Pubblicato in Du religieux dans l’art, Alain Santacreu (Dir.), L’Harmattan, 2012.
Questo articolo affronta un tema sollevato in Qu’est-ce que la métaphysique? (“Che cos’è la metafisica?”) pubblicato nel 2009.
Tradotto dal francese da Aldo La Fata e Letizia Fabbro.
“Art-con”, “con” per “contemporaneo” o “concettuale”, si autodenuncia annunciandosi come tale (in francese, “con” significa idiota). L’obiettivo è quello di ripercorrere il cammino dall’odierna pseudo-arte ufficiale, finanziaria e mediatica, a un’arte “originale”, non contaminata dalle esigenze della scuola, a una “bellezza” trascendente riconosciuta come tale.
Introduzione
L’arte sembra essere morta alla fine del XX secolo, essendo sopravvissuta di cento anni alla morte di Dio. Almeno, così diceva Nietzsche alla fine dell’Ottocento nel suo La gaia scienza: “Dio è morto, e siamo noi ad averlo ucciso”1. Quanto all'”arte contemporanea”, essa non nasconde più solo la sua realtà finanziaria: le sue “cartolarizzazioni di rifiuti” riecheggiano i junk bond.
Tuttavia, ai margini dell’arte finanziaria, sopravvive l'”arte nascosta”2; così come continuano le conversioni religiose: da quella di Huysmans (1848-1907), proprio all’epoca della pubblicazione di Gai Savoir, a quella di Jean-Claude Guillebaud3 oggi, per esempio.
Ecco perché, di fatto, né Dio né l’arte sono veramente morti, e ciò che abbiamo ucciso non era altro che il loro concetto o idolo: “I concetti creano idoli di Dio”, scriveva Gregorio di Nissa4. Così l'”arte concettuale”, apparsa negli anni Sessanta, denunciava già se stessa cercando di definire l’arte non in base alle proprietà estetiche dell’opera, ma al semplice concetto di arte.
Quindi, nonostante la secolarizzazione generale della cultura, ci è sembrato giusto tornare alla ricerca del sacro e dell’arte. Non c’è dubbio che riusciremo a riscoprire l’esercizio della bellezza e la nozione di bellezza, anche se il concetto di bellezza viene ignorato. Ripercorriamo il cammino dalla pseudo-arte ufficiale e mediatica di oggi verso un’arte “originale”, non contaminata dalle esigenze della scuola, verso una “bellezza” trascendente e riconosciuta come tale. Naturalmente, questo percorso sarà necessariamente sintetico, estremamente incompleto e, purtroppo, in questo caso, eurocentrico – il che è comunque consentito da una secolarizzazione essenzialmente occidentale (e da un dogma laicista specificamente francese). Ci occuperemo in particolare delle nozioni di novità, della persona dell’artista, del sacro e del profano e, naturalmente, del bello.
Arte contemporanea e filosofia postmoderna
Il nostro contesto economico e culturale, per dirla senza mezzi termini, potrebbe essere definito “postmoderno”, nel senso di una critica del mondo moderno: in questo caso, dell’arte merceologica e della sua “naturale” trasformazione in arte finanziaria. Ma questo sarebbe parlare troppo presto, perché nel campo dell’arte il postmodernismo, che rompe con l’arte moderna che tende a sostenere la novità in barba a tutti i progressi precedenti, si riferisce proprio a un movimento architettonico e artistico che non ha paura del passato, ma sa rinnovarlo integrandolo. In ambito filosofico, invece, la “filosofia postmoderna” rappresenta una rottura con il passato. Nata negli anni Cinquanta del secolo scorso, si pone sulla scia dei “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud)5 per rompere definitivamente con i grandi sistemi razionalisti delle filosofie dell’Illuminismo. Spinto alla sua conclusione da Derrida (1930-2004), desideroso di “decostruire il logocentrismo”, si finisce con l’ossimoro notato da pochi di affermare razionalmente il decentramento della ragione6.
L’arte contemporanea aderisce pienamente a questo ossimoro, abbracciando a tutti i costi la novità o la contemporaneità e cercando di rendere obsoleta tutta l’arte moderna, tutta l’arte nuova (l’Art Nouveau) o, meglio, tutta l’arte gratuita7. Rompe con tutte le forme del passato fino a non dire più nulla, come una certa filosofia postmoderna alla Derrida. È l’arte autarchica che Nikol Abécassis descrive, opere che “non sono più portatrici di un significato che le supera [… ma sono] destinate a essere produttrici del proprio significato”8. Naturalmente, l’arte contemporanea non si impone come “arte unica” con la sola forza dei suoi bidet o dejecta9 dei suoi araldi senza piume10. In effetti, senza il sostegno dello Stato (in Francia e negli Stati Uniti, in particolare) e, soprattutto, delle reti finanziarie che, come sappiamo, sono abili nel creare liquidità fittizia, non esisterebbero nemmeno, nel circolo chiuso, i “seguaci del vuoto” o gli “speculatori nulli” . Infatti, è perfettamente possibile paragonare “denaro concettuale” e arte finanziaria, arte concettuale e denaro fittizio: la finanza e l’arte “possono ora produrre la quantità di denaro che ritengono ‘utile'”11.
