Johannes Hoff è professore di Teologia Dogmatica presso l’Università di Innsbruck e Senior Research Fellow presso il Von Hügel Institute dell’Università di Cambridge. La sua ricerca si concentra sulla tradizione premoderna del misticismo filosofico e sulla sfida antropologica della trasformazione digitale.
Questo articolo è un’introduzione al suo libro Verteidigung des Heiligen: Anthropologie der digitalen transformation, Herder, 2021 (Antropologia della trasformazione digitale. Défense de la sainteté, che sarà pubblicato in Théôria da L’Harmattan).
Riassume i risultati della ricerca di questa monografia sulla trasformazione digitale.
- Il pregiudizio dell’automazione moderna
- Il triangolo natura, tecnologia e cultura
- Il concetto di distruzione della libertà delle tecnologie digitali
- Bolle filtranti, camere a eco e macchine a dispersione
- Tecnologie chiave : L’ABC della spiritualità cristiana
- Proskynesis: L’irriducibilità degli oggetti sacri
- Un appello per la sacralità delle pietre, dei luoghi e dei siti
- Note
Il 9 gennaio 2007, il fondatore di Apple Steve Jobs ha presentato un nuovo dispositivo digitale alla Macworld Conference & Expo di San Francisco con un’ambiziosa frase di apertura: “Ogni tanto arriva un prodotto rivoluzionario che cambia tutto”. Questa affermazione si è mai concretizzata? All’epoca, era in corso una guerra tra Nokia e Apple. I sostenitori di Nokia avevano diffuso la voce che i telefoni di Apple Inc, in particolare l’iPhone lanciato da Jobs, non erano validi. Questa previsione non era infondata: Quando il nuovo terminale di Jobs è caduto, si è rotto, la sua funzionalità era mediocre, doveva essere ricaricato in continuazione, e così via. Cosa si poteva fare con uno strumento del genere nella vita quotidiana? Ma la rivoluzione di Jobs ha spazzato via tutti i prodotti concorrenti che non si ispiravano al suo nuovo prodotto.
Le donne manager dell’IT descrivono ora questo cambiamento epocale come una rivoluzione nei valori dell’economia digitale del 21 secolo1. Da allora, gli artefatti tecnici non sono più neutri in termini di valore – sono persino erotici. Jobs ha introdotto nel mondo la “musica toccabile”: “Puoi toccare la tua musica! È così bello! Nel videoclip corrispondente, che si può vedere ancora oggi su YouTube2, vediamo una proiezione dell’album dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band accanto al fondatore di Apple su un iPhone sovradimensionato. Dopo che Jobs tocca la copertina, viene riprodotta la melodia: « Lend me your ears and I’ll sing you a song … With a little help from my friends » (“Prestami le tue orecchie e ti canterò una canzone… Con un piccolo aiuto da parte dei miei amici“). La scelta di questa canzone era simbolica. Oggi, il nostro piccolo amico è sempre a portata di mano, sempre pronto ad offrire un aiuto confortante a chi si sente solo. Da allora, viviamo in un mondo in cui chi ha dimenticato il proprio smartphone si sente come un uomo colto dell’inizio del XX secolo che ha dimenticato i pantaloni sul tram, o una giovane madre della fine degli anni ’50 che ha dimenticato il proprio figlio durante lo shopping.
Il pregiudizio dell’automazione moderna
In questo contesto di innovazione, qual è la sfida della trasformazione digitale? Non si può negare che le tecnologie digitali – terminali, ‘intelligenza artificiale’, robot, browser, droni, ‘social network’ e così via – abbiano trasformato la nostra vita quotidiana a velocità vertiginosa negli ultimi due decenni. – hanno trasformato la nostra vita quotidiana a velocità vertiginosa negli ultimi due decenni. Ma cosa significa questo? Significa che le macchine hanno iniziato a sostituire gli esseri umani, come aveva previsto Ray Kurzweil, ingegnere capo di Google, all’inizio del millennio?
Sulla scia dell’era Trump, il mondo della tecnologia ha iniziato a rendersi conto che questa previsione non era altro che un “aringa rossa” 3, un “depistaggio“: una distrazione dalle vere sfide della trasformazione digitale. Il problema non è che le macchine sono superiori agli esseri umani in alcune aree funzionali e saranno ancora migliori in futuro. Il vero problema sta nel fatto che gli esseri umani moderni tendono ad adattare il loro comportamento al modo in cui funzionano le macchine informatiche digitali – e che questo processo sta già mettendo in pericolo la nostra convivenza democratica e civile.4
Da un punto di vista antropologico, questo comportamento di assimilazione deve essere considerato irrazionale. Come hanno dimostrato le recenti ricerche neuroscientifiche sui fondamenti emotivi e fisici dell’intelligenza umana, le macchine non sono intelligenti5. Non conosciamo nemmeno il percorso tecnico da seguire per trovare macchine che meritino di essere chiamate “intelligenti”. Ma questo non significa che dovremmo prendere alla leggera l’esperimento sociale di controllare il comportamento umano con calcolatori probabilistici. La convinzione che gli artefatti tecnici siano superiori a noi è infatti profondamente radicata nella nostra visione moderna del mondo e dell’uomo: il problema non è che le macchine siano superintelligenti, ma che gli esseri umani moderni tendono a pensare che le ‘intelligenze artificiali’ siano intelligenti.
Questo fenomeno è noto come ‘AutomationBias’: la tendenza a favorire le procedure decisionali automatiche perché riteniamo che siano più giuste, più imparziali, più incorruttibili, più obiettive e così via. Se analizziamo le radici culturali di questo atteggiamento errato, ci imbattiamo in una serie di rotture nella storia delle idee e dei media che risalgono al tardo Medioevo. La convinzione che gli artefatti e i ‘fatti’ associati siano neutrali e non abbiano alcun potere sull’uomo civilizzato è il rovescio della medaglia della convinzione moderna che gli strumenti, gli artefatti e le macchine possano essere ridotti a strumenti utili il cui funzionamento può essere controllato e messo al servizio di obiettivi strategici.
L’etnologo Karl-Heinz Kohl ha dimostrato al volgere del millennio che questa credenza aveva i piedi d’argilla nella sua monografia Die Macht der Dinge6. In esso, Kohl racconta la storia degli oggetti magici e mostra come è nata la nozione moderna di feticcio – in particolare, la convinzione, inizialmente diffusa soprattutto nei Paesi protestanti, che l’uso di oggetti magici o sacri fosse di per sé da considerare irrazionale o incivile. Secondo Kohl, già nel XIX secolo si iniziò a capire che questa credenza aveva caratteristiche irrazionali. Era accompagnata da meccanismi di repressione che rendevano la nostra tendenza ad attaccare il cuore agli oggetti magici tanto più forte quanto più pensavamo di averla superata. Non dobbiamo guardare oltre il capitolo sul feticismo delle merci nel primo volume dell’opera principale di Karl Marx, Il Capitale (1867), o le analisi di Siegmund Freud sul feticismo sessuale.
Alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, questa conoscenza era ancora il privilegio delle élite colte; oggi, ha una connotazione egualitaria. Non è più necessario avere un baccalauréat per capire che siamo tutti feticisti. E questo mina la pretesa delle élite di un tempo di aver ‘criticato’ questa inclinazione dell’uomo verso l’uomo, o addirittura di aver trovato un modo per liberare l’umanità dagli attaccamenti ‘non illuminati’.
L’evento storico e culturale più importante per la convinzione che il progresso della civiltà nei tempi moderni ci avrebbe portato prima o poi a un ‘mondo disincantato’, che sarebbe andato oltre l’attaccamento agli oggetti sacri, fu la Riforma. Una famosa incisione della Guerra Civile inglese illustra le tracce che questo evento ha lasciato nella nostra memoria culturale. Mostra due soldati che maneggiano un piano d’appoggio, altri due soldati che distruggono un paravento e un quinto soldato che strappa un crocifisso dall’altare maggiore. L’incisione reca il seguente titolo: “I soldati diretti a York si trasformarono in riformatori, abbatterono le immagini papiste e distrussero i paraventi”7. Gli altari furono trasformati in tavoli. Perché sono stati trasformati in tavoli? Perché un tavolo è un oggetto utilitario il cui valore si misura in base alla sua utilità. I tavoli sono utensili, strumenti che, a differenza degli oggetti sacri, non hanno alcun potere su di noi. Ed è per questo che gli altari devono essere sostituiti da tavoli, e il “sacrificio della Messa” dei papisti da una “cena” commemorativa.
Questo messaggio visivo ci porta direttamente al punto teologico della guerra moderna contro il feticismo, e quindi a ciò che prima o poi avrebbe colpito la tradizione cattolica in una forma più moderata8: Il cristiano moderno è in contatto diretto con Dio – non ha bisogno di cappelle, statue della Vergine o rosari per pregare, né di icone, altari o altri manufatti sacri. A rigore, non ha nemmeno bisogno dei sacramenti della tradizione cristiana e dell’autorità sacra (sacra potestas) dei vescovi e dei sacerdoti ordinati, che è essenziale per riceverli. Questi orpelli possono essere tagliati prima o poi – proprio come le mani e i nasi dei santi e delle statue della Vergine sono stati tagliati durante le ricorrenti rivolte nella storia della ‘libertà’ moderna. Nella modernità cattolica, gli atti aperti di violenza iconoclasta sono stati certamente respinti. Ma questo non ha impedito ai cattolici di trasformare gli oggetti sacri, le finzioni sacre e i manufatti iconici in strumenti. Dal periodo barocco in poi, questi divennero sempre più strumenti di propaganda per la politica identitaria del clero. I cattolici alfabetizzati liturgicamente e teologicamente potrebbero risentirsi del fatto che, nell’era dello psicocapitalismo, questa politica venga dirottata da nuove forme di politica identitaria digitale. Ma a questo punto, siamo interessati a una domanda più fondamentale: perché la moderna guerra al sacro, e la comprensione strumentale degli artefatti tecnici che è alla base di questa guerra, è stata un’aberrazione della storia culturale che ha aperto un campo di battaglia illimitato per le pratiche di manipolazione psicocapitalista delle società di controllo tardo-moderne.
