]
  29. Oggi, “tecnoscienza” si riferisce a una scienza che non può essere dimostrata, se non dall’indiscutibile efficienza dei suoi processi tecnici.[]
  30. citato da Jean-Marc Lévy Leblond, “De l’ignorance savante”, op. cit.[]
  31. ibidem, corsivo aggiunto[]
  32. Qui seguiamo l’astrofisico Jean-Pierre Luminet, “L’univers est-il chiffonné?”, online, vedi anche il suo libro L’Univers chiffonné (“L’universo accartocciato”), Paris: Fayard, 2001.[]
  33. Metafisica I, a. c. 2. trad. Jean-Marie Vernier, S’ouvrir à la métaphysique, Paris: Hora Decima, 2022, p. 18. In Leibniz: Principes de la nature et de la grâce fondés en raison, § 8.[]
  34. Questa causa finale è ciò per cui una cosa è fatta, la ragione della sua esistenza, ciò per cui esiste; in altre parole, la causa è assunta come il fine e il bene di tutto il resto (“In ultimo, la causa significa il fine, lo scopo; ed è quindi il perché della cosa. Così, la salute è la causa del camminare”, Aristotele, Fisica, L. II, cap. III, 8; Physique d’Aristote, Barthélemy Saint-Hilaire, Paris: Ladrange, 1852, t. II), perché “la natura non fa nulla di vano o di superfluo” ma “in vista di un fine” (con variazioni insignificanti: Aristotele, Génération des Animaux, II, 5, 741b, Traité de l’Âme III, 12, 434a, Parties des Animaux II, 691b / III, 661b, Physique II, 8, 198b, Histoire des animaux 471b; riferimenti raccolti (in modo non esaustivo) da Valérie Guth, “Aristote : “la nature ne fa rien en vain””, (2001), Philosoph’île, Site de philosophie de l’Académie de la Réunion, online (07/2007).[]
  35. Cfr. Jacques Monod, Le hasard et la nécessité (“Il caso e la necessità”), Paris: Seuil, 1970.[]
  36. Antoine Danchin, Entretien avec Émile Noël, 1991, Compte-rendu d’un entretien oral à propos du livre Le Hasard aujourd’hui, Paris: Le Seuil, 1991.[]
  37. Tractatus logico-philosophicus (1921), 1.1. & 1.2., trans. P. Klossowski, Paris: Gallimard, 1961, p. 29). Enfasi aggiunta.[]
  38. per Hume la causa è solo una credenza derivata dall’abitudine, ma questo perché ha in mente il pensiero scientifico, passando, a torto o a ragione, dalla nozione aristotelica di forza (intrinseca agli enti) a quella di legge (tra i fatti); non ignora che, se spinto fuori dalla finestra, cadrà.[]
  39. “Wer ist der Gesetsgeber der Naturgesetze?” (Chi stabilisce le leggi della natura?), Philosophische Studien, 1886, t. III, fasc. 3, pp. 493 ss, citato da Théodule Ribot (1839-1916), Idées générales, p. 223. Va notato che un fisico come Richard Feynman (1918-1988) ha ironizzato sul fatto che, dal punto di vista della comprensione, non si guadagna nulla dicendo che è una forza e non un angelo a mettere in moto le cose, La nature de la physique, Paris: Seuil, 1980, p. 20.[]
  40. Ernst Mach (1838-1916), Connaissance et erreur (“Conoscenza ed errore“), trans. M. Dufour, Parigi: Flammarion, 1908, p. 278.[]
  41. Max Planck, L’image du monde dans la physique contemporaine, Gonthier, Paris, 1963 (Das Weltbild der neuen Physik (“La visione del mondo della nuova fisica”), 1929).[]
  42. in “Discussione”, De la science à la philosophie, op. cit., pp. 60-61.[]
  43. Marc Lachièze-Rey, op. cit., p. 59.[]
  44. ad esempio Poincaré: “se non temessi di ricordare qui una parola troppo spesso ripetuta, direi che esso (il calcolo delle probabilità) ci insegna soprattutto una cosa: è sapere che non sappiamo nulla”, Henri Poincaré, Calcul des probabilités: leçons professées pendant le deuxième semestre 1893-1894, rédigées par A. Quiquet, Paris: G. Carré, 1896, pp. 273-274. Queste osservazioni non compaiono più nella ristampa del 1912. Per alcuni scienziati, poiché la scienza deve portare a delle certezze, il calcolo delle probabilità doveva essere rifiutato: d’Alembert, Comte, Claude Bernard e persino Einstein, in un certo senso, si rifiutavano di credere che Dio potesse giocare a dadi.[]