Tuttavia, non è il sistema dell’arte finanziaria in quanto tale che ci interessa, ma la sua pretesa di essere arte. Certo, non tutti i luoghi e i tempi hanno identificato le “arti” e le “belle arti” che, secondo Hegel, sono l’architettura, la scultura, la pittura, la musica, la danza e la poesia12, a cui si possono aggiungere la letteratura, il teatro, la cucina, la fotografia, il cinema e così via. Tuttavia, a parte l’arte contemporanea e i suoi sostenitori mediatici (cioè qualche migliaio di terrestri al massimo), tutto il mondo sembra ancora d’accordo sul fatto che la funzione dell’arte sia quella di fare appello ai sensi, all’emozione, ai sentimenti, non in modo astratto (il concetto di arte, che poi parla alla ragione), non in un contrappunto di discutibile umorismo (l’orrore o il disgusto saranno emozioni), ma semplicemente come produzione di un’emozione estetica, la bellezza.
Se l’arte mostra ciò che è bello, alcune persone cercheranno lo standard di bellezza. Ora, nel relativismo assoluto di un persistente modo di pensare strutturalista, possiamo credere che la norma vari a seconda del luogo e del tempo. Questo non è del tutto falso, ma non dobbiamo dimenticare l’invariante essenziale: l’esistenza di uno standard. Se la norma diventa “tutto è permesso” (purché faccia soldi), allora non possiamo più parlare di norma senza cadere ancora una volta in un ossimoro, in una contraddizione sofistica.
Inoltre, il bello non è solo normativo (estetico), come il vero (logico) o il buono (etico), ma è innanzitutto – e come loro – trascendentale, cioè un attributo universale che supera tutte le categorie, in particolare le dieci individuate da Aristotele (sostanza-essenza, quantità, qualità, relazione, tempo, luogo, situazione, azione, passione, avere). Se manteniamo cinque trascendentali (l’essere, l’uno, il bene, il vero e il bello), vedremo che sono convertibili l’uno nell’altro. Il termine “trascendentale”, inoltre, apparirà osceno solo all’individuo immerso nell’illusione della propria luce. Non appena prendiamo coscienza di ciò che si riceve, a partire dal significato – quel significato ingestibile – siamo condannati a un’effettiva umiltà, a una ri-cognizione di ciò che sta al di là, a una “reminiscenza”, come direbbe Platone, di ciò che non possiamo pretendere di aver inventato.
Ecco perché, in ogni caso, affermare che non c’è né bello né brutto, come tenta di fare l’arte contemporanea, significa riferirsi in definitiva al bello. Consigliare di scegliere il brutto, perché il bello sarebbe un pregiudizio (cfr. Henri Michaud (1899-1984), citato da Aude de Kerros, “La grande crise métaphysique de l’art” (“La grande crisi metafisica dell’arte”) in Qu’est-ce que la métaphysique? (Che cos’è la metafisica?), L’Harmattan, 2010, p. 114), è ancora affermare la bellezza. Non rendersene conto è l’errore inaugurato dagli antichi sofisti, che sostenevano che non esiste né vero né falso, senza rendersi conto che la semplice intelligibilità del loro discorso richiedeva che i termini utilizzati avessero un significato. L’arte contemporanea non è quindi altro che una lontana replica del terremoto iniziato dalla sofistica, che Platone liquidò subito come infondata, ma che rimane una tentazione sempre ricorrente, anche se illusoria: una pretesa di creazione, di valore di ciò che si dice o si fa, un’illusione di sufficienza. Inoltre, l’assurda esclusione della bellezza è addirittura suicida, poiché la psichiatria attuale ha dimostrato l’importanza vitale della bellezza nella vita psicologica: la bellezza rende felici, mentre gli ambienti brutti rendono depressi e infelici. Ma le pretese dell’arte contemporanea non si fermano a decretare l’arte – che lo Stato ufficializza – o la “bellezza” – anche se significa dire che non esiste -, ma giocano a decretare il “sacro”. Questo “sacro”, una volta che l'”opera” è stata ridotta a mero prodotto finanziario, si riduce rapidamente alla persona stessa dell'”artista”; viene reso “uguale a Dio”, anche se Dio doveva essere morto. Questa ultima contraddizione dell’arte contemporanea la squalifica definitivamente – almeno nel suo discorso, poiché nulla impedisce a certe opere “contemporanee” di produrre la bellezza proibita.