Il triangolo natura, tecnologia e cultura
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo innanzitutto esaminare più da vicino il ruolo che gli artefatti tecnici svolgono nella nostra vita. Alla luce delle recenti ricerche in antropologia e filosofia della tecnologia, questo ruolo può essere illustrato da un triangolo che modella la natura dell’uomo. L’uomo è una sfera vivente che rotola sui tre angoli di un triangolo equilatero in cicli regolari. Se non abbiamo una visione equa dei tre angoli e se non coltiviamo la loro interazione, la sfera esce dalla curva e perde la sua vitalità. Quali sono i tre angoli?
Sulla scia della Riforma, la modernità ha prodotto una gamma diversificata di visioni dell’uomo, che hanno tutte lo stesso difetto di costruzione: ci fanno perdere di vista un angolo del nostro triangolo. L’enfasi è posta sulla presunta autonomia di un soggetto libero che crea culture e strumenti, oppure sulla visione della nostra natura biologica che ha dominato sulla scia di Charles Darwin. Il fatto che l’uomo sia anche un essere culturale non viene affatto preso in considerazione, o solo sotto forma di una finzione che è subordinata ai poli della tecnologia e della natura e può quindi essere trattata come una questione privata.
Nei miti della tarda modernità, è la seconda immagine dell’essere umano a dominare, ossia l’enfasi sulla nostra natura biologica. L’atteggiamento degli psichiatri e dei medici che dicono ai loro pazienti che i disturbi psico-comportamentali sono il prodotto di disturbi metabolici nel loro cervello è esemplare a questo proposito.9 Chi parla in questo modo può riferirsi a Darwin e ai suoi epigoni neodarwiniani. Ma questo non cambia il fatto che la visione darwiniana dell’uomo è oggettivamente falsa. E questo per motivi tecno-antropologici: la ricerca archeologica e paleoantropologica ci dice che non è mai esistito un uomo senza tecnologia.
La prima storia darwiniana recitava più o meno così: i nostri antenati biologici si sono evoluti dai normali mammiferi quando il loro cervello si è espanso e differenziato. Questo ha permesso loro, a un certo punto, di imparare a parlare, a usare gli strumenti, a sviluppare un’andatura eretta e così via. Il difetto di questa teoria è sottile, ma facile da capire: il cervello umano ha iniziato a svilupparsi solo dopo aver iniziato a usare gli strumenti. L’uso di strumenti e manufatti che esprimevano la nostra intelligenza non era la conseguenza dell’aumento dell’intelligenza, ma la causa dell’aumento dell’intelligenza. Don Ihde, uno dei più grandi filosofi contemporanei della tecnologia, una volta si è espresso in questo modo: “Noi facciamo le cose, che a loro volta fanno noi”10 – Non solo facciamo le cose, ma siamo anche fatti da loro.
In questo contesto, torniamo agli angoli del nostro triangolo. Ci sono interpretazioni tecnofobiche della digitalizzazione che ci portano a credere che tutta l’innovazione tecnologica sia distruttiva, come se fosse possibile tornare a una natura intatta. Ma una natura del genere non è mai esistita. Non è mai esistito un essere umano senza tecnologia, né un cervello umano senza artefatti. Questa osservazione non contraddice di per sé la teoria dell’evoluzione. Ma obbliga i teorici dell’evoluzione a tenere presente non solo il polo naturale, ma anche il polo tecnico del nostro triangolo. Se lo facciamo, ci rendiamo subito conto che anche il terzo polo non può essere ignorato. Io chiamo questo polo ‘cultura’.
Vedremo più avanti perché questo polo è così importante. Per ora, è sufficiente illustrare l’interazione del polo culturale con i poli della natura e della tecnologia con l’esempio del linguaggio. Il linguaggio collega le persone – è un catalizzatore della cultura umana. Ma per imparare a parlare, dobbiamo assimilare le regole grammaticali e quindi le tecniche che ci permettono di articolare parole e frasi in modo discreto: dobbiamo sottoporre i movimenti della mascella, della laringe e della lingua a un programma di allenamento che ci permetta di scomporli in unità di movimento grammaticalmente discrete. Senza questo programma di allenamento, non saremmo in grado di articolare parole e frasi in modo ripetibile e controllato. E così il nostro triangolo si chiude. Perché questo programma di formazione culturale è l’equivalente di una tecnologia di scrittura che ‘grammatizza’ i nostri corpi e li trasforma in artefatti tecnici. Non ci può essere cultura senza tecnologie culturali che sgrammaticano i nostri corpi.11
In questo contesto, facciamo un passo indietro e guardiamo l’altra faccia della medaglia. Infatti, come abbiamo già detto, alcuni scienziati e filosofi ritengono che sia sufficiente concentrarsi su due poli per definire l’essere umano: i poli della tecnologia e della biologia o, come nel transumanesimo, il software matematicamente modellato delle tecnologie digitali, così come le forme di ‘umido’ o ‘hardware’ basate sul carbonio o sul silicio.
L’errore di questo modello di pensiero può essere illustrato dalla pratica culturale, ormai superata, di scrivere lettere d’amore. Quali sono le basi antropologiche di questa pratica? Secondo il modello precedente, le persone che scrivono lettere d’amore sono invase da un impulso biologico e utilizzano strumenti tecnici per soddisfare questo impulso. All’inizio, oltre a carta e penna, erano necessari cavalli e diligenze. Questi sono stati sostituiti nel XIX secolo da strumenti più ‘efficienti’, ossia le macchine da scrivere e le locomotive. Nel XX secolo, la macchina da scrivere meccanica è stata sostituita dalla macchina da scrivere elettrica e poi dal personal computer, che ha aperto la strada alla sostituzione del trasporto della posta con forme di trasmissione elettronica dei dati: La posta ordinaria è stata sostituita dalla posta elettronica. Al volgere del millennio, la messaggistica SMS e WhatsApp e l’immersione nelle reti sociali interattive hanno emarginato le e-mail. Ma queste invenzioni tecnologiche erano davvero solo strumenti per rendere più efficiente il compito di scrivere lettere d’amore?
Il risultato di queste innovazioni è sempre diverso da quello che ci si aspettava, come dimostra l’ultima esplosione di innovazioni. Dopo essersi abituati a inviare lettere d’amore e altri messaggi socio-comunicativi per via elettronica, gli abitanti delle società digitali in rete hanno dovuto affrontare il fatto che lo stress dell’amicizia e dell’amore a volte significa perdere l’opportunità di procreare o di stringere partnership di vita durature. Le tecnologie presumibilmente più efficienti non hanno fatto risparmiare tempo che avrebbe potuto essere investito in forme di convivialità, ma hanno piuttosto aumentato i livelli di stress. Sembra che l’uso di mezzi di comunicazione digitali non porti a un raggiungimento più efficiente di obiettivi d’azione predefiniti, ma ci porti a perseguire altri obiettivi. Invece di perseguire imperturbabilmente le nostre intenzioni iniziali, ci incoraggiano a impegnarci in attività non pianificate, ad esempio motivandoci a comunicare senza sosta.
Questo fenomeno è legato a una caratteristica fondamentale degli artefatti tecnici: gli artefatti non sono mai solo strumenti esterni; hanno sempre un carattere protesico – come un avambraccio artificiale che, in un determinato momento, viene percepito come un’estensione del mio corpo. Ma cosa significa effettivamente avere un ‘corpo proprio’ che può essere esteso da una protesi?
Questa domanda ci riporta al terzo polo del triangolo natura, tecnologia e cultura. Il fenomeno della cultura si basa sull’uso di mezzi di comunicazione che ampliano le nostre possibilità di espressione, ed è qui che entra in gioco ciò che in tedesco chiamiamo ‘Leiblichkeit’ (corporeità, NdT). Il mio corpo non è un corpo esterno. È il punto focale di una realtà vissuta. Il fenomeno della reattività è fondamentale. Ad esempio, andiamo a fare shopping, vediamo un sentiero soleggiato e vogliamo fare una passeggiata. Se siamo ricettivi, questo può portare ad attività non pianificate – ad esempio, la decisione di rimandare lo shopping o di prendere una deviazione. L’esempio del sorriso è ancora più elementare. Cosa devo fare se qualcuno mi sorride? Per gli adulti, questo può portare a problemi di interpretazione: un sorriso può sconvolgere interi piani di vita. I bambini non si lasciano turbare da questi problemi di interpretazione. Semplicemente ricambiano il sorriso. La reattività è proprio questa: interagiamo con il nostro ambiente senza pensarci e solo in un secondo momento ci chiediamo quale sia lo scopo.
Questo mi riporta ancora una volta al triangolo tra natura, tecnologia e cultura. I miei occhiali sono un esempio di supporto tecnico che si trasforma in un istante in un’estensione del mio corpo. I miei occhiali sono qualcosa di diverso da uno strumento esterno: funzionano meglio quando non li vedo. Come strumento esterno, me ne accorgo solo quando sono sporchi o rotti. In breve, gli occhiali sono un prototipo di media: un artefatto che mi permette di vedere cose che prima non potevo vedere. Quando si guarda attraverso gli occhiali, si vede il mondo in modo diverso da prima. Questo è esattamente ciò che i filosofi della tecnologia intendono per protesi: le protesi si attaccano al nostro corpo e trasformano il modo in cui guardiamo il mondo.
L’esempio della guida è esemplare di un processo di trasformazione che, a differenza di quello degli occhiali ordinari, va oltre il semplice ripristino delle potenzialità naturali. Chiunque abbia mai cercato di imparare a guidare sa quanto sia complesso: quale pedale devo premere ora? Dove devo premere? Dove devo guardare? Quale leva devo tirare? Ma dopo un po’, i pulsanti e i pedali passano in secondo piano. Una volta imparato a guidare, non sentiamo più i pedali sotto i piedi, ma la superficie stradale sotto gli pneumatici dell’auto. Perché? Perché la mia auto è diventata una protesi: il mio corpo si è esteso e ha portato il mio corpo a contatto con l’asfalto. Questo fenomeno è ancora più plastico se prendiamo l’esempio del suonare l’organo. Quando imparo a suonare l’organo, non interagisco più con i tasti sotto le dita, le canne nella cassa armonica o i pedali sotto i piedi, ma con la musica in cui si incarna il mio modo di suonare. L’organo diventa temporaneamente un’estensione del mio corpo.
