Il caso come ammissione di ignoranza

“Tutto nell’universo è il prodotto del caso e della necessità”. Jacques Monod (1910-1976), (Cfr. Le hasard et la nécessitéIl caso e la necessità -, Paris: Seuil, 1970). Falsamente attribuito a Democrito (460-370 ca. a.C.) – in cui il caso è assente come lo è in generale nella mentalità dei greci e in particolare nel pensiero degli atomisti che ne respingono la possibilità (è, infatti, l’esatto contrario che si legge in Leucippo [460-370 ca. a.C.], di cui Democrito fu certamente allievo: “Nessuna cosa diviene senza una causa, ma tutto è oggetto di una legge [la ragione] [λόγος], e sotto il vincolo della necessità”, Antoine Danchin, Entretien avec Émile Noël, 1991, Compte-rendu d’un entretien oral à propos du livre Le Hasard aujourd’hui, Paris: Le Seuil, 1991, online: site NormaleSup.org) -, questo apparente paradosso della conoscenza scientifica dell’infinitamente piccolo (il “nano”) – delle particelle – soprattutto in fisica quantistica – (Va sottolineato che “quantum” e “nano” sono ben lungi dall’essere associati in modo esclusivo: “Il quantum […] è molto spesso macroscopico. Il nano non è necessariamente quantistico”; come sottolinea Simon Diner, “Après la matière et l’énergie, l’information comme concept unificateur de la physique?” (De la science à la philosophie – “Dalla scienza alla filosofia” -, Paris, Albin Michel, 2005, p. 109), e in biologia molecolare, sarà servito infine a portare una migliore distinzione tra il “determinato” e il “prevedibile”.

In effetti, la scienza rimane intrinsecamente una conoscenza per cause (scientia est cognitio per causas),(Questi riferimenti latini ricordano l’opera di formalizzazione della Scolastica e la sua perpetua attualità; si trovano anche, ad esempio, in Roderick Chisholm (1916-1999), in particolare in “Human Freedom and the Self”, Metaphysics: the Big Questions, London: Blackwell, 1998, trans. M. Le Du, Métaphysique contemporaine, Vrin, 2007, pp. 325-341), che il biochimico Antoine Danchin (1944-) ed è espressa oggi come segue:

A mio parere, il caso intrinseco non può essere un concetto scientifico [… perché] non appena usiamo questa parola, diciamo che non sappiamo nulla di ciò che sta accadendo (Danchin, ibid., che preferisce i termini “contingenza” o “opportunismo” a “caso”).

Il che, per inciso, è proprio quello che pensiamo tutti, come si legge ad esempio in un romanzo di Erckmann-Chatrian: “che cos’è il caso, in fondo, se non l’effetto di una causa che ci sfugge” (Erckmann-Chatrian, Contes fantastiques, Hachette, 1860); Paris: J.-J. Pauvert, 1963, p. 349). Così, almeno fino ad Aristotele, “il caso è indeterminato e sempre oscuro all’uomo; non è ragionevole” (Fisica, L. II, cap. V); o ancora, secondo un dizionario standard: il caso è una “potenza considerata come causa di eventi apparentemente fortuiti o inspiegabili” (Larousse, il corsivo è aggiunto), “una circostanza di natura imponderabile o imprevedibile”; definizioni che, implicitamente, rimandano alla distinzione tra “determinato” e “prevedibile”: un evento imprevedibile infatti, non è un evento indeterminato. Resta il fatto che il termine “potenza” sembra abusivo – e, soprattutto, fuorviante. Per Hume, la nozione di causa non può essere derivata da ciò che percepiamo delle cose esterne, e nemmeno, soprattutto, beneficiare della certezza intuitiva; tuttavia, secondo Reid, “la concezione di una causa efficiente può molto probabilmente essere derivata dalle esperienze che abbiamo avuto, nelle prime età della nostra vita, della nostra stessa capacità di produrre questi determinati effetti” [Thomas Reid (1710-1796), Essays on the active powers of the human mind… (1788), London: Tegg, 1843, Essay I, ch. V. § VI, p. 102; traduzione nostra]. Chisholm si ferma a questa “soluzione plausibile” (Chisholm, “Human Freedom and the Self”, op. cit, p. 336), ma per Reid la “causalità” è molto più che “la coscienza che abbiamo di esercitare un qualche potere sui nostri pensieri e sulle nostre azioni”, è, dopo Leibniz, uno dei “Primi Principi delle Verità Necessarie” [Reid, Essays on the Intellectual Powers of Man (1785), Dublin: L. White, 1786, Essay VI, cap. VI, p. 309, traduciamo], che la coscienza degli effetti prodotti rivela. Inoltre, in quale altro modo questa nozione di causa potrebbe essere semplicemente intelligibile? (Monod fa una chiara distinzione tra un’ammissione di ignoranza e i fatti: “Dire della sequenza di amminoacidi in un polipeptide che è “a caso” non è in alcun modo, va sottolineato, un’ammissione di ignoranza, ma una dichiarazione di fatto” (op. cit., p. 127). Tuttavia, “in nessun punto Monod oppone esplicitamente una tale concezione del caso alla natura fondamentalmente deterministica dei processi biochimici che possono essere l’origine causale di queste sequenze” [Francesca Merlin, “Le hasard et les sources de la variation biologique : analyse critique d’une notion multiple”, Philosophie, Université Panthéon-Sorbonne – Paris I, 2009. Si veda (nel libro) il cap. III, § 3: Evoluzione senza cambiamento, cambiamenti senza evoluzione].

L’indeterminismo era solo quello della misurazione

Nella fisica quantistica, l’indeterminismo fondamentale è solo quello della misurazione: i risultati delle misure quantistiche sono infatti dati come perfettamente imprevedibili, mentre la teoria rimane fondamentalmente causale e deterministica (nella misura in cui non c’è misurazione). Sebbene il determinismo macroscopico rimanga compatibile con l’indeterminismo microscopico, molte teorie cercano di eliminare quest’ultimo, o attraverso la determinazione di “variabili nascoste” [che contraddirebbero il primo postulato della fisica quantistica: è il caso di Einstein (1879-1955), Louis de Broglie (1892-1987) o Roger Penrose (1931)], o attraverso una “realtà velata” [Bernard d’Espagnat (1921-2015)], o attraverso un ritorno alla “causa finale” aristotelica – cioè una causa che si dice essere “posteriore” agli effetti [in particolare Bernard d’Espagnat e Olivier Costa de Beauregard (1911-2007)] o retroattiva, o attraverso un cambiamento di paradigma più radicale: facendo appello a entità fisiche più fondamentali dello spazio e del tempo [Tipicamente Abhay Ashtekar (1949-) e Alain Connes (1947-)].