Arte moderna e persistente ottocentismo
L’arte contemporanea prende la sua “novità a tutti i costi” dall’arte moderna. Soppiantata dalla fotografia all’inizio del XX secolo, la pittura moderna (Picasso) è condannata alla novità, ad una “avanguardia” permanente, un osservatorio della nuova modernità, come quello di Tempi moderni (1936) illustrato da Chaplin (1889-1977). Ma la bellezza doveva essere trovata ovunque. Di conseguenza, si sviluppò l’arte non figurativa, si moltiplicarono i mezzi di comunicazione e l’artista stesso divenne sempre più importante, tanto da far esplodere il numero delle scuole. Solo in questo periodo si sono avute le scuole dell’Art Nouveau/Stile Liberty (Klimt, Mucha, ecc.), del Fauvismo (Derain, Matisse, ecc.), del Cubismo (Braque, Léger, Picasso, ecc.), del Futurismo (Balla, Boccioni, ecc.), dell’Espressionismo (Kokoschka, Munch, ecc.), dell’Astrattismo (Kandinsky, Malevich, ecc.), del Bauhaus (Kandinsky, Klee, ecc.), del Costruttivismo (Gabo, Moholy-Nagy…), del dada (Duchamp, Ernst, Picabia…), del surrealismo (Dalì, Ernst, Magritte, Miró…), della Nuova Oggettività (“Neue Sachlichkeit”), dell’arte figurativa (Buffet, Carzou…), non-figurativa (Bazaine, Le Moal…), dell’arte brut (Dubuffet, Chaissac…), e così via. In questa dispersione, gli elementi sembrano scomparire a favore dell’unica differenza che li collega. Il neologismo di Derrida, coniato non più tardi del 1963, “concetto non concettuale” è, per noi, un sofisticato ossimoro: “La differanza”, scrive, “non è né una parola né un concetto: è un fascio capace di pensare il più irriducibile dei nostri tempi”13.
Questa ricerca del nuovo ci sembra un’eredità diretta del XIX secolo, con i suoi sconvolgimenti post-rivoluzionari, le sue nuove scienze trionfalistiche, i suoi grandi magazzini, la sua industrializzazione di tutti gli oggetti, i suoi inviti al viaggio. La sua opera emblematica sarà La Gare Saint-Lazare (Stazione di Saint-Lazare, 1877, Museo d’Orsay) di Monet (1840-1926); l’esempio del suo spirito provocatorio sarà Manet (1832-1883) con, in particolare, il suo Déjeuner sur l’herbe (Pranzo sull’erba, 1862-63). Agli eccessi personalistici del Romanticismo si oppone l’opera di Théophile Gauthier (1811-1872) “L’arte per l’arte” (1835), che promuove il disimpegno personale nella poesia (sentimentale, politica, ecc.) a favore di un lavoro formale e tecnico. I parnassiani, seguendo le sue orme, insisteranno sempre sull’assoluta “gratuità” delle loro opere. Dall’arte per l’arte – spersonalizzata e formale – all’odierna arte per il denaro – che incorona gli artisti con opere spesso informi – la distanza sembra incolmabile. Tuttavia, le innovazioni della seconda metà dell’Ottocento segnano una netta rottura con i classici e i temi antichi. Tutte le mostre: Il Salon des Refusés (1863), il Salon des Indépendants (1885) e il Salon d’Automne (1903), sono tutti dedicati ai “moderni” e Baudelaire (1821-1867) è in grado di sviluppare la nozione di “pittore della vita moderna”, cioè della vita quotidiana nello stile di Zola (1840-1902), ma anche del progresso. Tuttavia, come diceva anche Baudelaire, questa modernità rimane “la metà transitoria, fugace, contingente dell’arte”, mentre l’altra metà è ancora “l’eterno e l’immutabile”.
Arte classica e religiosa
Questo “eterna e immutabile” deriva dal cosiddetto periodo classico, che va dal Rinascimento al Romanticismo. Naturalmente i periodi sono diversi: il Cinquecento (Alto Rinascimento), il Quattrocento (Primo Rinascimento), la pittura barocca e classica, il rococò, il neoclassicismo, ecc. ma hanno tutti una cosa in comune: quasi tutte le opere sono religiose, indipendentemente dai progressi tecnici compiuti (prospettiva o pittura a olio).
Naturalmente, si può giustamente distinguere tra arte religiosa e arte sacra, sia essa pittorica o musicale. La Petite Messe solennelle (Piccola Messa Solenne) di Rossini 14 o la Madonna del Coniglio di Tiziano15, mentre icone come la Trinità di Rublev16, o anche la Pala di Issenheim 17 o il canto gregoriano, appartengono all’arte sacra. Ma per quanto lontana dal sacro puro, a seconda della forma artistica scelta, l’arte religiosa non avrebbe senso senza il sacro a cui si riferisce, sia esso una bucolica Vergine con Bambino o un ritornello a due battute in certe liturgie.
