di Paul Ducay su Philitt.fr
Bruno Bérard ha conseguito un dottorato presso l’École Pratique des Hautes Études (Religioni e Sistemi di Pensiero). Consulente di strategia e acquisizioni nell’industria aeronautica, è autore di saggi di metafisica e filosofia politica, tra cui Jean Borella: la révolution métaphysique, après Galilée, Kant, Marx, Freud, Derrida (2006), nonché Métaphysique du paradoxe (2019) e La Démocratie du futur (2022), pubblicati da L’Harmattan. Con il teologo Johannes Hoff, la cui ricerca presso il Von Hügel Institute dell’Università di Cambridge si concentra sulle sfide antropologiche della trasformazione digitale[1], ha pubblicato Conversazioni con ChatGPT sull’uomo, il mondo, Dio e l’intelligenza artificiale: Intelligenza o ragione artificiale (L’Harmattan). In esso, rivela che il termine convenzionale AI è costruito su un profondo malinteso: la moderna confusione dell’intelligenza globale con la ragione calcolatrice.
Il recente best-seller di Raphaël Enthoven “L’Esprit artificiel” (La Mente Artificiale) è stata la prima attesa reazione dell’uomo contemporaneo all’irruzione dell’intelligenza artificiale nella vita di tutti i giorni, grazie all’agente conversazionale ChatGPT sviluppato dall’azienda americana OpenAI. Tuttavia, questa reazione spontanea non va oltre il pensiero del romantico, che ritiene sufficiente opporre alla razionalizzazione oltraggiosa dell’esistenza i diritti del sentimento. Quindi si oppone giustamente alle macchine, come spiega Johannes Hoff, che “i computer non si grattano la testa perché gli enigmi del mondo li portano ai limiti del concepibile”, che “i computer non sognano un futuro dove nessuno è mai stato”. In effetti, accontentandosi della “definizione moderna di intelligenza”, l’osservatore critico di questo progresso tecnologico nota come questa nozione umana di intelligenza includa ancora aspetti troppo ampi per essere applicati adeguatamente all’IA: in particolare, Bruno Bérard elenca “la generazione di coscienza, autonomia volitiva e comportamento affettivo”. Al lucido romantico non sembrerebbe mai ragionevole attribuire queste righe di Musset a qualsiasi macchina:
Se solo fosse ancora possibile sognare ad occhi aperti!
E se il sonnambulo, allungando la mano,
Non sempre la natura è stata inflessibile.
che si infrange la fronte contro una colonna di bronzo.
In assenza di incarnazione, la cognizione del sistema informatico non sarà mai soggetta alla tragica alternanza dell’essere umano, la cui vita oscilla tra il sogno e la prova della realtà, che lo fa uscire dal sogno per confrontarlo con nuove verità: perché non solo l’IA non cerca la verità, ma la probabilità, ma anche, per essa, la verità non può mai essere il frutto grazioso di una prova. Quindi, prima di essere intelligente, la prima obiezione è che l’AI è artificiale.
L’inversione moderna dell’intelligenza
Tuttavia, il dubbio rimane. Queste precauzioni fenomenologiche, per quanto necessarie e giustificate, non forniscono una soluzione duratura all’ipotesi apparentemente molto paradossale dell’incarnazione della macchina. Nella prefazione al libro, la ricercatrice Sarah Spierkermann, che dal 2009 presiede l’Istituto per i Sistemi Informativi e la Società presso l’Università di Economia e Commercio di Vienna, definisce un “sistema AI” come “un sistema informatico integrato virtuale e/o fisico, in grado di eseguire in modo indipendente un’ampia gamma di funzioni cognitive […] basate (…) su insiemi di dati non strutturati e ricchi di contenuti”[2]. Ora, data la progressiva sofisticazione delle protesi mioelettriche che ricostituiscono le sensazioni nervose degli organi amputati, non è affatto vietato, a queste condizioni, prevedere l’inserimento di un tale sistema informatico all’interno di un sistema fisico che consentirebbe all’IA di accedere agli stati di coscienza dell’essere vivente incarnato. Di fronte a questa possibilità, per quanto ipotetica, il riferimento al fenomeno della carne non è più sufficiente per stabilire una chiara distinzione tra l’umano e il robot. In realtà, le avvincenti riflessioni di Bruno Bérard hanno il merito di mettere in campo una critica dell’IA che non si limita più alle condizioni di manifestazione dell’intelligenza, alle quali si limita la fenomenologia della carne, ma si estende all’essenza stessa dell’intelligenza considerata in sé e distinta da altre essenze, perché se è vero che “nulla è nell’intelligenza che non sia stato prima nei sensi”, come insegnava Aristotele, dobbiamo anche notare con Leibniz: “se non l’intelligenza stessa”.