La causa finale non è morta con Dio

Quindi la causa finale non è morta con Dio [in riferimento al famoso apoftegma di Nietzsche: “Dio è morto […] e siamo noi che lo abbiamo ucciso” (La gaia scienza, L. III, 125)]. Il fisico Bernard d’Espagnat (1921-2015) arriva a suggerire una ricerca a monte della relatività del tempo, come “eternità” e “creazione continua” (nozioni teologiche da adattare alla fisica, ovviamente). Suggerisce inoltre di avvicinare la causa finale aristotelica alla sua “causalità estesa”: “poiché il reale è primario rispetto al tempo, la causalità che esso esercita non può essere soggetta a una stretta condizione di anteriorità”. Dalla sua “realtà velata”, egli desiderava avvicinare la potenza e l’atto allo Stagirita e, seguendo Heisenberg (1901-1976), supportato dalla recente teoria della decoerenza, avvicinare la materia prima [“chiamo materia il substrato primario di ogni cosa, da cui essa proviene e che le rimane immanente”, Fisica, I, 9, 192 a 31-32). Idem Wolfgang Smith, “Physique et Causalité verticale”, Physique et métaphysique, Paris: L’Harmattan, 2018] della “funzione d’onda dell’Universo” [Bernard d’Espagnat, Traité de physique et de philosophie, Paris: Fayard, 2002, 19-5-2 (“Causalité élargie”)]. Infine, ci sembra che abbia ragione a paragonare la sua “realtà velata” al mito della caverna di Platone [cfr. anche “Physique et réalité”, in M. Cazenave (ed.) Unité du monde, unité de l’être (Paris: Dervy, 2005, pp. 109-110) dove la non-località (come dimostrato dal fisico John Bell, “ogni teoria realistica che riproduca certe previsioni quantistiche è necessariamente non-locale”, ibidem) rende qualsiasi teoria “ontologicamente interpretabile” non “scientificamente convincente”. Da qui: “ci si può davvero chiedere se […] non sia il mito platonico della caverna l’espressione della verità” (p. 110)], e questo, fino a un parallelo tra il Bene platonico e il “reale”. Si tratta, lungi dall’idealismo, del “realismo delle essenze” di Platone [è a questo realismo platonico delle essenze che si unisce il realismo analitico di Frege: il realismo ontologico del mondo della mente, il suo drittes Reich – il terzo regno accanto a quello delle rappresentazioni (interne, soggettive) e del mondo (esterno, oggettivo) – che costituisce la condizione di possibilità di una conoscenza effettivamente condivisa]. È quanto suggerisce anche il fisico Bryce DeWitt (1923-2004):

Prendere alla lettera la meccanica quantistica significa considerare questa teoria come la vera realtà, cioè come appartenente al regno platonico delle essenze ideali. (Citato da Diner, op. cit., p. 121).

Da parte sua, il matematico, fisico e metafisico Wolfgang Smith risolve il fatto che “nessuno capisce la teoria dei quanti” (Richard Feynman) con la semplice distinzione tra “mondo fisico” e “mondo corporeo”, il primo dei quali non esiste in quanto tale (“da solo”), [come disse Sir Arthur Eddington: “We have discovered a footprint in the sand; and lo, it is our own!” (“Abbiamo scoperto un’impronta nella sabbia; ed ecco, è la nostra!), The Philosophy of Physical Science, Cambridge University Press, 1939, p. 137; cfr. Wolfgang Smith, “The Tripartite Wholeness, Philosophy of Physics”, philos-sophia.org, 15 agosto 2019. Si veda soprattutto il suo The Quantum Enigma: Finding The Hidden Key, Angelico Press, 2005 e coll. (Bruno Bérard dir.): Jean Borella, Wolfgang Smith, Physique et métaphysique, L’Harmattan, 2018] e il loro rapporto è quello del passaggio dalla potenza all’atto.

Nella scienza della storia, abbiamo anche mostrato che la causa finale, o causalità escatologica, propriamente definita, è ineludibile. Respinta, rifiutata, rimane almeno implicita: il postulato di ogni coscienza storica [Jean Borella, Marxisme et sens chrétien de l’histoire (“Il marxismo e il senso cristiano della storia”), coll. Théôria, l’Harmattan, 2016, p. 153]. Infatti, né l’evoluzionismo teilhardiano (che confonde il sopra con il davanti [il sopra non è alla fine quel che c’è davanti, il divenire (temporale) non ha di per sé un termine], né l’hegelo-marxismo (che confonde la durata con l’eternità), tale causalità è di natura necessariamente extra-temporale e la modalità di causalità, metaforicamente, è quella della “causa esemplare” [Jean Borella, ibid, pp. 153-162].

Divenire, per un essere, è “essere” la sua essenza secondo la modalità temporale… È lo stesso essere che è “contemporaneamente” essenza nella sua realtà e natura nella sua realizzazione. La natura è la modalità temporale dell’essenza.

Jean Borella1

In altri termini, tale causalità è dell’ordine della “determinazione conoscitiva o definitoria” rispetto a quelle che sono dell’ordine della “determinazione-produzione” [le altre cause aristoteliche sono così rapportate alla storia da Jean Borella: causa formale (forme politiche: regalità, democrazia, ecc.), causa materiale (o sociale o condizionante – istoriologia), causa efficiente (o antropica: l’uomo come agente storico); ibid., pp. 140-143].

La causa della scomparsa della nozione di causa!