Ora capiamo perché il terzo polo del triangolo natura-tecnologia-cultura non può essere semplicemente ignorato. Poiché lo spazio della nostra esperienza culturale, in cui raccontiamo storie o facciamo passeggiate, è radicato nella nostra esperienza corporea, gli artefatti tecnici possono espandere il nostro spazio d’azione corporeo e trasformare il modo in cui guardiamo il mondo. Di conseguenza, cambiano anche gli obiettivi che perseguiamo. Gli artefatti tecnici rendono visibile, udibile e percepibile qualcosa che prima non vedevamo, e così facendo attualizzano un potenziale di azione che prima non sospettavamo. E questo non vale solo per gli artefatti moderni. Anche l’emergere delle religioni del mondo come le conosciamo è stato legato alla coltivazione di mezzi di comunicazione tecnicamente elaborati: non ci possono essere religioni senza tecnologie di archiviazione e scrittura, tecniche narrative elaborate, coreografie di culto elaborate, manufatti sacri, monumenti, cappelle e così via. Ecco perché la Bibbia è poco leggibile quando viene trattata come una fonte di informazioni prosaiche che ci parlano di fatti storici. Si legge meglio quando le fonti storiche giunte fino a noi scompaiono sullo sfondo, come i registri e i tasti di un organo. Anche i simboli, i racconti, i miti, le finzioni o i testi sacri storicamente fondati sono dei media: non riproducono qualcosa, ma rendono visibile o udibile qualcosa che prima non poteva essere visto o sentito.
Il concetto di distruzione della libertà delle tecnologie digitali
Questo mi riporta alla domanda iniziale: come i media digitali stanno cambiando la nostra percezione del mondo? Prima di rispondere a questa domanda, è essenziale ricordare ancora una volta che le innovazioni tecniche non sono buone o cattive in sé. Senza strumenti tecnici, noi esseri umani non esisteremmo. Ma questo non deve portarci a credere ingenuamente che l’innovazione tecnica sia neutra in termini di valore o che contribuisca di per sé a migliorare la nostra vita. Come le storie o le lettere, le innovazioni tecniche hanno sempre un posto nella vita. E questo può sia aumentare il loro valore che comprometterlo. Non sono né buone né cattive in sé, ma possono rafforzare le pratiche culturali che promuovono la buona vita o la minano.
Le tecnologie digitali contemporanee sono esemplari in questo senso. Riflettono le ideologie liberali alla base delle ondate di innovazione che le hanno generate. Rafforzano la tendenza liberale a sottoporre tutti i movimenti della vita ai principi della competizione, della crescita e dell’accelerazione, e ci incoraggiano a misurare tutto ciò che facciamo con il metro del “più alto, più veloce, più lontano”.
Il prototipo di questa tendenza è il “sistema PageRank” dei motori di ricerca digitali ((Su questo punto, vedere Johannes Hoff, “Digital Metrics in the Age of Online Culture Wars. Politiche di elogio e ricerca della democratizzazione”, Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie 1 (2020), 135-148). Il sistema PageRank è stato inventato da un informatico di nome Larry Page, nato nel 1973, che ha fondato Google nel 1996 con Sergey Brin. Google PageRank è un algoritmo che consente di “classificare” le pagine web: chi riesce a raccogliere il maggior numero di link verso la propria pagina web è il re. Larry ha imparato questo principio di classificazione da suo padre, un professore universitario del Michigan, che contava regolarmente il numero di volte in cui i suoi colleghi venivano citati per valutare il loro valore sul mercato. Con Page Jr. questo metodo di conteggio è diventato un principio di controllo algoritmico. Come recita una spiegazione popolare del suo algoritmo, “Il PageRank è una gara di popolarità come la corsa al re del ballo“.
Ma vogliamo davvero vivere in un concorso di bellezza onnipresente? Naturalmente, gli algoritmi di valutazione digitale non sono negativi di per sé. eMa il design delle tecnologie digitali, così come lo conosciamo, sta accelerando una tendenza che era già presente nelle economie liberali del XX secolo: la tendenza a vedere tutto e qualsiasi cosa attraverso il prisma di “indicatori di performance” quantificabili.
Una monografia pionieristica su questo problema, pubblicata nel 2016, porta il titolo rivelatore ‘Armi di distruzione matematica‘12. A causa della posizione dominante degli algoritmi delle megacorporazioni digitali, l’uso dei calcoli matematici è ora paragonabile all’uso di armi nucleari, biologiche o chimiche di distruzione di massa. Nessuno avrebbe potuto prevederlo 20 anni fa, anche se il problema, che qui sta assumendo proporzioni endemiche, è noto da molto tempo. Il sociologo William Cameron lo ha identificato con precisione all’inizio degli anni ’60, quando ha scritto: “Non tutto ciò che può essere contato conta. E non tutto ciò che conta può essere contato”13.
Il modo in cui le nostre università e i nostri ospedali sono stati trasformati negli ultimi quarant’anni – ovvero prima delle grandi innovazioni della trasformazione digitale – è una buona illustrazione di ciò che accade quando questo principio antropologico fondamentale non viene rispettato. Dopo che quelli che gli economisti chiamano ‘indicatori di performance’ hanno iniziato a diffondersi nelle istituzioni pubbliche, la vita universitaria è stata radicalmente trasformata. Gli accademici dell’Europa continentale si sono resi conto di questo processo di trasformazione al più tardi sulla scia della riforma di Bologna degli anni 2000: ciò che è di qualità deve essere ‘classificato’ da metodi di misurazione competitivi – fino al punto in cui la coda scodinzola e il metodo di misurazione detta ciò che può essere considerato di qualità. Alla base di questo processo di trasformazione c’era la convinzione liberale, descritta da Karl Marx già nel 1867, che qualsiasi cosa potesse essere ‘classificata’ con metodi competitivi e quantificabili – dalle mucche, i cetrioli e le viti alle opere d’arte, i libri e le persone. Nell’ambito dell’operatività diffusa e individuale di questa ideologia, iniziata negli anni ’80 sulla scia dei periodi Thatcher e Reagan, la convinzione della misurazione competitiva, fondamentale per la sua legittimità politica, è stata trasformata in uno strumento di controllo politico. Le conseguenze disastrose di questo processo di trasformazione per la cultura e la scienza sono state descritte da fenomenologi come Edmund Husserl già negli anni ’3014. Ma il comportamento comunicativo potenziato digitalmente delle società dell’informazione tardo-moderne parla ora un linguaggio più chiaro: ci confronta oggi con forme di “proletarizzazione”15 dell’intelligenza pre-scientifica e accademica, che priva i creduloni di qualsiasi spazio di manovra per diventare personalità autonome o addirittura intelligenti.
Un altro esempio di questo processo di trasformazione è la vita danneggiata degli ospedali moderni: “Sono finiti i giorni in cui gli infermieri sprecavano il loro tempo di lavoro parlando con i pazienti e i loro parenti e approfondendo le biografie delle persone. Gli indicatori di performance dei sistemi di gestione aziendale, del flusso di lavoro e della qualità non sono programmati per promuovere la coltivazione di valori sociali come la cura, la gratitudine e la gioia condivisa… Nei sistemi di gestione orientati all’efficienza, la riflessione su ciò che rende il nostro mondo degno di essere vissuto e amato appartiene a un altro reparto” (304)16. All’epoca di Corona, questo fenomeno può essere studiato in tempo reale: innanzitutto, il sistema deve funzionare in modo efficiente. La questione di chi si preoccupa delle creature che muoiono sotto i macchinari organizzati professionalmente, di chi parla con loro o addirittura le accompagna nell’ora della morte, viene rimandata a un secondo momento.
Di fronte a questa logica mostruosa, molte persone sono state e sono tuttora tentate di cadere nelle teorie della cospirazione. Ma è troppo facile: per secoli, abbiamo adattato il nostro pensiero a questa logica mostruosa – noi stessi siamo gli ingranaggi che fanno girare questa macchina. Per molto tempo, la questione di come potrebbe essere una vita buona e conviviale non è stata in primo piano nel nostro pensiero e nel nostro stile di vita. Invece, a pagina 1 dei nostri sistemi di archiviazione mentale, la domanda è: come organizzare un sistema di gestione efficace? Non sorprende quindi che il mondo in cui viviamo abbia sempre più l’aura di un supermercato organizzato in modo efficiente: un riflesso perfetto delle nostre preferenze di utenti.
Dietro questa patologia mentale si nasconde un problema antropologico e di teoria scientifica: ciò che può apparire razionale ed efficace in superficie non è in realtà intelligente. Infatti, come per la scrittura di una lettera d’amore, lo stesso vale in questo caso: Se immaginiamo modi più efficienti per raggiungere obiettivi predefiniti, non significa che il nostro comportamento sarà più efficiente. Le tecnologie che immaginiamo per raggiungere questi obiettivi trasformano il nostro comportamento, fino al punto in cui iniziamo a perseguire obiettivi che le persone istruite descriverebbero come irrazionali, o addirittura, come ha detto il più grande filosofo contemporaneo della tecnologia Bernard Stiegler (1952-2020), come follia razionalmente organizzata17
Bolle filtranti, camere a eco e macchine a dispersione
Le tecnologie digitali di oggi sono costruite sul modello di questi sistemi di controllo irrazionali. Ed è proprio questo – e non il fatto che siano tecnologie digitali – a renderle tossiche. Diamo un’occhiata più da vicino. Cosa ci fanno le tecnologie digitali dell’attuale World Wide Web? La tendenza a organizzare le tecnologie digitali sulla base di sistemi PageRank competitivi produce tre fenomeni che sono esemplari dell’attuale crisi di civiltà indotta dalla tecnologia, anche se rappresentano solo la punta dell’iceberg.