In effetti, è la natura stessa dell’intelligenza che si è persa nella modernità: “l’appellativo del 1956 (del matematico e informatico John McCarthy), ‘Intelligenza Artificiale’, è molto presente nell’aria dei tempi moderni”. Questo appellativo è il risultato di una confusione tra ragione e intelligenza che caratterizza l’intera antropologia stabilita dai filosofi moderni. A questo proposito, Bruno Bérard riprende le analisi decisive dell’antropologia metafisica dell’ultimo grande filosofo neoplatonico dell’epoca contemporanea, Jean Borella, che, in La Charité profanée (riedito con il titolo Amour et vérité nel 2011), traccia la genesi di questa ‘riduzione razionalista’ in due fasi. La prima fase fu la confusione tra intellettualità e razionalità da parte di René Descartes che, nel testo latino della sua Seconda Meditazione, stabilì una pura equivalenza tra ‘intelletto’ (intellectus) e ‘ragione’ (ratio), in contrasto con la tradizione filosofica precedente che, da Sant’Agostino a San Tommaso d’Aquino, li aveva quasi sempre distinti. La confusione delle due facoltà fu seguita dalla loro inversione. Come riassume Bruno Bérard, “l’inversione di queste due facoltà, ragione e intelligenza, è opera di Kant, che ha posto la ragione al vertice delle facoltà cognitive negando la possibilità dell’intuizione intellettuale”. Per Kant, la facoltà superiore dell’intelletto diventa “comprensione” (Verstand, intellectus), inferiore e subordinata alla ragione (Vernunft), che viene collocata in una posizione superiore, senza ovviamente attribuirle le antiche capacità dell’intelletto, quelle di contemplare intuitivamente le essenze e i principi primi dell’essere e del conoscere. “Dalla confusione all’inversione negativa, questo è il percorso del pensiero occidentale”[3]: la decostruzione della metafisica da parte dell’umanesimo moderno è paradossalmente ciò che ha reso possibile questa “diffamazione dell’uomo” (S. Spierkermann) da parte della civiltà tecnologica.
I computer e l’oblio di Platone
Non sorprende quindi che i tecnici e i consumatori della tecnologia moderna attribuiscano a questa forma di sistema informatico dotato di indipendenza organizzativa l’epiteto improprio di ‘intelligenza’. Ma per quanto comodo possa essere, questo appellativo non è meno ‘fuorviante’, poiché confonde due facoltà rigorosamente distinte: da un lato, ‘la ragione è un potere di calcolo [e] di ragionamento sotto l’egida della logica’, mentre, dall’altro lato, ‘l’intelligenza è la facoltà di comprendere questi calcoli e ragionamenti’. La differenza tra ragionamento e comprensione (o intelligere) ci viene fornita da San Tommaso d’Aquino che, nella Summa contro i Gentili (I, 57, §4), “distingue sottilmente tra l’atto stesso del ragionamento, che consiste nel ‘passare dai principi alle conclusioni’, e il ‘giudizio su un argomento’, che consiste nel ‘guardare (inspicere) come la conclusione segue le premesse, considerandole entrambe insieme'”[4]. Tuttavia, il modello computazionale del sistema informatico non incorpora in alcun modo un tale ‘sguardo’, una tale contemplazione della necessità che lega le premesse di un ragionamento vero e non solo probabile.
La confusione tra intellettualità e razionalità, così caratteristica dell’interpretazione dominante della natura e dei poteri dell’IA, è quindi il risultato di una svista di Platone 1. Nello stesso modo in cui abbiamo erroneamente preso la democratizzazione dell’informazione per una democratizzazione della conoscenza, dimenticando la grande lezione del Teeteto in cui Platone spiega come non sia sufficiente possedere un’informazione, anche accurata, per possedere una conoscenza su di essa – perché è comunque necessario saperla giustificare e dimostrare in modo rigoroso – allo stesso modo, abbiamo dimenticato questa “distinzione immemorabile, formulata da Platone (Repubblica, VI, 511d-e): da un lato, la conoscenza ipotetico-deduttiva, il ragionamento discorsivo (dianoia) della ragione (ratio) e, dall’altro, la conoscenza per intuizione intellettuale (noèsis) operata dall’intelligenza (noûs, intellectus)”.
Va detto, quindi, che i problemi posti dall’IA ci impongono di tornare ai principi dimenticati della metafisica tradizionale, e in particolare di riscoprire la natura e le implicazioni dell’intuizione intellettuale. Naturalmente, dobbiamo fare attenzione a non ridurre le “tecnologie ‘trasformative’ contemporanee” a “pappagalli statistici”, come avverte Johannes Hoff, perché “non si accontentano di riprodurre dati prestabiliti, ma incorporano un certo livello di casualità che può sorprenderci”. In particolare, osserva Bruno Bérard, queste tecnologie sono “abbastanza sofisticate da consentire un miglioramento ricorsivo, almeno sotto forma di funzione di autoapprendimento”. Ma “riconoscere volti o parole, vincere giochi strategici, automatizzare automobili, simulare operazioni militari, organizzare dati complessi, e così via. Tutto questo è puramente una questione di programmazione, calcolo e ragionamento automatizzato“. Tuttavia, “riconoscere il discorso umano o organizzare dati complessi” non è assolutamente la stessa cosa di “comprendere il discorso umano o interpretare dati complessi”. La riscoperta di teorie della conoscenza molto più complete e prive di ambiguità rispetto a quelle che si sono affermate dopo la confusione cartesiana sta quindi forzando la chiarezza: la lettera “I” in “AI”, che sta per “intelligenza”, “dovrebbe de jure essere sostituita da una ‘R’ per il termine ‘ragione'”.