Se in generale [prendiamo qui in prestito la magistrale esposizione di François Chenique: Éléments de Logique Classique, L’art de penser et de juger, l’art de raisonner, (Paris: Dunod-Bordas, 1975), ried. Paris: l’Harmattan, 2006], la causa è ciò da cui una cosa dipende secondo il suo essere o il suo divenire (causas autem dicuntur ex quibus res dependet secundum esse suum vel fieri), tale causalità richiederà: una distinzione reale tra la causa e l’effetto; una dipendenza effettiva nell’ordine dell’essere e, infine, l’anteriorità della causa rispetto all’effetto. Nella dimostrazione aristotelica della causa finale, abbiamo un sillogismo che porta a conoscere (demonstratio est syllogismus faciens scire), conoscendo la causa grazie alla quale una cosa è, sapendo che è la causa di questa cosa e che la cosa non può essere altrimenti (scire est cognoscere causam propter quam res est, quod hujus causa est, et non potest aliter se habere). La conoscenza scientifica pertanto richiederà: la conoscenza della causa, la percezione della relazione tra la causa e l’effetto e la necessità della cosa causata.

Poiché conduce a ciò che è necessario – in opposizione a ciò che è probabile o contingente – dovremmo escludere le scienze non sillogistiche o deduttive, a partire dalla fisica, e, simmetricamente, mantenere solo la matematica e il livello successivo di conoscenza: la metafisica. Da questo punto di vista, una volta accettati alcuni principi – o fissata l’assiomatica – lo stesso livello di certezza deriva formalmente da queste due scienze. Naturalmente, ragionare per sillogismi significa che la scienza aristotelica “conduce a conclusioni necessarie secondo un processo di causalità che non è solo logico ma anche metafisico” (Cfr. François Chenique, op. cit.). Da quel momento in poi, la certezza non è solo formale, purché i principi primi siano “sperimentati” (“vécu”), [“Non è l’intelletto che sa, è l’uomo che sa.”, o ancora: “Forse sarebbe meglio dire, non che è l’anima che compatisce, impara o pensa, ma piuttosto che è l’uomo che fa tutto questo attraverso la sua anima.”, Trattato dell’anima, 408b § 12 (francese trans. di J. Barthélémy Saint-Hilaire, Paris: Ladrange, 1846), online, cfr. Remacle], come il principio di finalità, di causalità o di non contraddizione.

Il Novum Organum di Francesco Bacone (1561-1626) che ha fondato il metodo della scienza sperimentale, afferma naturalmente che “conoscere veramente è conoscere per cause”, anche se non si tratta più di una forza produttrice che genera l’effetto e continua in esso, ma di una causa ridotta a semplice antecedente, costante e incondizionata. L’idea che “le stesse cause producono gli stessi effetti” viene mantenuta solo per il suo aspetto di costante ripetibilità in presenza di due fatti, uno dei quali precede sempre l’altro. La simultaneità metafisica – l’effetto è incluso nella causa o la causa è presente nell’effetto – lascia il posto alla cronologia scientifica. Questo era il punto di vista di David Hume (1711-1776): l’unica esperienza è quella di una successione di fenomeni, ma in nessun caso della “forza” che li lega, un empirismo radicale che ha aperto la strada al positivismo di Auguste Comte (1798-1857): “la scienza rinuncia alla ricerca delle cause” [o ancora: “Tout est relatif, voilà le seul principe absolu”, citato da Roger Verneaux, Histoire de la philosophie contemporaine, Paris: Beauchesne, 1987 (6a ed.), p. 58]. Se Comte rinuncia alla ricerca delle cause è soprattutto perché capisce, seguendo Kant, che dobbiamo limitarci ai fenomeni e alle leggi che possono essere descritte. Peraltro, un tale principio di causalità, che “avrebbe come unica base la probabilità che la serie ordinaria dei fenomeni si verifichi nel caso in esame [… è una nozione] manifestamente insufficiente. Sono connesse molte cose che non si relazionano tra loro come causa ed effetto, come le diverse qualità sensibili di un oggetto” [Jacques Laminne, “Le principe de contradiction et le principe de causalité”, Revue néo-scolastique de philosophie, t. 19, n° 76, 1912, p. 464]. Siamo quindi nel bel mezzo di un sofisma (la cui fonte ideologica è ovvia); come il sofista originario che sosteneva: “grazie al discorso, il vero e il falso non esistono più”, senza rendersi conto che la sua affermazione rimane inintelligibile se le nozioni di vero e falso non hanno alcun significato. Così come questa critica a Hume:

La conoscenza degli eventi passati, se non vi si aggiunge un principio generale, non può informarci sul futuro, per quante esperienze simili abbiamo avuto. Se, tuttavia, concludiamo senza esitazione dal passato al futuro, è segno che la nostra intelligenza possiede altre nozioni e conosce altre verità rispetto alla bruta successione dei fatti (Lamine, op. cit., p. 465).

Sviluppata da John Stuart Mill (1806-1873), questa nozione di causa si trasformerà, attraverso il metodo induttivo, nella nozione di legge (vedi Appendice 5, nel libro).

In ogni caso, il doppio principio di causalità: “Tutto ha una causa e, nelle stesse condizioni, alla stessa causa segue lo stesso effetto”, diventa il doppio principio deterministico: “1° L’ordine della natura è costante, e le leggi non subiscono eccezioni [=alla stessa causa segue lo stesso effetto]; 2° L’ordine della natura è universale, e non ci sono fatti o particolari di fatti che non siano regolati da leggi [=tutto ha una causa]. Questo doppio principio è il determinismo” [cfr. Edmond Goblot, Traité de Logique (1902), ad esempio Paris: A. Colin, 1918, p. 366].