  45. “De l’ignorance savante”, op. cit.[]
  46. Hervé Zwirn, “Les limites de la connaissance scientifique” (“I limiti della conoscenza scientifica”), De la science à la philosophie, pp. 130-131.[]
  47. Si veda una sintesi in Métaphysique du paradoxe, vol. 1). Inoltre, sarebbe utile leggere il “contro-approccio scientifico” in Dictionnaire de l’Ignorance, Aux frontières de la science (Michel Cazenave, ed.), Paris: Hachette, 2000 (ventuno contributi sull’ignoto nella scienza), “contro-approccio” perché, in parte a titolo di provocazione, presenta ciò che sappiamo di non sapere.[]
  48. Hervé Zwirn, ibid., p. 139.[]
  49. Usiamo “Überwelt” nel senso metafisico di un “oltre-mondo” o della realtà metafisica dell’essere[]
  50. Vedi https://metafysikos.com/metaphysique-le-langage-du-silence/ o https://metafysikos.com/la-raison-et-lintelligence-les-deux-faces-de-l-esprit/[]
  51. https://metafysikos.com/philosophie-et-science-ouverture-et-fermeture-du-concept/[]
  52. Timeo, 29d.[]
  53. The Mysterious Universe, Cambridge University Press, 1930; citato da Marc Lachièze-Rey, “La géométrie en physique: unification par la symétrie”, De la science à la philosophie, op. cit., p. 46. Per l’astrofisico Christian Magnan (1942), un universo infinito è semplicemente un’ipotesi inutile, persino perversa. Perché il principio di un universo omogeneo e isotopico (anche su larga scala) non è stato dimostrato, e perché “un modello matematico infinito non può essere tecnicamente collegato alla realtà, e questa situazione è completamente contraria all’approccio scientifico […] La scienza non può sostenere una teoria che sfugge, in anticipo e per sua natura, a qualsiasi rapporto con la realtà”; cfr. “L’infinito dei cosmologi”, op. cit. “L’infini des cosmologistes: réalité ou imposture?” (“L’infinito dei cosmologi: realtà o inganno?”), http://www. lacosmo.com/infini-encore.html).[]
  54. “chiamo materia il sostrato primario di ogni cosa, da cui proviene e che le rimane immanente”, Phys. , I, 9, 192 a 31-32. Idem Wolfgang Smith, “Physique et Causalité verticale”, Physique et métaphysique, Paris: L’Harmattan, 2018.[]
  55. Bernard d’Espagnat, Traité de physique et de philosophie, Paris: Fayard, 2002, 19-5-2 (“Causalité élargie”).[]
  56. cfr. anche “Physique et réalité”, in M. Cazenave (a cura di) Unité du monde, unité de l’être (Paris: Dervy, 2005, pp. 109-110) dove la non-località (come dimostrato dal fisico John Bell, “ogni teoria realistica che riproduca certe previsioni quantistiche è necessariamente non-locale”, ibidem) rende qualsiasi teoria “ontologicamente interpretabile” non “scientificamente convincente”. Quindi: “ci si può davvero chiedere se […] non sia il mito platonico della caverna l’espressione della verità” (p. 110).[]
  57. È a questo realismo platonico delle essenze che si unisce il realismo analitico di un Frege: realismo ontologico del mondo della mente, il suo drittes Reich – terzo regno accanto a quello delle rappresentazioni (interne, soggettive) e del mondo (esterno, oggettivo) – che costituisce la condizione di possibilità di una conoscenza effettivamente condivisa.[]
  58. Citato da Simon Diner, “Après la matière et l’énergie, l’information comme concept unificateur de la physique?” (“Dopo la materia e l’energia, l’informazione come concetto unificante della fisica?”), De la science à la philosophie, Paris, Albin Michel, 2005, p. 121.[]