Il fenomeno delle bolle del filtro digitale.
Che cosa fanno le tecnologie digitali di rete? Innanzitutto, creano profili utente, ossia generano un doppio digitale di noi stessi, che molto probabilmente corrisponde alle nostre aspettative. Questo spiega perché, quando inserisce un termine di ricerca su YouTube, non ottiene lo stesso risultato della persona accanto a lei; e perché il risultato della ricerca di questa mattina non è lo stesso di ieri sera. Questo perché il suo motore di ricerca ha un modo diverso di trovare ciò che sta cercando. Nel frattempo, il motore di ricerca ha analizzato la sua prima ricerca e ha “aggiornato” il suo profilo utente personale su questa base. Questa è la ricetta segreta che consente agli algoritmi di ricerca di prevedere le sue “preferenze”: cosa sta cercando? Cosa desidera? Dove vuole andare al momento? Quali sono le sue esigenze? È triste, stressato, nervoso? È appena morta una persona in casa sua? Ha appena divorziato? Si è appena arrabbiata con il Papa? Forse è incinta (il suo braccialetto fitness può dirle questo anche prima di consultare un ginecologo), ecc.
Come sappiamo dalla storia dell’astrologia o dall’antica pratica della lettura degli auspici (vista a volo d’uccello), le previsioni sono a doppio taglio. Ad esempio, se non sa esattamente quali sono le sue preferenze, come accade quasi inevitabilmente con quantità ingestibili di dati, la macchina la solleva dall’onere della riflessione e della meditazione. Così prendiamo l’abitudine di desiderare ciò che ci viene offerto. Nel gergo informatico, questo si chiama ‘nudging’: si producono risultati che si vendono agli ‘utenti’ come previsioni, e si fa affidamento sul fatto che essi seguano queste istruzioni. Seguendo il filosofo Matthias Pfeffer e l’avvocato Paul Nimitz, uno dei principali consulenti della Commissione Europea in materia di digitalizzazione, questo può anche essere espresso come segue: “Da lontano, G. riconosce i miei pensieri. Se sto camminando o riposando, G. lo sa. Sa tutto quello che faccio. Non ho ancora la parola sulla punta della lingua: lei la conosce già. Lei mi circonda da tutti i lati e mi mette la mano addosso”18. Ma chi è G? Secondo Pfeffer e Nimitz, G. è un jolly per GAFAM – l’abbreviazione comune nei circoli tecnologici per i ‘big player’ della trasformazione digitale Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft. Nella vecchia versione della citazione, il Salmo 139, G. era ancora un acronimo di Dio. Ma oggi, per motivi di strategia di efficienza, è stato spostato a pagina 2.
È facile capire cosa succede quando le macchine prendono il controllo. Le tecnologie coinvolte non sono molto intelligenti, ma questo non impedisce loro di svolgere il ruolo di un pilota divino. Il fatto che le tecnologie digitali siano notoriamente imprecise non influisce sul loro funzionamento: finché seguiamo i loro suggerimenti con fede, le loro previsioni sono accurate – e in questo caso, la fede è più simile a un sensus fidelium soprannaturale che a una decisione di fede consapevole. Dopo tutto, gli algoritmi citati possono affermare, con argomenti validi, di essere informati su più cose di noi. L’ex capo di Google, Eric Schmitt, ha riassunto l’imperativo categorico che conferisce autorità a questo strumento di controllo quando ha scritto: “Se c’è qualcosa che non dovresti sapere su di te, forse non dovresti farlo affatto”. E naturalmente, è vero anche il contrario di questa frase: se fa qualcosa che la GAFAM non conosce di lei, dovrebbe trattarlo come trascurabile – perché ciò che non può essere classificato deve essere considerato come rumore di fondo.
Il fenomeno della camera d’eco.
Questo fenomeno viene spesso confuso con la bolla del filtro, ma deve essere distinto da esso. Anche in questo caso, le tecnologie di classificazione giocano un ruolo importante. Ad esempio, la notizia “Il Vescovo di Innsbruck beve il sangue dei bambini di notte davanti a una proiezione 3D dell’altare di Pergamo” sarebbe in media classificata più in alto su Internet rispetto alla notizia “Il Vescovo di Innsbruck è stato nominato vescovo referente per il matrimonio, la famiglia e la tutela della vita”. Ma ciò che conta qui è che la notizia abbia un valore di eccitazione. Il valore di eccitazione di una notizia e le conseguenti percentuali di clic udibili la collocano più in alto nella gerarchia dei valori numerici rispetto alle prosaiche notizie di politica ecclesiastica, e questo ha delle conseguenze.
L’obiettivo di queste gerarchie di valori può essere riassunto in una semplice formula, seguendo Nemitz e Pfeffer: “Provocare, personalizzare, scandalizzare”19. In un mondo ibrido, dove la vita analogica di tutti i giorni è riorganizzata dalle camere d’eco digitali di uno spazio virtuale globalizzato, il valore eccitante dell’informazione riunisce le persone – e questo ha il notevole effetto collaterale di dividere le persone allo stesso tempo. Molti oggi si chiedono perché sempre più persone credono alle teorie cospirative o si lasciano coinvolgere dalle narrazioni dei ‘dissidenti’ politici. Ma la risposta a questa domanda è sconcertantemente banale: le teorie cospirative sono alimentate dalle tecnologie digitali. E non è principalmente perché personaggi loschi vogliono ingannarci. Come dimostra l’esempio dell’ex consigliere di Trump Steve Bannon, esiste anche questo. Ma ciò che è più importante è che le nostre tecnologie digitali sono state costruite in questo modo per motivi di strategia pubblicitaria. Per usare un’espressione comune nel mondo dell’informatica, “It’s a feature, not a bug” (È una caratteristica del programma, non un bug del sistema).
Come risultato di queste caratteristiche, gli algoritmi digitali stanno generando quella che è probabilmente la caratteristica più importante del cyberspazio di oggi: si stanno creando branchi e tribù, conosciuti in inglese come ‘tribes’ e nella scienza culturale come ‘tribalismo’. Una tribù è per Trump, Orban e il pensiero laterale sovversivo, l’altra per l’uguaglianza di genere, la lotta contro la discriminazione e l’antirazzismo; una tribù è per Ratzinger, il sacerdozio sacramentale e la Lumen Gentium, l’altra per Maria 2.0, l’ordinazione delle donne e la Gaudium et Spes, ecc. E poiché non esiste più un mercato in cui le persone possano incontrarsi senza impegno e cercare una base comune di comprensione, il tribalismo culturale peggiora quanto più l’uomo o la donna sprofondano nella loro camera d’eco. A differenza di una camera di filtraggio, che incoraggia a prendere la propria bolla per il mondo, qui si segue molto da vicino ciò che gli altri pensano e fanno. Ma tutto ciò che si vede è un’ulteriore conferma della convinzione della propria tribù che tutto ciò che gli altri pensano e fanno è cecità. Chiunque veda il mondo in modo diverso dalla propria tribù può solo subire il lavaggio del cervello o essere manipolato dall”establishment’.
Marshall McLuhan, uno dei più grandi teorici dei media del XX secolo, aveva già previsto questo fenomeno di tribalizzazione negli anni ’60 – e più precisamente nel suo libro La galassia Gutenberg. Questo libro trattava la differenza tra una cultura stampata, la cui comunicazione pubblica si basa sulle procedure standardizzate dei media stampati, e una cultura che è collegata in rete dai media elettronici, rafforzando i modelli di comportamento che erano già caratteristici della comunicazione in tempo reale delle culture pre-scritte. Ciò ha permesso a McLuhan di fare la seguente previsione già nel 1962:
Così come i nostri sensi si sono diffusi nel mondo, il Grande Fratello ha conquistato la nostra interiorità. Se non seguiamo questa dinamica con vigilanza, molto presto entreremo in una fase di terrore panico che corrisponderà proprio a un piccolo mondo di tamburi tribali […]. Il terrore è lo stato normale di una società orale, perché tutto ha un impatto su tutto in ogni momento. […] Nella nostra lunga ricerca di recuperare un’unità di sensibilità, pensiero e sentimento per il mondo occidentale, non siamo meglio preparati ad affrontare le conseguenze tribali di tale unità di quanto non lo fossimo ad affrontare la frammentazione della psiche umana da parte della cultura della stampa20
Nella mia monografia su questo processo di trasformazione, ho aggiornato la previsione di McLuhan in termini di diagnosi dei problemi, tenendo conto della trasformazione digitale, come segue: “Non sono più le ‘cose’ o gli ‘oggetti’ pubblici, ma gli algoritmi che oggi uniscono o dividono le persone. Le nostre comunità hanno smesso di apparire come una res publica” (308). Classicamente, una res publica è una comunità che si riunisce in spazi pubblici intorno a una cosa comune (res). Nei Paesi di lingua inglese, dove i processi di trasformazione accelerati dall’economia hanno colpito più duramente che nell’Europa continentale, possiamo vedere più chiaramente cosa succede quando si perde di vista la preoccupazione per questa causa comune: ci sono solo tribù che si fanno la guerra l’un l’altra nel cyberspazio o alla cena del Ringraziamento. Certo, queste comunità sociali sono anche riunite o divise dai media pubblici; ma questo non avviene più con una causa comune in mente, bensì con algoritmi la cui progettazione non tiene conto delle preoccupazioni politiche di una res publica.
Distrazione.
Questo per quanto riguarda la differenza tra bolle di filtraggio e camere d’eco. Il terzo fenomeno che illustra le conseguenze della trasformazione digitale è la ‘distrazione’, l’atto di distogliere l’attenzione, sedurre o distrarre. Le tecnologie responsabili di questo fenomeno sono discusse nel mondo IT con lo slogan ‘attention harvesting’. Le tecnologie digitali sono programmate per ‘raccogliere’ la nostra attenzione e venderla21. Aziende come Facebook non sono caritatevoli. La progettazione dei loro algoritmi implementa una strategia di massimizzazione del profitto. Nicholas Carr ha descritto accuratamente questo fenomeno nel 2010: “Internet è, per il suo design tecnico, un sistema di interruzione. Una macchina progettata per disperdere la nostra attenzione”22.).