Innegabilmente, questo cambiamento di epoca, da quello della causalità a quello del determinismo, è molto più di un triplice cambiamento di vocabolario: da Cosa a Fatto (da ontologico a fenomenologico; Bacone, XVII sec.), [“Il mondo è l’insieme dei fatti, non delle cose. Il mondo si dissolve in fatti”, Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus (1921), 1.1 e 1.2. P. Klossowski, Paris: Gallimard, 1961, p. 29. Sottolineiamo], dalla Causa alla Legge (da esplicativa a successiva; Hume, XVIII secolo), e dalla Forza alla Funzione (Mill, XIX secolo). [Wilhelm Wundt (1832-1920) ironizzò su questa evoluzione nell’arco di tre secoli: “Nel XVII secolo fu Dio a stabilire le leggi della natura; nel XVIII fu la natura stessa; nel XIX furono gli scienziati a farlo”, “Wer ist der Gesetsgeber der Naturgesetze?”, Philosophische Studien, 1886, t. III, fasc. 3, pp. 493 ss, citato da Théodule Ribot (1839-1916), Idées générales, p. 223. Le leggi prendono infatti il nome dal loro scopritore: legge di Mariotte, legge di Gay-Lussac, legge di Ohm, legge di Weber e così via. Detto questo, con la fisica quantistica ci troviamo di fronte a una realtà che l’intuizione non riesce più a visualizzare. Ad esempio, la funzione d’onda è sì “una rappresentazione matematica della realtà, ma è la rappresentazione più vicina alla realtà fisica che possiamo dare”; Marc Lachièze-Rey, in “Discussione”, De la science à la philosophie, Paris: Albin Michel, p. 58. Questa è addirittura la posizione realista – anche se non intuitiva – secondo cui la funzione d’onda “esiste indipendentemente dalla nostra conoscenza” (p. 59)]: il risultato è uno spostamento dall’entità concreta alla relazione funzionale, all’astrazione e alla matematizzazione sistematica [“Poco importa, in generale, se vediamo nelle equazioni della fisica l’espressione di sostanze, leggi o forze, esse esprimono sempre dipendenze funzionali”, Ernst Mach (1838-1916), Conoscenza ed errore, trad. francese M. Dufour, Parigi: Flammarion, 1908, p. 278; traduzione nostra]. E l’abbandono provvisorio della preoccupazione per la spiegazione è a favore delle relazioni tra i fenomeni, che in ultima analisi sono più descrittive che esplicative [questo è il caso delle teorie del Big Bang, dal momento che dispiegano il loro resoconto solo dopo il presunto inizio; certo, poco tempo dopo (10-43 secondi), ma questo fa la differenza tra una descrizione e una spiegazione].

Detto questo, credere nel determinismo non sembra così lontano dalla ragione determinante di Leibniz, anche se, in quest’ultima, il determinato non è il necessario, tutt’altro:

Non è mai arbitrariamente e senza una ragione sufficiente che si realizza un possibile escludendo gli altri; l’ambiguità dei futuri è sempre un’apparenza, dovuta al fatto che si trascura qualche circostanza determinante

Henri Poincaré (1854-1912) [La science et l’Hypothèse (1902), p. 244)]

Pierre Simon de Laplace (1749-1827), nel suo famoso testo, diceva già la stessa cosa:

Dobbiamo quindi considerare lo stato attuale dell’universo come l’effetto del suo stato precedente e come la causa di quello che seguirà. Un’intelligenza che, per un dato momento, conoscesse tutte le forze di cui è animata la natura e le rispettive situazioni degli esseri che la compongono, se inoltre fosse abbastanza vasta da sottoporre questi dati all’analisi [matematica], abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa, e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi” [Essai philosophique sur les probabilités, Paris: Bachelier, 1825, pp. 3-4). Il principio di indeterminazione (o teorema di indeterminazione) di Heisenberg e il limite temporale dei calcoli necessari possono essere contrapposti al suo “principio di certezza”, che egli considerava eccessivo. Detto questo, “sappiamo che Laplace intendeva con questo una possibilità teorica che avrebbe sempre superato i nostri mezzi pratici”, Hervé Zwirn, “Les limites de la connaissance scientifique”, De la science à la philosophie, op. cit. p. 128. Laplace, infatti, sembra qui descrivere Dio, dopo averne fatto un’inutile ipotesi].

Né, più recentemente, Werner Heisenberg (1901-1976):

Wenn der gegenwärtige Zustand eines isolierten Systems in allen Bestimmungsstücken genau bekannt ist, so lässt sich der zukünftige Zustand des Systems daraus berechnen. [“Se lo stato attuale di un sistema isolato è noto in tutti i suoi dettagli, è possibile calcolare il suo stato futuro”, Erkenntnis, 2 (1931), p. 172; citato da P. H. van Laer, “Causality, determinism, predictability and modern science”, Revue Philosophique de Louvain, 3e série, t. 48, n° 20, 1950, p. 524. Come per Laplace, il principio del determinismo è implicito; d’altra parte, la prevedibilità affermata non sarà sempre possibile (si veda “Sistemi caotici” nel libro)].

Questo determinismo è almeno metodologico, ma una volta messo in pratica, che sia dimostrabile o meno, persiste, perché toglie ogni significato ai risultati ottenuti; e naturalmente include le probabilità. Nel caso di fenomeni complessi con cause multiple e ancora “confuse”, in assenza di altre leggi, il calcolo delle probabilità permette di stabilire leggi statistiche. Sulla base di un gran numero di fatti, i risultati complessivi danno a queste leggi un livello di previsione accettabile: se solo probabile per un particolare individuo, affidabile per l’insieme (come nel caso delle assicurazioni sulla vita):

Durante la ricerca, tutti gli scienziati sono necessariamente deterministi in teoria. Questo vale anche quando si tratta solo di probabilità. La legge dei grandi numeri di J. Bernoulli può essere dedotta solo da ipotesi deterministiche, e le proposizioni del calcolo delle probabilità non hanno valore a meno che le probabilità non siano regolarità mascherate da complicazioni. (Mach, op. cit., pp. 277-278. Le sottolineature sono aggiunte).

Se la probabilità di un fenomeno fisico o chimico appare quindi – e giustamente – come una determinazione effettiva, la nozione moderna di caso nasce invece dallo sviluppo della biologia, che inizialmente vedeva la vita solo come il risultato di una lunga serie di incidenti e l’evoluzione della vita come “un insieme di mutazioni genetiche casuali”, o addirittura come una semplice “fluttuazione fisico-chimica che dura da tre miliardi e mezzo di anni” [Una frase di denuncia di Hubert Reeves, Malicorne, Paris: Seuil, 1990, p. 91]. Questa è la coincidenza di Monod, da cui ha erroneamente tratto conclusioni escatologiche ed etiche:

L’antica alleanza è spezzata; l’uomo sa finalmente di essere solo nell’immensità indifferente dell’universo da cui è emerso per caso. Né il suo destino né il suo dovere sono scritti da qualche parte [Jacques Monod, Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne, Paris: Le Seuil, 1970, pp. 224-225. O denunciato da J. Lejeune: “Un’immensa diceria ritiene che l’uomo sia un’anomalia senza causa, il cui destino, non più del suo dovere, non è scritto da nessuna parte, un oggetto per sempre incomprensibile, il risultato fortuito di un universo impassibile”, Biologia, coscienza e fede, Téqui, p. 8].