Se tutta l’arte religiosa si riferisce al sacro, potremmo chiederci, alla luce dell’arte “sacra” postmoderna, se tutta l’arte sacra si riferisce alla religione. Oggi, molte posture sono dichiarate areligiose, ma un “qualcosa” è percepito come sacro e riconosciuto come tale. Se guardiamo alle numerose adozioni di un certo tipo di buddismo occidentalizzato, o ai molti pacchetti interreligiosi in stile New Age, ci rendiamo subito conto che non esiste una cosa puramente sacra, senza un rivestimento culturale – anche se si tratta di una ricomposizione composita. Questo perché l’essenza stessa dell’uomo risiede nella sua percezione del significato delle cose e delle azioni, e quindi della cultura che gliele indica. Il bambino lupo ne è un esempio! Immaginare di essere liberi di scegliere il proprio quadro di riferimento culturale, di creare la propria ermeneutica personale, è un’altra illustrazione dell’illusione del compiacimento. Certo, nessuno può sfuggire al lavoro ermeneutico che ognuno di noi deve fare da solo, ma a meno che non ci si creda fondatori di una religione – cioè ci si creda detentori di una rivelazione privata – questo lavoro può essere compiuto solo nel quadro di una tradizione, di una Chiesa, di una comunità di fede; l’ermeneutica è necessariamente, prima di tutto, dinamica e collettiva, in breve, culturale. Credere di essere nuovi, di essere esenti, è infatti l’illusione che il Bambino Lupo denuncia da tempo. Come si vede, non ci si può avvicinare al vero sacro, cioè al misterioso e al trascendente, senza ricorrere a una religione che sia al tempo stesso depositaria di una rivelazione e portatrice di una tradizione ermeneutica.
Questo periodo dell’arte classica, per quanto religioso, vide certamente gli inizi dell’individualismo e del mito dell’artista, ma fu il mecenatismo a finanziare l’arte che il “popolo” vedeva nelle chiese. Anche in una prospettiva razionalista, la bellezza è una “soddisfazione disinteressata” che prescinde da qualsiasi concetto e non può essere dimostrata: “È bello ciò che è universalmente piacevole senza concetto”, scriveva Kant (1724-1804)18. Dal Rinascimento in poi, il pittore appartiene alla “cerchia degli intellettuali […] capaci di definire il mondo”19, anche se è soprattutto pieno di Veneri, trionfi della bellezza fisica.
Arte medievale e sacra
Ci soffermeremo brevemente sui mille anni precedenti il Medioevo, sia che si parli di Basso Medioevo (X-XV secolo), quando l’arte religiosa del gotico urbano subentra a quella più sacra del romanico rurale, sia che si parli di Alto Medioevo (V-X secolo), iniziato con la conversione di Clodoveo e in cui la Chiesa si afferma come principale committente dell’arte. Soprattutto la bellezza è sacra: la creazione artistica ha dignità, è un’immagine della creazione divina. Da qui l’inutilità delle rappresentazioni realistiche e lo stile raffinatissimo dell’estetica cistercense e certosina. Chi avrebbe potuto immaginare che la bellezza morale precedesse quella fisica delle Veneri rinascimentali?20? Il motivo è che, con il lodevole obiettivo di fornire una cornice maestosa alla liturgia che avrebbe portato alle cattedrali, le Gerusalemme celesti dell’arte gotica, un’estetica più ornamentale (Cluny) sarebbe subentrata alla semplicità dei contemplativi. Questa evoluzione è meno visibile in Oriente. È il millennio dell’arte bizantina – dalla caduta di Roma (476) alla caduta di Costantinopoli (1453) – in cui il cristianesimo unisce le tradizioni romane e orientali e da cui emerge, in particolare, l’arte dell’icona: l’arte pittorica sacra per eccellenza – e che vive ancora oggi.
Quest’arte dell’icona potrebbe portarci a definire l’arte sacra come quella concretamente investita dal Trascendente, cioè nella sua stessa “materia”, mentre l’arte religiosa sarebbe legata al Trascendente solo nell’intenzione e nell’uso. Tuttavia, se consideriamo le composizioni religiose (canti, inni, sequenze, drammi liturgici) di Ildegarda di Bingen (1098-1179), che vedeva nella musica una reminiscenza del paradiso, sarebbe difficile distinguere tra musica sacra e musica religiosa, se non fosse per l’uso specificamente liturgico della prima.
A differenza delle arti plastiche o visive, la musica medievale è tanto laica (canto aulico) quanto sacra (canto gregoriano o religioso), ma una notevole differenza tra gli artisti è subito evidente. I canti sacri erano quasi tutti anonimi e, sebbene la storia abbia registrato i nomi di alcuni compositori, si trattava per lo più di collaboratori, come Notker le Bègue (840-912 circa), creatore dei primi tropi, o Tommaso da Celano (1200 circa – 1270), dato come ultimo scrittore-compositore del Dies irae. D’altra parte, le opere dei nobili trovatori e poi dei trouvères erano associate ai loro autori, molti dei quali sono ancora noti, come Chrétien de Troyes (1135 ca. – 1185 ca.) e Riccardo Cuor di Leone (1157-1199). Questo è ben lontano dal culto della personalità degli artisti contemporanei o orchestrato intorno ad essi.