L’inevitabile perdita di progresso
La comprensione della natura non intelligente, ma ratiocinante della Ragione Artificiale (AR) dovrebbe a sua volta consentire un uso razionale, piuttosto che affascinato, di questa serie di strumenti, che non deve oltrepassare la sua funzione di strumento. Secondo Bruno Bérard, il loro “uso improprio”, sia da parte dell'”utente”, sia perché si tratta di una “tecnologia imperfettamente padroneggiata”, o di una “combinazione dei due”, potrebbe portare a rischi potenzialmente molto gravi, in un momento in cui lo sviluppo dell'”energia mentale [accumulata] dall’umanità” dall'”entrata in servizio del calcolatore automatico a sequenza IBM o Mark I” nel 1944 tende a raggiungere “il livello dell’energia meccanica più distruttiva (bomba atomica)”. Per questo motivo, l’unico tipo di utilizzo appropriato per la Ragione Artificiale, osserva Johannes Hoff, è quello “più esplorativo e dialogico”, che consiste nell’utilizzare i suoi sistemi come “strumenti collaborativi che aumentano la nostra intelligenza, piuttosto che rispondere semplicemente a domande preformulate”. In caso contrario, lo sviluppo dell’informazione sarà inversamente proporzionale alla conoscenza e alla prudenza di un’umanità sempre più schiava dei propri strumenti, in cui continua ad esternare la propria capacità specifica di agire e ragionare.
Un’antica meditazione cinese mostra, tuttavia, che la forma di utilizzo non è sufficiente per evitare il problema. Mentre i bisogni vitali non possono superare un certo limite (“per esempio, nessuno vorrà o potrà mangiare cinque pasti al giorno”), “i bisogni non vitali, invece, sembrano indefiniti, superando ciò che la terra può fornire”. Ora, nel IV secolo a.C., il saggio Zhuang Zhou (cap. XII, 11) utilizza la parabola di un Giardiniere che è esausto per il fatto di scendere costantemente sul fondo di un pozzo per riempire la sua brocca d’acqua, e al quale Zigong offre di regalargli un “chadouf”: una “macchina fatta di legno con una parte posteriore pesante e una parte anteriore leggera”, “che attinge l’acqua alzando il braccio”. A questa proposta, il saggio Giardiniere offre una risposta che non ha perso nulla della sua attualità (traduzione di J.-L. Lafitte):
Ho sentito il mio maestro dire che chi usa l’artificio lavora con l’artificio, che chi pensa con l’artificio perde la sua purezza, che chi perde la sua purezza perde la sua pace mentale e che la Via non sostiene chi ha perso la sua pace mentale. Non è che non conosca i vantaggi di questa macchina, ma mi vergognerei di usarla (Zhuangzi, XII, 11).
Zhuang Zhou spiega, con le parole di Bruno Bérard, “che il beneficio quantitativo non è tutto – proponendosi essenzialmente di creare nuove avidità – e che dobbiamo anche considerare che lo strumento trasforma la persona che se ne appropria, così come la società nel suo complesso”. Il progresso quantitativo può essere accompagnato da una regressione qualitativa, così come un beneficio qualitativo in un aspetto può essere accompagnato da una perdita qualitativa in un altro: anche in questo caso, basta pensare a Platone, per il quale la scrittura era un rimedio collettivo contro l’oblio, ma un veleno personale per la memoria. E cosa perdiamo esplorando l’abisso tra la complessità sfrenata della tecnologia e la conoscenza sempre più tenue del pubblico delle sue macchine? Lo sviluppo tecnico nel mondo moderno non consolida forse sempre più il meccanismo di oppressione che Simone Weil ha identificato nel divorzio tra ‘coloro che pensano’ e ‘coloro che fanno’?
[1] Legga il suo articolo : https://metafysikos.com/it/la-teologia-dopo-la-trasformazione-digitale/
[2] Legga il suo articolo: https://metafysikos.com/it/sulla-differenza-tra-intelligenza-artificiale-e-intelligenza-umana-e-sulle-implicazioni-etiche-dellintelligenza-artificiale-e-dellintelligenza-umana-quando-vengono-confuse/
[3] Jean Borella, Amour et vérité. La voie chrétienne de la charité, cap. VII, 3, 1: “Intellect et raison”, L’Harmattan, coll. Théôria, Paris, 2011, p. 112.
[4] Michel Nodé-Langlois, “L’intuitivité de l’intellect selon Thomas d’Aquin”, Revue Thomiste, No. 100, 2000, p. 199, n. 118.
Note
- cfr. https://philitt.fr/2023/12/07/lintelligence-artificielle-loubli-de-lart-de-la-memoire/[↩]