È la complessità, che prende il posto del caso, e la sua spiegazione attraverso l’evoluzione, che ha portato un etologo e biologo evoluzionista contemporaneo, Richard Dawkins (1941), a trarre la stessa conclusione atea e amoralista.

I suppose that by that time the main residual reason why I was religious was from being so impressed with the complexity of life and feeling that it had to have a designer, and I think it was when I realised that Darwinism was a far superior explanation that pulled the rug out from under the argument of design. [Suppongo che a quel punto la principale ragione residua per cui ero religioso fosse l’essere così impressionato dalla complessità della vita e la sensazione che dovesse avere un progettista, e credo che sia stato quando ho capito che il darwinismo era una spiegazione di gran lunga superiore che ho tolto il tappeto da sotto l’argomento del design; Simon Hattenstone, “Darwin’s child”, The Guardian (online), 10 febbraio 2003].

Da qui il suo “Orologiaio cieco” del 1986 (The Blind Watchmaker, Paris: Robert Laffont, 1989), che sembra dimostrare i processi evolutivi degli organismi viventi che a lui sembrano ciechi, e la sua recente denuncia dell'”illusione di Dio” [The God Delusion, Paris: Robert Laffont, 2008). Per Dawkins, nulla, a partire dall’esistenza di Dio, sfugge al trattamento scientifico]. Tuttavia, riteniamo che sia stato il suo delirio razionalista a rendergli inaccettabile Dio e a portarlo a un feroce anticlericalismo, arrivando ad affermare provocatoriamente che i postumi della pedofilia sarebbero meno dannosi dell’educazione religiosa (“In una delle lettere che invia regolarmente ai giornali, suggerisce che gli abusi sessuali sui minori nella Chiesa “per quanto spiacevoli, potrebbe causare meno danni permanenti ai bambini di quanto non faccia l’educazione cattolica”; Simon Hattenstone, op. cit.).

Questi due casi, entrambi tratti dal mondo della biologia e dalla sua intrinseca complessità, ci sembrano illustrare, più che il semplice riduzionismo razionalista, il rischio di considerare il caso come causa. Da quel momento in poi, ci sembra che si perda di vista il determinismo e, al di là della serie di cause seconde, la necessità di una ragione sufficiente. Inoltre, in entrambi i casi si tratta di scienza degli esseri viventi, per cui non deve sorprendere che in ogni caso si traggano conclusioni etiche anche se incongrue [per il fisico Steven Weinberg, “Più comprendiamo l’universo, più esso ci appare privo di senso”: Jean Staune, Notre existence a-t-elle un sens? (“La nostra esistenza ha un senso?”), Paris: Presses de la renaissance, 2007, prefazione. Ci sembra significativo che il primo sentimento sia quello del non senso o dell’assurdità e che, man mano che si passa alla vita, si aggiungano poi conclusioni etiche].

Determinato e imprevedibile

È più opportuno considerare che il caso e la necessità siano due poli che costituiscono i due limiti che la natura non raggiunge mai, né da una parte né dall’altra, né nel macrocosmo né nel microcosmo. Questa formulazione di Hubert Reeves combina infatti determinismo e prevedibilità, che devono essere distinte.

La determinazione può essere totale, ma la previsione è sempre limitata dal suo orizzonte predittivo (il periodo di validità della previsione), e questo orizzonte predittivo dipende dalla sensibilità del sistema in esame, naturale o artificiale, ai dati iniziali. Reeves fa l’esempio di tre orologi tipici: “teorico”, “macroscopico” e “microscopico”.

  • L’orologio teorico fornisce l’ora entro un secondo, ma mantiene questa precisione nel tempo. L’orizzonte di previsione è quindi illimitato, pur mantenendo l’imprecisione iniziale di più o meno un secondo.
  • L’orologio macroscopico, inizialmente, fornisce anch’esso l’ora entro un secondo; ma ogni giorno che passa, un nuovo secondo si aggiunge a questo secondo di imprecisione, poiché l’affidabilità del sistema si deteriora nel tempo. È stato calcolato che dopo sessant’anni il sistema è preciso solo entro le sei ore e dopo centoventi anni è totalmente impreciso.
  • L’orologio microscopico, anch’esso regolato più o meno a un secondo, diventerà invece meno affidabile al ritmo del doppio dei secondi per ogni giorno che passa; darà quindi l’ora entro due secondi il secondo giorno, quattro il terzo, otto il quarto e così via. Quindi, in meno di sedici giorni, l’incertezza sarà di dodici ore, cioè totale. In questo caso di degrado non lineare, la sensibilità ai dati iniziali è tale che l’orizzonte di previsione è molto breve. Adattato inizialmente a un millesimo di secondo, questo orizzonte di previsione sarebbe di soli ventisei giorni; utilizzando il tempo più breve possibile: il tempo di Planck (10-43 secondi), questo orizzonte non supererebbe i tre mesi. [Il fatto che l’estrema sensibilità a lungo termine dovuta a una piccola variazione iniziale renda impossibile qualsiasi previsione, è stato illustrato nel 1972 dal titolo provocatorio dato dall’organizzatore a una conferenza del meteorologo Edward Lorenz (1917-2008) all’American Association for the Advancement of Science: “Prevedibilità: il battito d’ali di una farfalla in Brasile scatena un tornado in Texas?”. L’esempio meteorologico si ritrova per la prima volta in Poincaré: “Ritroviamo qui lo stesso contrasto tra una causa minuscola, inapprezzabile per l’osservatore, ed effetti considerevoli, che a volte sono catastrofi spaventose”, Science et méthode, Paris: Flammarion, 1947, p. 69). Poincaré fu senza dubbio il primo a notare questo “piccolissimo cambiamento nelle condizioni iniziali” (Poincaré, Science et méthode, op. cit., p. 78) e “che ci sfugge [ma che può determinare] un effetto considerevole che non possiamo non vedere” (Poincaré, ibid., p. 68), perché “il caso deve quindi essere qualcosa di diverso dal nome che diamo alla nostra ignoranza”,

E per quanto riguarda gli stessi fenomeni casuali, è chiaro che l’informazione fornita dal calcolo delle probabilità non cesserà di essere vera il giorno in cui questi fenomeni saranno meglio conosciuti (Poincaré, ibid., pp. 66-67). Per un commento sul caso in Poincaré, si veda Pierre Cartier, “Le Calcul des Probabilités de Poincaré”, in Éric Charpentier, Étienne Ghys, Annick Lesne (eds.), L’héritage scientifique de Poincaré, Paris: Belin, 2006, pp. 305-307).