Il principio di funzionamento degli algoritmi di autoapprendimento responsabili di questo è facile da capire. Si basa sulla meccanica del test A-B. Ad esempio, agli utenti dei social network vengono presentati due testi pubblicitari identici con pulsanti che recitano “Scopri di più”. L’unica differenza è che uno dei pulsanti è verde e l’altro blu. L’algoritmo che lavora in background confronta poi dove le persone preferiscono premere in media e ‘migliora’ il messaggio pubblicitario in base al risultato. Ad esempio, se un gruppo di utenti antirazzisti e critici nei confronti della Chiesa clicca per il 62% sul pulsante verde e per il 38% sul pulsante blu, questo gruppo di utenti riceverà in futuro un pulsante verde.
Questo spiega un principio fondamentale per comprendere le attuali tecnologie di rete: Internet non è un prodotto finito messo a nostra disposizione dalle aziende IT. È un laboratorio in cui operano topi da laboratorio. Solo che, in questo caso, a differenza degli esperimenti di laboratorio tradizionali, i topi da laboratorio sono esseri umani – gli utenti delle reti digitali. Ciò consente alle aziende coinvolte di rendere le loro tecnologie sempre più ‘efficienti’. Ciò che gli utenti considerano efficiente è di interesse secondario.
Questo diventa ancora più evidente se consideriamo da dove provengono le strategie per ‘migliorare’ le tecnologie digitali. Vengono dall’industria del gioco d’azzardo. Gli addetti alle pulizie delle sale da gioco sanno che a volte è necessario pulire l’urina da sotto le slot machine. Perché lo fanno? Perché gli utenti non possono allontanarsi dalle macchine. Questo problema è stato risolto in modo semplice dalla nuova generazione di tecnologie digitali. Possiamo portare i nostri smartphone alla toilette. Ma il concetto commerciale di “distrazione”, che combina le tecnologie di social networking con le slot machine, non è stato intaccato.
La principale conseguenza culturale di questa strategia di innovazione digitale è stata riassunta da Jonathan Carry quando ha pubblicato un libro nel 2014 intitolato 24/7. Il tardo capitalismo e la fine del sonno. Nel nostro nuovo mondo digitale, non ci sono più notti – tanto meno domeniche. Siamo online 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, e riusciamo a malapena ad andare in bagno. Naturalmente, ci sono molti che combattono valorosamente contro le dinamiche di queste tecnologie. Ma le tecnologie digitali potrebbero essere progettate per essere più umane, più facili da usare, anche per le creature più deboli.
Tecnologie chiave : L’ABC della spiritualità cristiana
Questo mi porta, come ho detto prima, alla domanda su come potrebbe essere una risposta antropologicamente qualificata alla trasformazione digitale. Per farlo, è essenziale ricordare ancora una volta che le tre questioni menzionate sono solo la punta dell’iceberg. Come dimostrano l’esempio di Marshall McLuhan o l’importante opera in tre volumi Technique et temps di Bernard Stiegler, pubblicata negli anni ’90, le sfide citate erano già prevedibili in un’epoca in cui GAFAM & Co. non esistevano ancora23. Di conseguenza, coloro che accusano i concetti aziendali aggressivi di questi gruppi di essere gli unici responsabili dei problemi discussi sopra, non comprendono la gravità della situazione. La storia dei precedenti processi di trasformazione tecnica, come l’introduzione dei caratteri fonetici intorno al 500 a.C., la rivoluzione della stampa del XV secolo e l’introduzione dei media elettronici audiovisivi all’inizio del XX secolo, ci insegna piuttosto che, anche se riusciamo a controllare le malattie infantili delle nuove tecnologie dirompenti, il mondo sarà cambiato in modo irreversibile una volta consolidate. Non è possibile tornare al bel mondo antico di Johannes Gutenberg, in cui soggetti autonomi accumulavano conoscenze in modo controllato, sul modello dei processi di stampa tipografica, e osservavano il mondo dal punto di vista di osservatori lontani.
Data questa situazione, quale può essere una risposta realistica alle sfide del XXI secolo e quale dovrebbe essere il ruolo delle tradizioni religiose e spirituali in questo contesto? Il problema centrale può essere riassunto in due domande: come possiamo diventare un soggetto responsabile? E quali sono le pratiche culturali che ci permettono di guidare le persone più deboli in questo percorso?
Nell’attuale dibattito tecnico-filosofico, in cui le questioni teologiche hanno finora giocato solo un ruolo marginale o propagandistico, tre parole chiave appaiono regolarmente e sembrano indicare la strada da seguire su questi temi: tecnologie del sé, cura del sé e spiritualità. Il termine ‘tecnologia del sé’ è preso in prestito dal filosofo agnostico Michel Foucault e, come il termine ‘cura di sé’, non si riferisce ad altro che a ciò che i cristiani chiamano ‘spiritualità’ fin dall’antichità – o più precisamente, alle pratiche spirituali che ci portano a un atteggiamento mentale responsabile e quindi a un modo culturalmente testato di vedere il mondo. L’uomo non nasce come ‘soggetto autonomo’. Anche se le teorie del soggetto e dell’autocoscienza dell’epoca di Gutenberg vorrebbero farcelo credere: non c’è tecnologia che ci controlli senza tecnologie del sé che coltiviamo noi stessi; non c’è libertà interiore ed esteriore senza tecnologie spirituali del sé che ci guidino a diventare soggetti liberi.
Oggi, ad esempio, molte persone non sono più in grado di distinguere tra ciò che viene spontaneo nella loro testa e ciò che stanno effettivamente pensando; non perché si considerano soggetti coscienti e autonomi, ma proprio perché lo sono. Come possiamo sfuggire a questa illusione di autonomia? Che cosa distingue i pensieri demoniaci, nati da forme di manipolazione o infezione gregaria, che disperdono la mia mente, dai pensieri eudemonici, che mi mettono sul binario del mio destino individuale? Non è pubblicando spontaneamente su Instagram, Twitter o TikTok tutto ciò che le passa per la testa mentre si lava i denti che lo scoprirà. E questo mi riporta alla teologia: qual è il ruolo delle tecnologie spirituali della tradizione cristiana di fronte a questa sfida? Per rispondere a questa domanda, vorrei introdurre qui di seguito un piccolo primer spirituale che richiama tre leitmotiv della spiritualità cristiana che mi sembrano indicare la strada da seguire.
Collezione spirituale
L’importanza del primo leitmotiv può essere illustrata da una frase di Macario l’Egiziano (300-391), un padre del deserto, citata da Michel de Certeau: “Come si prega? Non è necessario usare molte parole per farlo (…). Basta alzare le mani”24 Chi insegna religione a scuola potrebbe trarre ispirazione da questa citazione. Prima di parlare ai bambini delle tradizioni religiose dell’umanità, si dovrebbe chiedere loro: “Per quanto tempo riuscirai a stare seduto e a non correre dietro ai tuoi pensieri? Per quanto tempo riuscirai a essere semplicemente presente?”.
Oggi è sempre più difficile raccogliersi, perché le tecnologie digitali favoriscono il fenomeno opposto: quello che nel Buddismo è conosciuto come ‘Mente Scimmia’. Tutti l’hanno sperimentato: si è seduti all’Opera di Vienna il sabato sera, Isotta sta cantando l’aria Liebestod dal Tristano di Wagner, e mi ricordo che ho dimenticato di ordinare un regalo di Natale per mia sorella su Amazon, che non ho ancora controllato il mio conto bancario online e che devo assolutamente cancellare il mio biglietto aereo per Londra. I maestri buddisti hanno insegnato che più si inseguono le ombre dei pensieri o più si cerca di spaventarle, più aumentano le buffonate degli sciami di pensieri incontrollati. D’altra parte, se li lascia passare come nuvole, le scimmie mentali si ritirano per noia.
Nella tradizione patristica, queste scimmie erano chiamate “demoni”. Ricordiamo, ad esempio, la tentazione di Sant’Antonio sull’ala destra della pala d’altare di Issenheim di Matthias Grünewald (1512-1516): Secondo la pala di Grünewald, le tentazioni del padre del monachesimo cristiano consistevano nell’essere tirato in ogni direzione possibile da forze demoniache, fino a perdere l’equilibrio sotto i piedi. L’idea di non essere più presente esisteva già nell’Antichità. Solo il formato delle forze demoniache è cambiato.
Cerchiamo di profilare questo formato in modo un po’ più preciso. Prima ho parlato delle tecnologie di archiviazione digitale. Cosa fanno queste tecnologie alle nostre energie mentali? Ci guidano a distinguere tra giusto e sbagliato: “Cosa è buono, cosa è cattivo”, “Cosa è lodevole, cosa non lo è”, e così via. Anche se c’è solo un pulsante “Mi piace” e nessun pulsante “Non mi piace”, le tecnologie della rete digitale ci costringono a fare continue distinzioni, esprimendo giudizi.
Io lo chiamo ‘Ranking 2.0‘. La prima generazione di tecnologie di classificazione è stata inventata da Adamo ed Eva. Basta leggere i primi capitoli del libro della Genesi. In Genesi II, 17, Dio dice: “Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare…”. Il diavolo si oppone e dice: “No, … Appena ne mangiate, i vostri occhi si aprono; diventate come Dio, conoscete il bene e il male” (Genesi III, 4-5). In Genesi III, 7, apprendiamo il risultato dell’intervento diabolico: “Gli occhi dei due uomini si aprirono e si accorsero di essere nudi. Legarono insieme delle foglie di fico e si fecero un grembiule”. Contrariamente alla predizione diabolica, la coppia originale non riconobbe la differenza tra il bene e il male – semplicemente riconobbe all’inizio di essere nuda.