Arte antica e bellezza sacra
Questa “arte della migrazione”, legata alle “Invasioni barbariche”, iniziò intorno al 300 d.C. e si sviluppò in modi diversi a seconda della dispersione delle aree geografiche invase (da qui le “arti barbariche”), prima che la Chiesa, unica forza sovranazionale dopo il crollo dell’Impero romano, le unificasse gradualmente (i popoli germanici si convertirono verso la fine del VII secolo).
L’arte romana – o “arti romane” – copre ancora una volta un intero millennio, dalla fondazione di Roma (753 a.C.) alla sua caduta. A seguito della forte influenza greca fin dalla colonizzazione (II secolo a.C.) e delle province periferiche dell’Impero, i Romani erano tradizionali e conservatori; l’innovazione era tabù: nova era un termine peggiorativo. Solo quando l’arte greca fu ben radicata a Roma (I secolo a.C.) fu difesa dalle nuove tendenze innovative, anche se inizialmente era disprezzata dai conquistatori:
I Greci erano eccessivamente appassionati di statue, dipinti e altri monumenti di questo tipo. La vivacità delle loro lamentele dimostra quanto siano crudeli per loro queste perdite che a voi possono sembrare frivole. […] la loro passione è estrema per tutti questi oggetti, che per noi non hanno alcun valore21.
Cicerone
Va notato che in epoca oligarchica qualsiasi iniziativa artistica dei Grandi doveva rimanere privata; in un contesto pubblico, doveva rimanere anonima. Questo non accade più dall’epoca di Augusto (63-14 d.C.), quando gli artisti romani rimangono generalmente anonimi. Non si conoscono infatti Prassitele o Zeuxis romani, anche se molte delle loro opere meriterebbero una firma. Va detto che il latino “artifex” (artista) significava “artigiano” piuttosto che “creatore”, come dimostrano i loro salari: da 75 a 150 denari al giorno per i pittori (che venivano anche sfamati), da 50 a 60 per gli scalpellini, i marmisti e i mosaicisti (che venivano anche sfamati), rispetto a quello di un lavoratore a giornata in campagna (25 denari)22. La contropartita fu l’estrema diffusione dell’arte – ancora oggi visibile in Italia, dove l’arte è presente in ogni angolo delle città e delle case. A quei tempi chiunque poteva esprimersi artisticamente, e c’erano persino “gallerie” aperte al pubblico (l’Atrium Libertatis, per esempio). Sebbene l’arte e la bellezza fossero diffuse e spesso profane, la teoria della bellezza nella tarda antichità era essenzialmente neoplatonica (Plotino, 204-270): la contemplazione della Bellezza conduceva all’Intelligibile, dove la Bellezza era identificata con l’Unità da cui dipendevano tutti gli esseri. Questo ci riporta all’antichità greca.
Non dobbiamo pensare che i mille anni dell’antichità greca siano monolitici. Ci sono stati diversi periodi molto diversi tra loro: il periodo geometrico (1050-700 circa), il periodo orientalista (700-625 circa), il periodo arcaico (625-480 circa), il periodo classico (480-323 circa) e il periodo ellenistico (323-31 circa). Tuttavia, va detto che, sebbene la bellezza sia un’Idea ampiamente considerata, in tutto questo periodo è ben lontana dall’essere legata all’arte; piuttosto, riguarda la morale e la politica – in Platone (428/427-347/346), per esempio – e, naturalmente, la metafisica.
Aristotele (384-322) non si è occupato né di bellezza né di arte in generale. La sua Poetica deduceva essenzialmente le regole dalle tragedie greche esistenti. Siamo, tipicamente, nella scienza sperimentale da lui fondata. Tuttavia, la sua teoria dell’imitazione (basata sulla mimesi platonica) può essere applicata alle arti: l’epica, la poesia tragica, la commedia, la poesia ditirambica, il suono del flauto e della cetra 23. Esse imitano la natura, o addirittura completano ciò che la natura non può fare, l’importante è, alla fine, la conoscenza delle cose che ne deriva:
L’imitazione è insita nella natura umana fin dall’infanzia; […] la prima conoscenza che acquisisce la deve all’imitazione. III. La prova è in ciò che accade con le opere artistiche…24
Aristotele
Per quanto riguarda il concetto aristotelico di catarsi, la purificazione delle passioni attraverso la rappresentazione drammatica, esso ci mostra solo le funzioni psicologiche o sociali dell’arte teatrale. Tuttavia, pur non occupandosi di bellezza, Aristotele la definisce come “ciò che unisce grandezza e ordine”, e “questa definizione è la più ampia e la più esatta che sia mai stata data”, come dice uno scrittore25 e le varie teorie di Aristotele saranno state vantaggiosamente integrate nell’estetica classica da Boileau (1636-1711), per il quale “la bellezza è la conseguenza della verità” (che ogni buon poeta ha il compito di esprimere producendo un’opera governata dalla naturalezza)26.