Henri Poincaré

In questo caso, il fenomeno fortuito è un fenomeno che non solo precede la conoscenza delle cause che lo hanno determinato, ma che, a seconda dell’imprecisione o dell’approssimazione della situazione iniziale, rimarrà tale:

Ma anche se le leggi della natura non avessero più segreti per noi, potremmo conoscere la situazione iniziale solo approssimativamente. Se questo ci permette di prevedere la situazione successiva con la stessa approssimazione, non ci serve altro, diciamo che il fenomeno è stato previsto, che è governato da leggi; ma non è sempre così, può accadere che piccole differenze nelle condizioni iniziali diano luogo a differenze molto grandi nei fenomeni finali; un piccolo errore nelle prime produrrebbe un enorme errore nei secondi. La previsione diventa impossibile e si ha il fenomeno fortuito. (Poincaré, ibid., pp. 66-67)

Henri Poincaré

Danchin può applicare questa formulazione ai sistemi viventi:

Bisogna sbarazzarsi del caso per rimanere deterministici, ma bisogna ammettere l’imprevedibile, soprattutto nel caso del sistema vivente, che è il prodotto di un compromesso tra un gran numero di soluzioni. Questo compromesso è il risultato della competizione tra diverse soluzioni. Ogni individuo è un compromesso (Danchin, op. cit., n.p.).

Antoine Danchin

Di conseguenza, la “comparsa” del cosmo, o la vita che “appare” dalla materia, o l’uomo che “appare” dalla vita, sembrano esprimere la realizzazione di una potenzialità (pre)determinata. Mentre Mach poteva dire: “è impossibile dimostrare la correttezza della tesi deterministica o indeterministica; perché la questione sia decisa, la Scienza dovrebbe essere completa o impossibile”, quasi al contrario, la possibilità della scienza si sviluppa grazie e tra questi due poli di “imprevedibilità” e necessità, ciascuno dei quali costituisce un limite oltre il quale la scienza non sarebbe più possibile: Una necessità assoluta ridotta alla tautologia “è così perché è così” non sarebbe più scientifica di una totale impossibilità di previsione (capire è prevedere o anticipare).

Nella formulazione di Llya Prigogine (1917-2003) del 1972, “caso” dovrebbe essere sostituito da “imprevedibilità”:

Non è l’instabilità, ma una successione di instabilità che ha reso possibile attraversare la terra di nessuno tra vita e non vita. [La fluttuazione che permette al sistema di uscire dagli stati vicini all’equilibrio termodinamico rappresenta l’elemento casuale, l’elemento del caso. D’altra parte, l’instabilità dell’ambiente, il fatto che questa fluttuazione aumenti, rappresenta una necessità. Il caso e la necessità cooperano invece di opporsi. […] Non sembra irragionevole pensare che il fenomeno della vita sia prevedibile come lo stato cristallino o lo stato liquido. [“La termodinamica della vita”, La Recherche n. 331 (1972)].

Un’illustrazione di questa possibilità della scienza, tra questi due poli, è la teoria del caos deterministico, a condizione però di specificare che si tratta di una teoria della fisica classica, che non si applica direttamente ad altri campi, come la fisica quantistica, ad esempio, dove l’indeterminazione quantistica non ha nulla a che vedere con il caos deterministico e dove l’equazione di Schrödinger (la cui soluzione è la funzione d’onda che calcola la probabilità della presenza dell’elettrone in un qualsiasi punto dello spazio) è completamente deterministica anche se intrinsecamente probabilistica. In parole povere, si parla di sistemi dinamici non lineari, la cui imprevedibilità viene definita “caos” (Un sistema dinamico non lineare può essere detto caotico, ma rimane determinato; si distingue tra processi stocastici o casuali), che è ciò di cui si occupa l’omonima teoria.

Un sistema deterministico (governato da una legge) è tale che il suo stato successivo è determinato dallo stato precedente; per poter fare previsioni, dobbiamo quindi conoscere non solo la legge di evoluzione ma anche lo stato iniziale del sistema. Se cause non individuabili sfuggono alla nostra conoscenza dello stato iniziale del sistema (anche se solo nell’ambito di questa legge), o se la legge stessa induce il caos, allora abbiamo un sistema caotico. Quindi, un fenomeno si dice caotico quando, pur essendo governato da una legge deterministica, è imprevedibile oltre un periodo di tempo relativamente breve.

Infine, va notato che il limite della possibilità di previsione non sembra più essere un limite superabile, dal momento che nell’esempio dell’orologio la precisione iniziale era la massima possibile (il tempo di Planck) o che, in altri esempi, anche una precisione a livello della distanza di Planck (10-31 m) può limitare la prevedibilità. Tale limite alla predizione scientifica è un problema che si affronta proprio con i metodi scientifici (cioè senza ricorrere alla filosofia).