Che cosa ha a che fare l’uno con l’altro? Quando iniziamo a dare giudizi sfrenati su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, iniziamo a paragonare tutto a tutto il resto. Ma questo non ci rende soggetti autocoscienti, simili a Dio, bensì ha l’effetto opposto: diventiamo, come si dice in inglese, ‘self-conscious’ – imbarazzati, inibiti, inquieti, tesi. Qui sta l’ironia segreta di molte traduzioni in inglese di testi filosofici sul problema dell’autocoscienza provenienti dall’Idealismo tedesco: ciò che suona come Genesi II:16 in tedesco, suona come Genesi III:7 in inglese. Quando siamo ‘coscienti di noi stessi’, ci sentiamo come chi sale per la prima volta su un podio in mezzo a una folla silenziosa: ci guardiamo, siamo fuori di noi e non sappiamo cosa fare.
Come hanno dimostrato innumerevoli studi empirici, questa sensazione di essere accanto a se stessi è uno dei principali effetti collaterali delle tecnologie di social networking. Esse ci incoraggiano a confrontarci costantemente con gli altri e a interiorizzare una “visione da nessuna parte” di noi stessi. Vogliamo presentare un’immagine di noi stessi che sia “gradita”. E questo è possibile solo osservando la scena digitale da un lato e giudicando me stesso, compreso tutto ciò che dà significato al mio mondo, in un’obbedienza anticipata. Più che ai tempi della classifica 1.0, oggi siamo condannati a osservare noi stessi e il nostro mondo, per poi sottoporlo a un giudizio comparativo.
Il sociologo Niklas Luhmann una volta disse, sulla base di osservazioni simili, che coloro che giudicano costantemente il bene e il male diventano complici del diavolo – diventano osservatori distanti di Dio25. Diventiamo complici del diavolo nel momento in cui ci poniamo al di sopra di Dio. A rigor di termini, questo non è ovviamente possibile. Ma è possibile adottare un atteggiamento del genere. L’atteggiamento dell’osservatore di Dio che dice: “Hai fatto bene, Dio – Come! – Dovresti impegnarti un po’ di più – Non è vero! Eckhart von Hochheim ha messo il dito sull’insostenibilità di questo atteggiamento quando ha detto in uno dei suoi sermoni: “Se ora dico: Dio è buono, non è vero, ma io sono buono, Dio non è buono. Voglio dire ancora: io sono migliore di Dio. …Taci, dunque, e non abbaiare a Dio; perché abbaiando a Lui mentirai, commetterai un peccato”26.
La conclusione di questo passaggio potrebbe essere riformulata come segue: Eviti di porsi come giudice che, come Adamo, giudica inutilmente il bene e il male. Perché se lo fa, inizia a confrontarsi con tutti e tutto. Questo si collega ad un altro sermone del Maestro Eckhart, in cui giunge alla seguente conclusione: “Faccia attenzione, dunque, a non considerarsi come questo o quell’uomo, in un modo o nell’altro, in particolare”.27.
Eckhart ricorda così un principio spirituale fondamentale, che si può leggere anche in un’iscrizione sul pavimento all’ingresso del Duomo di Siena – una delle cattedrali mariane più imponenti del Medioevo: CASTISSIMUM VIRGINIS TEMPLUM CASTE MEMENTO INGREDI, “entra nel castissimo tempio della Vergine in casto ricordo”. La spiritualità inizia con la domanda su come entro in un luogo di culto. L’ingresso in chiesa deve essere un percorso di purificazione spirituale, lasciando alle spalle tutti i pensieri di giudizio e di orientamento (Mt V, 24). Questo è ciò che i Padri della Chiesa latini chiamavano puritas cordis (purezza di cuore) e i greci apatheia. I lettori moderni sono tentati di confondere questa parola con “apatia”. Ma in questo caso si trattava dell’esatto contrario: la tranquillità interiore che permette a una persona di essere ricettiva nei confronti dell’ambiente. Il padre del deserto greco Evagrio Pontico la riassunse come segue: “L’apatia è uno stato di calma incrollabile, dove i nemici non possono disturbare, dove la paura non può preoccupare, dove le ferite sono trattate con pazienza, dove le trasformazioni e i capricci della nostra esistenza mortale non ci fanno vacillare, dove la volontà è separata e incrollabile perché è diretta verso Dio”.28.
Reattività
Il secondo leitmotiv segue il primo, nel momento in cui l’apatia ci trasforma in esseri reattivi. Come ho suggerito prima, i bambini non hanno problemi a interpretare un sorriso sincero: ricambiano il sorriso. Questa è reattività. Gli atti di comprensione reattiva ci permettono di tornare bambini. Giovanni Climaco, un altro maestro spirituale della tarda antichità, riassunse il legame tra questo secondo leitmotiv e il primo quando scrisse: “Così come il cattivo è due : un’altra cosa che è ciò che sembra essere e un’altra cosa che è e che non si vede; allo stesso modo il semplice (la mente semplice) non è doppio (non è due) ma solo Uno”29. Diventiamo un doppio mascherato di noi stessi non appena cediamo alla tentazione di confrontarci con altre persone, creando così un ‘Facebook’ di noi stessi. La persona semplice non fa confronti: è una sola. Questo è ciò che lo rende una persona vigile e lo distingue dalle creature divise che cercano di ricrearsi a propria immagine e somiglianza.
Il controesempio archetipico di questo fenomeno di sdoppiamento è la Vergine Maria. In molte illustrazioni medievali e tardo medievali della scena dell’Annunciazione (Lc I, 26-38), possiamo vedere un giardino recintato, chiamato hortus conclusus (Hld IV, 12). Questo giardino simboleggiava ciò che abbiamo letto in precedenza nell’iscrizione sul pavimento del Duomo di Siena: un luogo di contemplazione interiore. La porta attraverso la quale entra il Salvatore è il luogo della puritas cordis, del cuore vergine senza spine, in cui si attualizza ciò che i greci come Evagrio chiamavano ‘apatheia’. Solo su questa base Maria poté ricevere la PAROLA decisiva per la storia della salvezza e pronunciare le parole che le diedero la risposta: “Mi sia fatto secondo la tua parola” (Lc I, 38). L’angelo del Signore porta il messaggio a Maria e lei risponde nello Spirito Santo: questa è reattività – questo è amore. In accordo con questo, Evagrio scrive: “L’amore è il frutto dell’apatia”30.
Una citazione di Hans Urs von Balthasar riassume le implicazioni antropologiche di questa tradizione biblica: “Se la madre ha sorriso al suo bambino per molti giorni e settimane, un giorno riceve il sorriso del bambino in risposta. Ha risvegliato l’amore nel cuore del bambino, e nel risveglio all’amore, il bambino si risveglia alla conoscenza: le vuote impressioni sensoriali si raccolgono significativamente intorno al nucleo del Tu”31. L’amore è un fenomeno che unisce le persone. Attraverso di esso, l’uomo diventa una persona – un essere capace di stabilire relazioni, attraverso le quali la PAROLA che è diventata uomo può risuonare.
La spiritualità come metodo di conoscenza
Questo mi porta alla terza lettera del mio piccolo primer: “Risvegliandosi all’amore, il bambino si risveglia alla conoscenza”. La reattività è un modo di conoscere. Questo è stato a lungo ignorato dalla filosofia moderna, dall’epistemologia e dalla teoria della scienza. Ecco perché, nella mia ricerca volta a ricostruire questa modalità di conoscenza, mi sono ispirato a un pensatore del tardo Medioevo: Nicola de Cues (1401-1464)32.
Nella sua tarda opera Sulla caccia alla saggezza, Cusano espresse con insuperabile precisione le dimensioni filosofiche ed epistemologiche di questa modalità di conoscenza: “Così l’uomo è un’arpa vivente (vivum psalterium) che possiede in sé tutto ciò che è necessario per cantare le lodi di Dio che conosce in sé (…) Nessun’altra scienza è necessaria per lui (…). Così, lodando Dio perché è buono, sa con certezza che il bene è degno di lode”33 (421). L’uomo apatico è un vivum psalterium, un’arpa vivente che si lascia toccare da ciò che accade intorno a lui. Ecco perché quest’uomo ha dentro di sé tutto ciò di cui ha bisogno per cantare le lodi di Dio – le lodi che hanno segnato la tradizione monastica, al cui centro c’era il salterio, il libro dei salmi cantati quotidianamente.
Una tale preghiera non è qualcosa che l’uomo può produrre con la propria autorità. La lode nasce solo quando qualcosa risuona dentro di noi, quando qualcosa ci tocca e risveglia in noi una risposta viva. Senza questo dono, come sottolinea la citazione precedente, non saremmo in grado di riconoscere ciò che è vero, bello e buono. Non sapremmo cosa è degno di lode.
Questo può essere espresso in modo più tecnico: la lode è un modo originale di conoscere. La modernità ci ha convinto che i valori – compresi i valori del vero, del buono e del bello – sono soggettivi; non si basano su qualità oggettive di valore nel nostro ambiente naturale e culturale. Il recente dibattito filosofico, sulla scia di pensatori come Charles Talyor e Max Scheler, ci ha ricordato che il bene e il bello hanno una realtà oggettiva, e che gli atti di ‘percezione del valore’ – come gli atti di percezione – hanno il carattere della propria modalità di conoscenza: derivano da un modo di percepire il mondo che non può essere sostituito da altre modalità di conoscenza, come le forme di percezione sensoriale oggettivante o il giudizio riflessivo. È qui che si trova l’interesse della citazione precedente: non lodiamo qualcosa perché pensiamo che sia ‘buono’ – come il diavolo di Niklas Luhmann – dalla prospettiva di un osservatore distante. Piuttosto, è il contrario: giudichiamo una cosa buona perché abbiamo iniziato a lodarla prima ancora di pensarci.
Secondo la tradizione spirituale, persino il diavolo non può resistere alla tentazione di lodare la gloria di Dio, ma si irrita immediatamente, riducendo la sua lode a un atto demoniaco di auto-rifiuto. Il diavolo è quindi diverso dal filisteo. Un filisteo poco istruito loderebbe un’opera d’arte solo dopo aver cercato il nome dell’artista su Wikipedia e aver scoperto che il suo lavoro è considerato degno di lode. Non è così che lavora il diavolo. Non perde il momento in cui la gloria di Dio risveglia delle risonanze in noi e ci apre gli occhi su qualcosa che non avevamo visto prima. Resiste solo alla tentazione di rispondere a quella chiamata con amore – la sua fede, la fides mortua, è senza amore, senza vita… morta!