Platone, pur essendo ostile alle arti come la poesia e la pittura (sono copie infedeli – eikastikè), è tuttavia l’apostolo della bellezza. Da questo punto di vista, Platone va oltre l'”aporia socratica”, dove la bellezza, comune a una bella vergine, a un bel cavallo o a una bella lira – o anche a un bel vaso – non può essere trovata:
IPPIA: “L’interrogante, Socrate, vuole sapere che cosa è bello”; SOCRATE: “Non credo, Ippia; vuole sapere che cosa è bello”; IPPIA: “E che differenza c’è tra questa domanda e l’altra?”; SOCRATE: “Non ne vedi nessuna?”; IPPIA: “Non ne vedo nessuna”, ecc.27
Platone
Ma si tratta davvero di un’aporia? Non c’è nulla da capire dietro il fatto che una bella donna è più bella di un bel vaso? Eppure il corpo, appena accennato, è celebrato dagli amanti nello Shir ha-shirîm, il Cantico dei Cantici (X secolo a.C.). C. ); “la donna è senza dubbio il più alto tipo di bellezza terrena”, disse molto più tardi l’asceta Ibn Arabî (1165-1240); e Djelâl ud-Dîn Rûmî (1207-1273) proseguì dicendo che: “il poeta contempla nella donna la bellezza eterna che è l’ispirazione e l’oggetto di ogni amore, e la guarda come la mediatrice attraverso la quale questa bellezza increata si rivela ed esercita la sua attività creativa”28. Non ci sarebbe forse una relazione tra la donna, emblema di ogni bellezza, e il genere femminile (in francese) di tutte le arti (gli elenchi di Hegel e di Aristotele)? Quello che Socrate insegna, a nostro avviso, è che il miglior retore si esaurirà nel tentativo di definire razionalmente la bellezza, mentre l’emozione della bellezza porta all’intuizione della sua essenza. Nell’allievo di Platone, Aristotele, il fondatore della scienza, il mathein (conoscere) è altrettanto pathein (sperimentare). Ciò che egli associa è addirittura theomathein e theopathein, perché solo in questo caso la conoscenza teorica è inseparabile dall’esperienza vissuta29.
Se Platone si spinge oltre nel Convivio, è soprattutto esplicito: mostra come si possa passare dal desiderio di corpi belli all’amore per le anime belle, per giungere alla contemplazione della bellezza in sé. L’iniziazione alla bellezza avviene in tre fasi: la purificazione, l’ascesa e la contemplazione, perché la bellezza appartiene a una sfera superiore a quella dei sensi e della comprensione, è qualcosa di intelligibile che si rivolge alla mente:
Deve considerare la bellezza dell’anima come molto più elevata di quella del corpo, così che un’anima bella, per di più accompagnata da pochi piaceri esterni, [210c] basta ad attirare il suo amore e la sua attenzione […] In questo modo sarà portato a considerare il bello nelle azioni degli uomini e nelle leggi, e a vedere che la bellezza morale è ovunque della stessa natura; allora imparerà a considerare la bellezza fisica come poco più che un’inezia. Dalla sfera dell’azione, dovrà passare a quella dell’intelligenza e contemplare la bellezza delle scienze; così [210d] arriverà a una visione più ampia della bellezza, libera dalla schiavitù […]. …] lanciato sull’oceano della bellezza e interamente dedito a questo spettacolo, fa nascere con inesauribile fecondità i pensieri e i discorsi più magnifici e sublimi della filosofia; finché, cresciuto e stabilito in queste regioni superiori, vede una sola scienza, quella della bellezza […].
[210e] Chi si è addentrato nei misteri dell’amore […] con una contemplazione progressiva e ben indirizzata, e ha raggiunto l’ultimo grado dell’iniziazione, vedrà improvvisamente apparire davanti ai suoi occhi una bellezza meravigliosa […]: [211a] bellezza eterna, non generata e non deperibile, priva di decadimento come di incremento, […]; bellezza che non ha forma sensibile […]; che non è né tale pensiero né tale conoscenza particolare; che non risiede in alcun essere […]; [211b] che è assolutamente identica e invariabile in se stessa; da cui partecipano tutte le altre bellezze”. , in modo tale, però, che la loro nascita o distruzione non la diminuisca o la aumenti, né subisca il minimo cambiamento. Quando da queste bellezze inferiori siamo saliti […] [211c] dai bei corpi ai bei sentimenti, dai bei sentimenti alla bella conoscenza, finché, di conoscenza in conoscenza, arriviamo alla conoscenza per eccellenza, che non ha altro oggetto che la bellezza stessa, e finiamo [211d] per conoscerla come è in sé. […] ciò che può dare valore a questa vita è lo spettacolo della bellezza eterna. […] [211e] Quale non sarebbe il destino di un mortale a cui fosse dato di contemplare il bello non adulterato, nella sua purezza e semplicità, […] a cui fosse dato di vedere la bellezza divina faccia a faccia, nella sua forma unica! [E non è forse solo contemplando la bellezza eterna con l’unico organo attraverso il quale essa è visibile, che egli potrà far nascere e produrre in essa, non immagini di virtù, perché non è alle immagini che è attaccato, ma virtù vere e reali, perché è la verità soltanto che egli ama? Ora, è a colui che fa nascere la vera virtù e la nutre che appartiene l’essere custodito da Dio; è a lui più che a qualsiasi altro uomo che appartiene l’essere immortale30.