Possiamo riassumere le rispettive situazioni di causalità, determinismo e prevedibilità come segue [Seguiamo in gran parte P. H. van Laer, “Causality, determinism, predictability and modern science”, Revue Philosophique de Louvain, 3e série, t. 48, n° 20, 1950, pp. 510-526]. In primo luogo c’è il principio filosofico di causalità (il principio di ragion sufficiente è ancora più generale, ma, “applicato agli esseri contingenti, questo principio di ragion sufficiente diventa il principio di causalità”); Jacques Laminne, op. cit., pp. 463-464, anche p. 484; “una realtà esercita un’influenza reale sul divenire, sull’essere o sul modo d’essere di un’altra realtà” (Van Laer, op. cit., pp. 510-511. Lo stesso vale per Kant, per il quale il principio di causalità “è un giudizio sintetico a priori che esprime sia una condizione di possibilità dell’esperienza sia la possibilità degli oggetti dell’esperienza. Ma poiché questi oggetti sono fenomeni, e non cose in sé, la condizione in questione è puramente soggettiva” (Laminne, op. cit., pp. 485)]. Certamente, volendo limitare ogni possibilità di conoscenza all’esperienza sensibile, la necessità della causalità si riduce all’ordine psicologico (Hume), (“Il principio di causalità, benché confermato dall’esperienza, non è un mero prodotto dell’esperienza, così come non lo è il principio di contraddizione. Non vediamo mai cose contraddittorie, ma non per questo ne affermiamo l’impossibilità. Allo stesso modo, non osserviamo mai positivamente che una cosa si verifichi senza una causa, ma la certezza che abbiamo dell’esistenza della causa non dipende da questa esperienza”; Jacques Laminne, op. cit., p. 465]; se si nega il potere della conoscenza intuitiva (ciò che ha senso per la mente), [“L’intuizione intellettuale, infatti, non è nostra, e (…) non possiamo nemmeno prevederne la possibilità”, scriveva Kant, Critica della ragion pura, trans. Tremesaygues et Pacaud, P.U.F., p. 226], questo principio non è altro che l’espressione di una forma di pensiero a priori (Kant), (Kant ammette che il principio di causalità è la condizione indispensabile per la conoscenza dell’Universo, ma vorrebbe che il valore di questo principio fosse rigorosamente limitato all’ordine dei fenomeni. Ma come può questo principio, che si applicherebbe a particolari esseri senzienti, non valere più per il tutto? Una simile restrizione è palesemente arbitraria. E, naturalmente, applicando il principio di causalità all’insieme del mondo sensibile (o fenomenico), che è un essere contingente tanto quanto ciascuna delle sue parti, il principio afferma l’esistenza di una causa che non può che essere extrasensibile (o extrafenomenica); cfr. Laminne, op. cit., pp. 466-467]. Ora, ogni essere contingente, cioè che non ha in sé la sua ragion d’essere, dipende necessariamente da una causa, da una realtà estrinseca che determina il suo divenire, il suo essere e il suo modo di essere; per absurdum, non è stato individuato alcun fenomeno che sia venuto fuori dal nulla senza l’attività di alcuna causa. [P. H. van Laer, op. cit., p. 515. La caratterizzazione dell’oggetto quantistico da parte della meccanica quantistica è astratta (un vettore di stato in uno spazio di Hilbert); quindi, se non è una “descrizione realistica”, è perché, ha scritto il fisico Asher Peres (1934-2005), “la meccanica quantistica non è una teoria della realtà”; Simon Dener, op. cit., p. 109].

Una volta stabilito questo principio di causalità, è comprensibile che la natura della causa possa variare. In primo luogo, essa sarà libera (di agire o meno, in un modo o nell’altro), [Così, in Aristotele, “l’idea di caso implica sempre l’idea di libertà” (Fisica, L. II, cap. VI), e, naturalmente, “Credere nel caso è negare la natura; il motore non è meno reale per il fatto di essere invisibile” (ibid., cap. VIII), (ibid., cap. VIII)] o necessaria, cioè la sua azione sarà determinata dalla sua natura; in quest’ultimo caso, siamo di fronte al principio scientifico del determinismo (sia che le cause siano ovviamente meccaniche o meno, ad esempio cause quantistiche). (Potremmo dire che la causa rientra nell’essere, il determinismo nel fenomeno). Va sottolineato che, se questo determinismo è condizionato, nel senso che l’intervento di una causa libera (la costruzione di una diga, l’osservazione di una particella) può interferire e modificare il corso naturale delle cose, non può esistere alcun fenomeno spontaneo: ogni fenomeno è un effetto (L’ossimoro “effetto spontaneo” è quindi un’assurdità)].

Se tutto in natura è determinato, ciò non significa che tutto possa essere previsto; ciò dipende dalla prevedibilità del sistema di fenomeni in esame: se non è conoscibile (stato iniziale e cause in azione), non è possibile alcuna previsione; se è conosciuto ma caotico (sensibile alle condizioni iniziali), la prevedibilità sarà confinata all’interno dell'”orizzonte predittivo” associato; infine, se è conosciuto e non caotico, è possibile solo una migliore prevedibilità (Questo schema integra quello di Van Laer, op. cit, p. 526):

Se non è possibile dimostrare che ogni fenomeno è l’effetto di una causa, è perché un principio primo non può essere dimostrato (per definizione). Ora, il principio di causalità, o più universalmente quello di ragion sufficiente, è uno di questi:

§ 31. I nostri ragionamenti si fondano su due grandi principi, quello di contraddizione, in virtù del quale giudichiamo falso ciò che lo avvolge (ciò che ha a che fare con la contraddizione), e vero ciò che si oppone o si contraddice al falso.

§ 32. E quello della ragione sufficiente, in virtù del quale consideriamo che nessun fatto può essere trovato vero o esistente, nessuna affermazione vera, senza che vi sia una ragione sufficiente per cui sia così e non altrimenti, anche se queste ragioni il più delle volte non ci possono essere note.[(Leibniz, La Monadologia (1714), annotata da É. Boutroux, Paris: Delagrave, 1881].

Leibniz

Se questo principio è nella natura dell’intelligenza, è perché essa è fatta per conoscere la verità; ciò è implicito in ogni conoscenza intellettuale, e “la nostra conoscenza non ha valore oggettivo se la nostra mente non è capace di conoscere la verità”,

Come la nostra mente è determinata ad affermare l’irriducibile distinzione tra l’essere e il non-essere, così è determinata ad affermare che ogni fatto ha la sua ragione, e questa necessità soggettiva corrispondente alla verità oggettiva di questi principi non è altro che la loro autoevidenza (Lamine, op. cit., p. 488).

Jacques Lamine

Che l’autoevidenza, che è un dato di fatto, sia inaccettabile per alcuni, è soprattutto, ci sembra, un’illustrazione dell’illusione di autosufficienza di ogni razionalismo.

Che fine ha fatto la realtà?