Paul Klee aveva in mente questa dimensione pre-riflessiva della comprensione reattiva del significato quando scrisse: “L’arte non riflette il visibile, ma rende visibile”34. Finché un’opera d’arte non rende visibile qualcosa, aprendo i nostri occhi e risvegliando risonanze inaspettate dentro di noi, non riconosciamo nulla – rimaniamo ciechi nei confronti dell’arte, oppure ci troviamo di fronte a un’opera di fabbricazione artistica che non è all’altezza delle sue ambizioni. D’altra parte, se rende visibile qualcosa, ci apre un mondo. Ma questo non vale solo per le forme di comprensione dell’arte. Si applica a tutti i predicati di perfezione che ci aprono il mondo, compresi i predicati di bontà, verità ed essere.
Proskynesis: L’irriducibilità degli oggetti sacri
Le modalità di conoscenza che ci permettono di accedere a predicati di perfezione trascendentale sono legate ai sentimenti che accompagnano gli atti di percezione del valore. Questo mi porta alla conclusione del mio piccolo saggio sulla riscoperta del sacro: la sfida di guidare verso il dono del discernimento dello spirito sulla base di un incontro esemplare con personaggi ontici di santità assoluta. Nel contesto della trasformazione digitale, questa sfida può essere riassunta nella seguente domanda: Quali sono le tecnologie del sé che ci permettono di distinguere tra oggetti e artefatti eudaimonici e demoniaci – gli oggetti e i media di valore che ci mettono sulla strada del nostro destino individuale e ci permettono di diventare soggetti liberi e sensibili alla risonanza, e gli oggetti che ci rinchiudono in forme di illusione di autonomia e quindi ci consegnano alle pratiche manipolative dello psicocapitalismo digitale?
Per fornire una base antropologica a questa capacità di discernimento, è essenziale distinguere tra stati d’animo religiosi e sentimenti oggettivamente fondati e gratificanti. Per fare questo, è utile guardare prima alla recente ricerca neuroscientifica, descritta come fenomenologica. La differenza critica tra stati d’animo e sentimenti può essere descritta come una differenza grammaticale: gli stati d’animo sono intransitivi, i sentimenti sono transitivi.
Iniziamo chiarendo la terminologia. In grammatica, esistono verbi transitivi e intransitivi. La frase “Vado a fare una passeggiata” è intransitiva – non ha un riferimento all’oggetto. La frase “Sto addestrando il mio cane” è transitiva – ha un riferimento immediato all’oggetto. In inglese, possiamo anche dire “porto a spasso il mio cane” (“portare a spasso il mio cane”, promener essendo transitivo; d’altra parte, “on ne joue pas untel”, a differenza di “gioco così e così”). Ma sarebbe grammaticalmente scorretto tradurre questa frase letteralmente come “Ich spaziere meinen Hund” (porto a spasso il mio cane). In tedesco, prima si va a fare una passeggiata – la presenza o meno di un cane non è essenziale per l’atto di andare a fare una passeggiata. Di conseguenza, il verbo “spazieren gehen” è intransitivo in tedesco – non ha un riferimento immediato all’oggetto. Per i verbi transitivi, il riferimento all’oggetto è costitutivo: non può “allenarsi” mentre cammina, ma solo “allenare qualcosa” (un cane, un gatto, un criceto).
Questa differenziazione grammaticale ci permette di esaminare più da vicino la differenza tra sentimenti e stati d’animo. I sentimenti, come ho detto prima, sono transitivi – hanno una relazione diretta con l’oggetto. Questo è ciò che li distingue dagli stati d’animo. eCiò che significa in termini di atti religiosi di percezione del valore può essere illustrato con l’esempio di un’immagine devozionale – ad esempio, quella di Giovanni del monastero di Heiligkreuztal nell’Alta Svevia, risalente al XIV secolo: l’apostolo Giovanni appoggia la testa sul petto di Gesù.
Questo motivo simboleggia un atto di amicizia, che si concretizza in sentimenti di gioia e pace interiore di fronte alla presenza di un amico. Va distinto dagli stati d’animo, che danno origine a una sensazione non specifica di pace o di gioia. Tali stati d’animo non sono necessariamente indipendenti da entità fisiche. Possono essere provocati da oli essenziali o da una bottiglia di vino, per esempio. Ma in questi casi, il riferimento all’oggetto non ha il carattere di un atto intenzionale reattivo; piuttosto, ha il carattere di un processo causale. Per questo motivo, è anche possibile creare un’atmosfera felice facendo ubriacare qualcuno di nascosto. È proprio questo il punto critico: “Se la presenza di un amico risveglia in me sentimenti di gioia, questo sentimento ha una relazione diretta con l’oggetto: è motivato dalla presenza fisica del mio amico – proprio come i sentimenti di tristezza che sorgono alla morte di una persona cara sono motivati dall’esperienza improvvisa che il suo corpo ha cessato di parlare e che tutto ciò che ha emesso è entrato in un processo di riduzione al termine del quale rimarranno solo polvere e cenere” (498 ss.).
Qui sta la differenza antropologica fondamentale tra stati d’animo e sentimenti – e questo mi riporta alle implicazioni teologiche del mio ABC spirituale. La preghiera ha il carattere di un atto intenzionale reattivo che stabilisce una relazione diretta con l’oggetto e, attraverso questo, ci dà qualcosa da conoscere. Ecco perché non è sufficiente posizionare candele o ciotole di incenso per creare l’atmosfera per la pratica della preghiera. Per una buona ragione, l’uso dell’incenso nella liturgia cristiana è sempre integrato in un contesto di azione: il bruciatore di incenso viene utilizzato per indicare qualcosa – un altare o un’icona, per esempio. In questo modo, l’incenso aiuta ad alleggerire l’atmosfera liturgica di base (come il consumo di vino). Ma rimane parte di una pratica di preghiera che stabilisce un rapporto intenzionale con un oggetto sacro.
L’uso di manufatti sacri nel contesto delle pratiche liturgiche e spirituali ci riporta quindi alla fonte della nostra esistenza come esseri personali, sensibili alla risonanza. Come abbiamo visto all’inizio, l’uomo non è un soggetto autonomo. Le cose hanno potere su di lui. E questo significa, come abbiamo notato sopra, seguire Don Ihde: “Noi facciamo le cose, che a loro volta fanno noi”. Basta modificare leggermente questa citazione per arrivare al punto teologico di questo principio antropologico: non solo creiamo gli oggetti sacri – siamo anche fatti da loro. Solo il nostro rapporto con gli oggetti sacri può renderci esseri personali!
In questo contesto, è essenziale ricordare un concilio che ha svolto un ruolo chiave nella storia della spiritualità cristiana, anche se è stato trattato con negligenza fin dall’inizio nella tradizione occidentale e non è nemmeno menzionato in molte storie moderne dei concili: il Secondo Concilio di Nicea, il settimo concilio ecumenico, tenutosi nel 787 d.C.. Il fatto che questo concilio non abbia mai raggiunto l’Occidente è legato alla genealogia della nostra concezione moderna della tecnologia, che abbiamo delineato all’inizio di questo articolo. Anche prima che gli oggetti sacri, le icone e le sculture cominciassero ad essere distrutti e gli altari sostituiti da tavoli sulla scia della Riforma, in Occidente cominciò a diffondersi l’impressione che il rapporto tra le pratiche spirituali e i loro oggetti fosse secondario – sia perché le persone sognavano l’immediatezza di Dio, sia perché gli oggetti sacri venivano sfruttati riducendoli alla loro funzione pedagogica o a strumenti di propaganda per la politica di identità confessionale.
Ma c’è una differenza tra un’icona o un altare, e un tubetto di sniff o una bottiglia di whisky. L’importanza del Secondo Concilio di Nicea risiede proprio in questo punto: ha guidato la distinzione tra le pratiche liturgico-spirituali realmente transitive e quelle falsamente intransitive – a partire dall’esempio prototipico delle icone cristiane: “Le icone riuniscono la memoria (memoria) e la volontà (voluntas) dell’adoratore nella contemplazione impressionante del Verbo divino incarnato. Così facendo, testimoniano il fatto che Dio è diventato fisicamente presente sotto forma di uomo e che si offre ancora alla venerazione (proskynesis) sotto forma di manufatti fisicamente tangibili” (525).
Gli oggetti e i manufatti sacri, in cui si materializza la presenza ontica di fenomeni di santità assoluta, sono quindi elementi costitutivi delle pratiche liturgico-spirituali, nella misura in cui queste sono ordinate a un rapporto di trascendenza personale. Trasformano i soggetti religiosi in persone la cui esistenza trascende l’orizzonte della sensibilità soggettiva. D’altra parte, nel caso di rituali senza scopo, il riferimento alla trascendenza viene prima o poi perso. Finiamo per celebrare solo noi stessi: il “Vieni, adoriamo” (venite adoremus) della liturgia cristiana dell’Incarnazione scivola nel narcisismo intersoggettivo del “Vieni, adoriamo” (526).
Un passaggio del commento di Andreas Jungmann alla Costituzione sulla Liturgia del Concilio Vaticano II è esemplare delle discussioni teologiche che hanno perso di vista questa differenza elementare, anche laddove si è resistito alla tentazione di lavorare a un’imborghesimento soggettivista del Cristianesimo: secondo Jungmann, “nel pensiero cristiano, l’assemblea riunita è il tempio di Dio (…) e la costruzione esterna è l’involucro (…) in cui il culto può svolgersi facilmente e correttamente. L’edificio deve essere funzionale” (LThK XII, 103). In un periodo in cui l’attività edilizia era ispirata dal movimento Bauhaus (“La forma segue la funzione”), tali commenti non potevano prevedere molte contraddizioni. eNel contesto dei valori mutevoli del XXI secolo, tuttavia, devono essere visti come i resti di un’epoca passata. E questo a prescindere dal fatto che le tradizioni religiose e spirituali dell’umanità siano o meno di importanza duratura.