Platone
Se le formule definitorie “la bellezza è lo splendore della verità”31 o “la bellezza è l’unità nella varietà”, non si trovano “assolutamente da nessuna parte nelle opere di Platone”32, o almeno la prima si trova quasi in Eraclito (fine del VI secolo), per il quale la bellezza è la qualità materiale della verità. Per Pitagora (580-495), sappiamo soprattutto che i numeri e le proporzioni giocano un ruolo importante nell’armonia e nella bellezza, sia essa matematica o cosmologica. Se torniamo al “mitico” Omero (fine dell’VIII secolo), troviamo che parla di “bellezza” e “armonia”, ma manca una teoria esplicita. Sappiamo almeno che, per lavoro artistico, intendeva un lavoro manuale in cui traspariva una divinità attiva.
Il sacro nell’arte, verso una metafisica del bello
Se dobbiamo giungere a una conclusione su ciò che questo panorama retrospettivo ci mostra, diremmo che, a parte il periodo contemporaneo, che ci sembra distorto dall’ateismo dogmatico, è proprio fino ai primi periodi storici (Omero) che vediamo Dio all’opera nella co-creazione umana, anche se questo è al di fuori di un futuro cristianesimo, anche se è al di fuori di ogni creazione artistica.
La nostra conclusione, quindi, è che la bellezza ha una funzione fondante, rivelando la sacralità dell’arte, e che l’arte risveglia una consapevolezza religiosa della bellezza. Poiché la funzione dell’arte è quella di suscitare un’emozione estetica e la bellezza quella di offrire il suo carattere trascendente o sacro, allora tutta la vera arte, anche il cinema33, saranno più o meno sacri e di conseguenza religiosi.
Note
- Nietzsche (1844-1900), “L’insensé” (aforismi 125), Le Gai Savoir (Die fröhliche Wissenschaft, La gaya scienza, The Gay Science, La gaya ciencia), 1882[↩]
- Aude de Kerros, L’Art caché : les dissidents de l’art contemporain (“Arte nascosta: i dissidenti dell’arte contemporanea”), Éd. Eyrolles, 2007.[↩]
- Cfr. il suo Comment je suis redevenu chrétien (“Come sono tornato cristiano”), Albin Michel, 2007.[↩]
- De vita Moysis, PG44, 377B). Eppure fu proprio questo vescovo di Nissa in Cappadocia e Padre della Chiesa del IV secolo (331/335-v. 395) a sviluppare la teologia della Trinità (che non è concettuale).[↩]
- Espressione coniata da Paul Ricœur (De l’interprétation. Essai sur Sigmund Freud (Dell’interpretazione. Saggio su Sigmund Freud), 1965) e che comprende poi Heidegger e Derrida (La métaphore vive/La metafora viva, 1975[↩]
- Cfr. il lavoro di Jean Borella in La crise du symbolisme religieux (“La crisi del simbolismo religioso”), ripubblicato da l’Harmattan, 2008.[↩]
- Diciamo “arte gratuita”, infatti, poiché “Art Nouveau” (o Stile Liberty) si riferisce al breve – ma potente – movimento artistico di fine secolo (1900), che si scontrava con le riproduzioni meccaniche (industriali, in particolare) e si basava sull’estetica delle linee curve (anche in architettura[↩]
- Nicole-Nikol Abécassis, Comprendre l’art contemporain (“Comprendere l’arte contemporanea”), l’Harmattan, 2007, p. 85.[↩]
- Cfr. Gli “artisti” scatologici Manzoni, Roth, Murobushi, Brus, Warhol, Delvoye…[↩]
- In precedenza, in Francia, gli araldi indossavano un “cerchio viola impreziosito da ricami con fleurs-de-lis d’oro, […] con una specie di toque sul capo ricoperto di piume bianche e viola”; Dictionnaire de la langue française ancienne et moderne di Pierre Richelet (1680).[↩]
- Aude de Kerros, “Les reliques barbares vont-elles terrasser les arts conceptuels?” (“Le reliquie barbariche faranno crollare l’arte concettuale?”), MoneyWeek, n. 111, 16-22 dicembre 2010, p. 44[↩]
- Cfr. Estetica o Filosofia dell’arte di Hegel (1770-1831), pubblicata postuma[↩]
- Marges de la philosophie (Margini della filosofia), ed. de Minuit, 1972, p. 7.[↩]
- Gioachino Rossini (1792-1868) la compose nel 1863 (fu eseguita per la prima volta l’anno successivo); fu, a suo dire, “l’ultimo peccato mortale della mia vecchiaia”[↩]