La metafisica, ritenuta impossibile (Kant), insensata (Carnap), decostruibile (Derrida) o divenuta ontoteologia (Heidegger), o addirittura morta e parte della storia [Cfr. le analisi di François Nef, Qu’est-ce que la métaphysique?, Paris: Gallimard, 2004; un'”opera salutare perché apre (finalmente! ) la porta a una messa in discussione approfondita di questo dogma sulla fine della metafisica, che per anni ha afflitto il pensiero francese”; Dominique Demange, “Qu’est-ce que la métaphysique? de Frédéric Nef”, Le Philosophoire 3/1999 (n. 9), p. 156. Anche Isabelle Thomas-Fogiel ritiene che “l’aggettivo “metafisico” debba essere spogliato del suo carattere peggiorativo”; op. cit., p. 1], tuttavia ha una reale rilevanza accademica, sia in filosofia sia nel campo della ricerca scientifica (per esempio, le riflessioni ontologicamente fondate sull’intelligenza artificiale, cfr. Nef, op. cit., p. 77). Se la realtà rimane formalmente inaccessibile alla scienza, come diceva il fisico Max Planck (1858-1947):

Dal punto di vista delle scienze esatte, rimane sempre un divario incolmabile tra il mondo fenomenologico e il mondo reale metafisico… In questo obiettivo di un reale assoluto, e nella sua incapacità di raggiungerlo, risiede l’elemento irrazionale insito nell’attività scientifica… Il mondo reale metafisico non è quindi il punto di partenza della ricerca scientifica, ma il suo obiettivo inaccessibile. [Max Planck, L’image du monde dans la physique contemporaine, Gonthier, Paris, 1963 (Das Weltbild der neuen Physik, 1929). La conclusione della sua ricerca, pur essendo vincolante solo per lui, è ancora più lapidaria: Als Physiker, der sein ganzes Leben der nüchternen Wissenschaft, der Erforschung der Materie widmete, bin ich sicher von dem Verdacht frei, für einen Schwarmgeist gehalten zu werden. E così, in base alle mie ricerche sugli atomi, ho capito: Es gibt keine Materie an sich. Alle Materie entsteht und besteht nur durch eine Kraft, welche die Atomteilchen in Schwingung bringt und sie zum winzigsten Sonnensystem des Alls zusammenhält. Da es im ganzen Weltall aber weder eine intelligente Kraft noch eine ewige Kraft gibt—es ist der Menschheit nicht gelungen, das heißersehnte Perpetuum mobile zu erfinden—so müssen wir hinter dieser Kraft einen bewußten intelligenten Geist annehmen. Dieser Geist ist der Urgrund aller Materie (“Come fisico che ha dedicato tutta la sua vita alla scienza più rigorosa: lo studio della materia, sono sicuro di poter evitare il sospetto di essere preso per un visionario. Ecco cosa posso dirvi sulla mia ricerca sull’atomo: non esiste la materia in sé. Tutta la materia nasce e sussiste da una forza che fa vibrare le particelle dell’atomo e mantiene questo sistema solare infinitesimale. Poiché è impossibile dire se esista una forza intelligente ed eterna nell’universo – non spetta all’uomo trovare il moto perpetuo – dobbiamo ammettere che dietro questa forza c’è uno Spirito cosciente e intelligente. Questo Spirito è il principio di tutta la materia”); Das Wesen der Materie [La natura della materia], conferenza, Firenze, 1944; Archiv zur Geschichte der Max-Planck-Gesellschaft, Abt. Va, Rep. 11 Planck, Nr. 1797; Planck aggiunge: “Damit kommt der Physiker, der sich mit der Materie zu befassen hat, vom Reiche des Stoffes in das Reich des Geistes. Und damit ist unsere Aufgabe zu Ende, und wir müssen unser Forschen weitergeben in die Hände der Philosophie” (“Così passa il fisico, che si è occupato della materia, dall’impero della sostanza a quello dello spirito. Così il nostro lavoro si conclude e dobbiamo affidare la continuazione della nostra ricerca alla filosofia”];

o, molto recentemente, il fisico Marc Lachièze-Rey:

La descrizione fisica è deliberatamente riduttiva, in altre parole non si interessa di molte cose. Si rifiuta di prendere in considerazione molte cose perché non ne ha bisogno. Nella concezione quantistica, un cane è una funzione d’onda. Inoltre, non credo che si possa separare la funzione d’onda del cane da quella del resto dell’Universo, perché la concezione quantistica implica una globalità, secondo la quale esiste una sola funzione d’onda, quella dell’Universo. […] La realtà è lì, e nessuno può esaurirla, né dando un nome al cane, né amandolo, né sezionandolo. Ma ripeto che la fisica non ha bisogno di supporre che questa realtà esista o non esista. (In “discussione”, De la science à la philosophie, op.cit., pp. 60-61);

è che essa è in effetti di competenza della metafisica, fondata sull’intelligenza, distinta dalla ragione, come senso dell’essere (così come l’occhio è l’organo della vista). [Cfr. “Vérité ou réalité (le choix impossible)” nel libro].

Così Bernard d’Espagnat ha ragione a suggerire di considerare, in fisica, una metafisica platonica (“simbolo della caverna”), (Jean Borella suggerisce giustamente di sostituire “mito” con “simbolo”; cfr. Penser l’analogie, Ginevra: Ad Solem, 2000, pp. 209 ss.) o una metafisica aristotelica (potenza e atto), che corrisponde a un mondo che non c’è del tutto, che non è del tutto dato.

Questa “assenza ontologica” del mondo è sempre più evidente in fisica, dove, in rottura con l’ontologia ancestrale della sostanza e con quella più recente, ma sempre materiale, della materia-energia, sta emergendo una “ontologia dell’assenza di substrato”:

La teoria dei campi, la meccanica quantistica, la teoria dell’informazione e la teoria dei sistemi dinamici stanno lavorando insieme per portare concetti smaterializzati come processo e informazione in primo piano nella nostra visione del mondo. […] Questo è il mondo del segnale. Un mondo senza oggetti, dove solo i segni contano. Una cultura dominata dall’informazione multiforme” (Simon Diner, op. cit., pp. 92, 96). Diner mette in discussione il primato della tecnologia a favore dell’ideologia che la precede, citando i lavori sulla transizione al Neolitico o l’osservazione di Heidegger: “La nostra epoca non è un’epoca tecnologica perché è un’epoca della macchina, ma è un’epoca della macchina perché è un’epoca tecnologica” (ibid., p. 94). Per i nostri scopi qui, questo non cambia la necessità di un approccio metafisico, se non per rafforzarla].

Note

  1. Ibid., p. 160; Corsivo nostro.[]