Un appello per la sacralità delle pietre, dei luoghi e dei siti
In questo contesto, vorrei concludere menzionando uno dei luoghi più significativi nella pratica della preghiera abramitica: il luogo da cui, secondo la tradizione ebraica, il Messia entrerà a Gerusalemme, dove, secondo la tradizione islamica, avrà luogo il giudizio finale e dove, secondo la tradizione cristiana, Gesù pregò in solitudine prima del tradimento di Giuda.
Nei Vangeli, questo luogo appare più volte come luogo di divisione degli spiriti (Lc XIX, 28-44, Lc XXII, 39-53, Mt XXVI, 6-13, Lc XXIV, 36-53 e altri). La seconda delle quattro scene tra parentesi, la preghiera sul Monte degli Ulivi, è la più conosciuta. La prima scena si svolge qualche giorno prima: Gesù entra a Gerusalemme durante la processione della Domenica delle Palme. I suoi discepoli, a differenza della seconda scena sul Monte degli Ulivi, sono trasportati da un’ondata di entusiasmo spirituale: cantano le lodi di Dio. I Farisei reagirono con fastidio e gridarono a Gesù dalla folla: “Maestro, fai tacere i tuoi discepoli” (Lc XIX, 39). Gesù rispose: “Vi dico che se taceranno, le pietre grideranno” (Lc XIX, 40).
È in Origene che ho trovato il commento più illuminante su questo passo: “Se siamo in silenzio, significa che se l’amore di molti si raffredda, allora le pietre gridano”35. Se l’amore di molti si raffredda – questo descrive con sobria precisione la situazione nelle chiese d’Europa. Un segno di speranza è che ci sono ancora pietre. Me ne sono assicurata quando di recente ho scalato la croce di Lazfons in cima alla vetta della Cassia in Alto Adige, uno dei luoghi di pellegrinaggio più alti d’Europa. Alcuni ricercatori ritengono che le persone pregassero già nel Mesolitico su questa vetta, dove è stato costruito un santuario circa trecento anni fa. Se è davvero così, questo luogo è stato frequentato dagli esseri umani per 10.000 anni. Chissà cosa hanno sentito queste pietre nel corso dei millenni? Quando l’amore si raffredda, le pietre parlano – a volte addirittura urlano.
Note
- In particolare, Sarah Spiekermann, Ethical IT Innovation. A Value-based System Design Approach (New York: Taylor & Francis 2015[↩]
- https://www.youtube.com/watch?v=MnrJzXM7a6o[↩]
- In tedesco, “ roter Hering ‘, una metafora tradotta dall’inglese ’ red herring ”, usata per indicare un elemento destinato a distrarre l’attenzione dall’essenziale; NdT[↩]
- Vedere https://www.youtube.com/watch?v=jOC0zOXE-84&ab_channel=umdenkbar.[↩]
- Fondamentale su questo argomento: Thomas Fuchs, Defence of Man. Grundfragen einer verkörperten Anthropologie (Francoforte sul Meno: Suhrkamp 2020).[↩]
- Karl-Heinz Kohl, Die Macht der Dinge gezeigt. Geschichte und Theorie sackraler Objekte (“Il potere delle cose mostrato. Storia e teoria degli oggetti sacri”) (Monaco di Baviera: Beck 2003).[↩]
- I soldati in viaggio verso York si trasformano in riformatori, abbattono le immagini papiste, rompono i rayles, trasformano gli altari in tavoli). La religione tradizionale in Inghilterra, -1400-1580 (New Haven, Conn: Yale University Press 22005).[↩]
- A questo proposito, si veda Johannes Hoff, “L’eclissi del realismo sacramentale nell’epoca della riforma. Ripensare la Galassia Gutenberg di Lutero in un’epoca post-digitale”. In: New Blackfriars (2018), -248-270 (una traduzione sarà pubblicata a breve nella rivista Communio[↩]
- Per una critica di questo, vedere Thomas Fuchs, Das Gehirn – ein Beziehungsorgan. Eine phänomenologisch-ökologische Konzeption (“Il cervello – un organo relazionale. Una concezione fenomenologica-ecologica“) (Stoccarda: Kohlhammer 52016).[↩]
- Don Ihde e Lambros Malafouris, Homo faber Revisited. Postfenomenologia e teoria dell’impegno materiale. Postfenomenologia e teoria dell’impegno materiale”; Filosofia e tecnologia 32 (2019), -195-214, 195f.[↩]
- Un’opera fondamentale su questo tema: Jacques Derrida, Grammatologie. H.-J. Rheinberger e H. Zischler (Francoforte/M.: Suhrkamp 1974); e Bernard Stiegler, Technique et temps 1. Le défaut d’Epiméthée. Traduzione di Stephen Barker (Stanford, Calif.: Stanford UP 1998).[↩]
- Cathy O’Neil, Weapons of Math Destruction: How Big Data Increases Inequality and Threatens Democracy (New York: Crown 2016).[↩]
- William Cameron, Informal Sociology. A Casual Introduction to Sociological Thinking (New York: Random House 1963), 13.[↩]
- Cfr. Edmund Husserl, Die Krise der europäischen Wissenschaft und die transzendentale Phänomenologie (“La crisi della scienza europea e la fenomenologia trascendentale husserliana”), Husserliana VI (L’Aia: Springer 1954).[↩]
- Bernard Stiegler, Stati di shock. Stupidity and Knowledge in the 21st Century (Cambridge: Polity Press 2015) – in francese: Etats de choc: Bêtise et savoir au XXIe siècle, Fayard, 2012; non ancora tradotto in italiano. In italiano, si veda la recente traduzione di Qu’appelle-t-on panser? volume 1: L’immense régression, Paris, Les Liens qui libèrent, 2018, tradotto da Rosella Corda, Pensare, curare. Riflessioni sul pensiero nell’era della post-verità, Milano, Meltemi, 2024.[↩]
- Si riferisce alla pagina dell’edizione tedesca del libro.[↩]
- Bernard Stiegler, The Age of Disruption. Technology and Madness in Computational Capitalism (London: Cambridge 2019), in francese: Dans la disruption: Comment ne pas devenir fou? Babel, 2018.[↩]
- Cfr. Paul Nemitz e Matthias Pfeffer, Prinzip Mensch. Macht, Freiheit und Demokratie im Zeitalter der Künstlichen Intelligen (“Il principio dell’uomo. Pouvoir, liberté et démocratie à l’ère de l’intelligence artificielle”) (Bonn: Dietz 2020), 146-150 (citazione modificata).[↩]
- Nemitz e Pfeffer, Prinzip Mensch, 233.[↩]
- Marshall McLuhan, La Galassia Gutenberg. The Making of the Typographical Man (Toronto: University of Toronto Press 2012), 37sq (traduzione personale – per la versione tedesca).[↩]
- Fondamenti su questo argomento in Shoshana Zuboff, Das Zeitalter des Überwachungskapitalismus (“L’era del capitalismo della sorveglianza”) (Berlino: Campus 2018).[↩]
- Nicholas G. Carr, The Shallows. What the Internet is Doing to our Brains (New York: W.W. Norton 2011), 83 (traduzione personale in tedesco[↩]
- Per integrare gli assunti di base forse troppo semplicistici della monografia citata da Soshana Zuboff, vedere “Evgeny Morozov, Capitalism’s New Clothes. Il nuovo libro di Shoshana Zuboff Survellance capitalism, enfatizza il primo a scapito del secondo”, The Baffler (04.02.2019), https://thebaffler.com/latest/capitalisms-new-clothes-morozov.[↩]
- Citato da Michel de Certeau, art. “Mistica”. Enciclopedia universalis vol. 12, 1031ss, 1035 (traduzione personale in tedesco).[↩]
- Cfr. Niklas Luhmann, Soziologische Aufklärung 4. Beiräge zur funktionalen Differenzierung der Gesellschaft (Wiesbaden: Springer 52005), 242-246.[↩]
- Pr. 83 (Renovamini spiritu), in Maestro Eckhart, Deutsche Werke, ed. by Josef Quint (Stuttgart: Kohlhammer 1976), 3:441,2-442,5 (segue DW).[↩]
- Pr. 46 (Haec est vita aeterna), DW 2:383,2-8.[↩]
- Richard Byrne, “Cassian and the aims of the monastic life”, in Cistercian Studies Quarterly 22 (1987), -3-16, 11.[↩]
- Giovanni Climaco, Die Leiter zum Paradiese oder: Vorschriften, wodurch eifrige Seelen zur christlichen Vollkommenheit geleitet werde (“La scala del Paradiso o : Precetti con cui le anime zelanti sono guidate alla perfezione cristiana”), tradotto da Elias, Arcivescovo di Creta (Heppenheim: Kastner 1987), 77.[↩]
- Evagrio Pontico, “Praktikos”. In: Praktikos / Über das Gebet (“Sulla preghiera”) (Münsterschwarzach: Vier Türme 21997), cap. 81.[↩]
- Hans Urs von Balthasar, Glaubhaft ist nur Liebe (“Solo l’amore è credibile”) (Einsiedeln: Johannes 1963), 49.[↩]
- Cfr. Johannes Hoff, The Analogical Turn. Ripensare la modernità con Nicola di Cusa (Grand Rapids: Eerdmans 2013).[↩]
- Nicola di Cues, Die Jagd nach Weisheit (“La caccia alla saggezza”) latino-tedesco (Amburgo: Meiner 1964), c. 20 nn. 56-57 (traduzione modificata).[↩]
- Paul Klee, Kunst-Lehre (Leipzig: Reclam 1991), 60.[↩]
- Tommaso d’Aquino, Sancti Thomae Aquinatis Catena Aurea In Quatuor Evangelia Adjectis Brevibus Adnotationibus, Latin Edition (Charleston: Nabu Press 2012), Lc XIX, 40 (nostra traduzione).[↩]