- La Madonna col Bambino, Santa Caterina e un pastore, nota come Madonna del Coniglio (1525-1530 circa) di Tiziano). 1525-1530) di Tiziano Vecellio, detto Tiziano (1488/1490-1576), Parigi: Musée du Louvre.[↩]
- Il monaco e pittore Andrej Rublev (1360/1370-1427/1430 circa) è stato recentemente canonizzato. La sua famosa icona (dipinta tra il 1422 e il 1427 nel monastero della Santa Trinità, vicino a Mosca) è una meditazione sul mistero della Trinità, con una densità ineguagliata da molte esposizioni teologiche. Si può ammirare alla Galleria Nazionale Tretyakov di Mosca[↩]
- Dedicata a Sant’Antonio e proveniente dal convento degli Antonini di Issenheim, la parte dipinta (1512-1516) è il capolavoro di Matthias Grünewald (1475/1480-1528 circa). Realizzati in una pittura “al di là degli stili”: realismo e surrealismo, i dipinti appaiono quindi minimamente datati. Sono visibili al Musée Unterlinden di Colmar.[↩]
- Critique du jugement, suivie des Observations sur le sentiment du beau et du sublime (Critica del giudizio, seguita dalle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime), Paris: Ladrange, 1846, p. 94[↩]
- Magali Lesauvage, “Petite histoire de l’art moderne”, online, URL: http://www.fluctuat.net/5444-Histoire-de-l-art-moderne, visitato il 15 marzo 2011.[↩]
- Bellezza: dal Medioevo al Rinascimento”, serie di visite n. 15/Inter-departements al Musée du Louvre (sala Napoléon), dal 4 febbraio al 18 marzo 2011.[↩]
- Questa è la famosa parola di Cicerone (106-43), “Discorso IX, Seconde action contre Verrès, livre IV, Oratio de Signis”, LIX, LX, Œuvres complètes, t. 2, Paris: Didot, 1869, trans. Guéroult, p. 306. Ciréron denuncia i furti compiuti dall’usuraio Verres, la maggior parte dei quali erano statue[↩]
- Conosciamo queste cifre dall’Editto di Massima (301) di Diocleziano (245-313 ca.), che fissava il vitto per gli artisti. 245-313), che fissava i prezzi dei generi alimentari e dei salari per contenere l’inflazione. Questo Edictum diocletiani et collegarum de pretiis rerum venalium, e in particolare il suo capitolo sui salari (VII. de mercedibus operariorum de aeramento. de mercedibus oper[arior]um), si trova sul sito dell’Université Pierre-Mendes-France de Grenoble, URL: http://web. upmf-grenoble.fr/Haiti/Cours/Ak/Constitutiones/maximum_lauffer.gr. htm, consultato il 27 marzo 2011[↩]
- Poetica, cap. II, 1 e 3-5.[↩]
- Poetica, cap. IV, 2-3.[↩]
- Charles Lévêque, “Esthétique”, Nouveau dictionnaire de pédagogie et d’instruction primaire, ed. Buisson, 1911, ed. elec., INRP.fr (fb document. php?id=2678). L’essenza di questa idea si trova nella “Lettre à Alexandre sur le monde”, La Politique…, Parigi: Lefèvre, Charpentier, 1843, cap. I, 3 e II, 1.[↩]
- Roger Zuber, Dictionnaire du Grand Siècle (dir. F. Bluche), Fayard, 1990.[↩]
- Platone, Ippia maggiore (Sulla bellezza), trad. fr. Émile Chambry.[↩]
- Queste ultime considerazioni e citazioni si possono leggere in Jean Biès, Paysages de l’Esprit, Arma Artis, 2011, pp. 308-311.[↩]
- Questo gioco di parole di Aristotele è riportato da Sinesio di Cirene [Dion, 10], cfr. N. Turchi, Fontes Habitat, cit. N. Turchi, Fontes Historiae Mysteriorum Aevi Hellenistici, Roma, 1930, n. 83, p. 53; Borella, Lumières de la théologie mystique (“Illuminismo della teologia mistica”), Losanna: L’Âge d’Homme, 2002, p. 85. Dom Pierre Miquel lo nota dalla filosofia e dalla mistica pagana: to-i pathei mathos (“soffri e conoscerai”, Eschilo [c. 526-456], Agamennone, 177) all’Epistola agli Ebrei: emathen aph-on epathen (“imparò da ciò che soffrì”, Eb V, 8); Le vocabulaire de l’expérience spirituelle, Beauchesne, 1989.[↩]
- Platone, Ippia maggiore, ibid.[↩]
- Così vediamo Ingres alla ricerca sia della bellezza che della verità; Louis Flandrin, Hippolyte Flandrin, Paris: Renouard, Laurens, 1902, p. 23.[↩]
- Lévêque, “Esthétique”, op. cit.[↩]
- Cfr. Pamphile, “Le cinéma peut-il être un art sacré?” (“Il cinema può essere un’arte sacra?”), Voies de sagesse chrétienne. Méditation sur l’Ascension (“Vie della saggezza cristiana. Meditazione sull’Ascensione”), l’Harmattan, 2006[↩]